Giornalismo e comunicazione in Russia

Giornalismo e comunicazione nella Russia di oggi. Dalla carta stampata ai nuovi media. Intervista con Boris Dolgin e Boris Dubin.

Giornalismo e comunicazione nella Russia di oggi
Dalla carta stampata ai nuovi media
Giovedì 5 novembre 2009
Facoltà di Scienze Politiche
Sala Lauree
Milano, Via Conservatorio, 7

Depliant-1

Download PDF

Di seguito,  pubblichiamo alcune parti dell’intervista a Boris Dolgin e Boris Dubin:

“Noi russi siamo stanchi di tutte queste cose, non vogliamo sentire, non ne vogliamo più sapere”

In Russia, talvolta, capita di ricevere questa risposta quando si tenta di affrontare temi spinosi come la guerra in Cecenia o il nonnismo. In particolare stupisce che questo atteggiamento si registri fra i giovani con un’istruzione medio – alta e anche esperienza di vita o di lavoro all’estero.

Come mai questo rifiuto di essere informati?
Dolgin: Di solito questo atteggiamento rivela non un rifiuto all’informazione, ma un rifiuto all’impegno sociale. E’ probabile che si tratti di persone bene informate, ma senza nessuna inclinazione all’attivismo, che preferiscono occuparsi esclusivamente delle proprie questioni personali. Parlare di temi sgradevoli che comunque non si possono risolvere è considerato inutile.
Dubin: Da un punto di vista statistico-sociale secondo i dati rilevati dal nostro centro, una parte della gioventù russa, in particolare quella più benestante e istruita, con esperienza di lavoro all’estero, preferisce estraniarsi dal dibattito politico, dalle questioni più spinose, dalle discussioni sulle difficoltà e i problemi della società contemporanea. Il fatto che la giovane generazione eviti il confronto su queste tematiche non significa che non ne sappia niente. L’atteggiamento rivela un divario e una mancanza di comunicazione fra differenti gruppi e strati sociali e generazionali. Più che di posizioni divergenti si può parlare di un difetto di trasmissione della conoscenza relativa a temi ostici; l’esperienza viene tramandata solo attraverso determinati canali. E i canali di comunicazione interpersonale in Russia non vengono utilizzati a questo scopo. Il che, ovviamente, contribuisce amplia il divario già esistente.
Dolgin: Aggiungerei anche che di solito la fascia di età presa in considerazione, conosce bene lo stile di vita occidentale, ma sceglie di recepirne solo determinati valori. I giovani sono orientati a perseguire il proprio successo personale. Vivono più o meno in questa situazione: tutto quello che non è legato al loro benessere materiale non li tocca. Probabilmente guardano con piacere i film europei e americani, ascoltano musica europea, cercano di trovare un lavoro d’ufficio che corrisponda il più possibile ai canoni occidentali, con la possibilità di comprare una bella macchina, ecc. ecc. Una parte di loro ha preso le distanze dalle questioni più problematiche, e il desiderio di evitare la discussione è spia del fatto che invece sanno bene di cosa si tratta. Ma a che pro parlare di una cosa che non ci riguarda direttamente? Così si costruiscono intorno una campana di vetro opaca, non trasparente: “ecco, questo è il mio mondo, ci vivo, ci vivo bene; quando il mio mondo verrà attaccato direttamente, allora vedremo come agire, cercheremo di risolvere la questione con i mezzi a nostra disposizione. I mondi delle altre persone non mi riguardano; se volessero potrebbero vivere in un mondo simile a quello che mi sono costruito io.”
Dubin: Ecco, questo è il punto saliente: a che serve parlare di un problema che comunque non si può risolvere? Comportandosi così si proteggono, si separano da quelle situazioni che possono essere modificate solamente grazie all’impegno e all’azione personali. Oggi la Russia contemporanea è costituita di nicchie separate fra le quali la comunicazione non funziona o funziona male: questo è probabilmente all’origine di quel sentimento di impotenza che induce a pensare che, dal momento che le cose non cambiano, è inutile preoccuparsene. La vita delle altre persone è spezzata, stritolata? Dipende dal fatto che le persone non sono in grado di cambiare la loro vita, per cui tanto vale non impegnarsi e rimanere nel proprio brodo. Certo, il risultato è che queste vite vengono ulteriormente stritolate e isolate nella propria tana. In epoca sovietica era vivace la critica rivolta alla società borghese contemporanea; critica che riguardava, appunto, l’incomunicabilità di una società in cui in cui le persone erano individui isolati l’uno dall’altro; per ironia della sorte, la società post-sovietica è diventata un modello di non-comunicazione. Questa è la tendenza odierna. Ci sono chiaramente, tentativi di controbilanciare e invertire questa tendenza, ma al momento questo è il quadro generale.

Come si lega il conflitto ceceno all’incremento della violenza in Russia?

Dubin: C’è da dire che a livello di massa, anno dopo anno si verifica una sorta di assuefazione alla violenza. Come risultato, in Russia, e non mi riferisco solamente a Mosca, si diffonde sempre più spesso la convinzione che qualunque problema può essere risolto con la forza. Da un punto di vista sociologico si tratta di un fatto estremamente indicativo. In caso di scontri, litigi o conflitti, di solito tutte le parti coinvolte concordano, più o meno consapevolmente, che non esistono altre soluzioni possibili se non l’uso della forza. Il più forte non riconosce l’altro soggetto come pari, che quindi può essere ucciso, picchiato, sequestrato, ecc. E’ inquietante che la coscienza di massa si sia adeguata a questo modo di pensare.
Per quanto riguarda invece il processo di cosiddetta “balcanizzazione” del Caucaso, un processo strisciante, sotterraneo, che ormai va avanti da diversi anni, le autorità, sia quelle locali sia quelle federali, non sono in grado di identificare il problema come tale e di conseguenza di risolverlo in maniera costruttiva ed efficiente: se la questione non si risolve da sola, l’unica opzione valida sarà l’invio di altre truppe e la ripetizione di uno scenario già noto. E’ un atteggiamento pericoloso.
Dolgin: Io direi che del problema, almeno in parte si è presa coscienza già negli anni passati, e ci si interroga sulle possibili soluzioni: come accordarsi con le élites, come introdurre alcune modifiche, come raggiungere determinati compromessi. L’arte del compromesso si è un po’ persa, per cui c’è un diffuso senso di impotenza.
Dubin: A proposito della perduta capacità di raggiungere il compromesso, preciserei che a livello di governo sono stati allontanati, a partire dal 2000, quei personaggi che avevano la conoscenza dei meccanismi interni e l’esperienza di dialogo pregressa che avrebbe potuto essere impiegata per un’eventuale riconciliazione, o almeno per la risoluzione parziale di alcuni aspetti problematici. Le persone più idonee sono state estromesse dal Governo e dalle altre istituzioni. Questo ovviamente ha minato e indebolito in primis le autorità stesse, non tanto sul piano della forza, o meglio, della violenza organizzata, quanto su quello dell’intelletto collettivo, della capacità di analisi della situazione, e dell’utilizzo di meccanismi efficaci per la risoluzione dei conflitti.
Dolgin: Di regola per gestire la situazione in Caucaso si utilizza un uomo delle strutture locali che sia affidabile, che conosca bene “i suoi” e sappia “come trattarli”, a cui si aggiungono alcuni esperti dei servizi speciali che supervisionano il processo. Non è escluso che a volte tale approccio si riveli parzialmente di successo, ma la mancanza di disponibilità al dialogo con le differenti èlites immancabilmente ha ripercussioni negative. Lo si è visto molto bene in Cecenia, dove, invece del dialogo con le varie parti in conflitto e i vari clan, si è data la preferenza ad un clan dominante, il che ha generato e alimentato la lotta fra i vari clan, lotta che ha travalicato i confini della Cecenia, riversandosi sulle strade di Mosca e persino all’estero.
Ritornando alla questione della diffusione della violenza, oltre al fatto che viene recepita come la norma, c’è anche questo fattore: i militari e i poliziotti che hanno servito nei punti caldi si portano dietro quell’esperienza ovunque vadano, continuano a comportarsi come se ancora fossero in Cecenia, applicando gli stessi metodi, gli stessi riflessi, le stesse abitudini. In caso di sospetto, anche minimo, prima te le danno sul muso, poi ti controllano i documenti, per sicurezza ti trascinano in un altro posto e lì finiscono di controllare. Questo fenomeno si può definire “cecenizzazione”: l’esportazione nelle altre regioni russe della stessa metodologia che ha caratterizzato la lotta antiterrorismo in Cecenia.
Dubin: Si tratta di una militarizzazione dei rapporti sociali che non si verifica platealmente, ma poco a poco, in maniera strisciante. Risolvere qualunque questione con la forza è considerato più efficace che sprecare tempo a mettersi d’accordo, chiarirsi, trovare un linguaggio comune. Questa abitudine del ricorso alla forza, e soprattutto la sua diffusione fra ampi strati della popolazione, è decisamente pericolosa, soprattutto se la si rapporta alla storia russa. Questa militarizzazione soft dei rapporti sociali si è già osservata altre volte in passato, fa parte della tradizione russa, e di tanto in tanto emerge con prepotenza, con proclamazione della legge marziale, deroghe alla legislazione ordinaria, ecc. Spaventa il fatto che la maggior parte dei russi, per lo meno quelli delle generazioni più anziane, trasmetta questa mentalità all’interno della propria famiglia, delle proprie mura domestiche, alle generazioni più giovani, che si adeguano al linguaggio della violenza, lo riconoscono come normale, mentre questioni come il rispetto della legge, la tolleranza, la possibilità e la capacità di raggiungere un accordo non rivestono un ruolo centrale nella società.
Dolgin: Lo stesso problema l’hanno vissuto altri Stati che sono rimasti invischiati in lunghi conflitti, magari non sul proprio territorio: è una specie di adattamento sociale di chi ha vissuto e sperimentato la guerra, non è un problema solo russo e solo di oggi; i Paesi post-sovietici si ricordano bene gli “afghani” – i soldati sovietici che hanno combattuto in Afghanistan – mentre gli americani affronteranno un problema analogo con i propri reduci dall’Iraq. E’ un problema complesso e serio, e temo che in Russia non siamo sufficientemente preparati per affrontarlo.

Intervista di Elena Murdaca

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Roma, 10-11 giugno 2025. Oleg Orlov, Oleksandra Romantsova e Leanid Sudalenka presentano la campagna People First.

Dall’8 all’11 giugno 2025 Oleg Orlov, Oleksandra Romantsova e Leanid Sudalenka, rappresentanti delle ONG insignite del Premio Nobel per la Pace 2022, presentano in Italia la campagna People First, proposta e sostenuta da più di quaranta associazioni ucraine, russe e internazionali, tra le quali Memorial Italia e la Federazione Italiana Diritti Umani, per richiedere di inserire al tavolo delle trattative di pace tra Russia e Ucraina la questione della liberazione di tutte le persone incarcerate o deportate dopo il 24 febbraio 2022. Dopo gli incontri milanesi di domenica 8 giugno che prevedono la tavola rotonda I confini dell’impero di Putin al Festival di Radio Popolare e un incontro con l’Associazione dei russi liberi, Oleg Orlov raggiungerà a Roma due rappresentanti delle altre associazioni insignite del Premio Nobel per la pace 2022 oltre a Memorial: Oleksandra Romantsova, direttrice esecutiva del Centro per le Libertà Civili di Kyiv e Leanid Sudalenka, direttore della sezione di Gomel’ di Vjasna, associazione per la difesa dei diritti umani in Belarus fondata da Ales’ Bjaljacki. La delegazione dei Premi Nobel parteciperà a eventi strategici mirati a chiedere all’Italia di sostenere la campagna People First. Martedì 10 giugno alle 11.00 Oleg Orlov, Oleksandra Romantsova e Leanid Sudalenka terranno un’audizione presso la Commissione Affari esteri e comunitari della Camera dei deputati sul tema della liberazione delle persone incarcerate o deportate dall’inizio del conflitto russo-ucraino: evento | WebTV. Quindi alle 15.00 animeranno l’incontro, aperto al pubblico, Putin’s Russia and the war against Ukraine: Insights from Human Rights Activists presso l’Istituto Affari Internazionali (via dei Montecatini 17), coordinato dalla direttrice Nathalie Tocci. Per partecipare è necessario registrarsi: Putin’s Russia and the war against Ukraine: Insights from Nobel Prize winning Human Rights Activists | IAI Istituto Affari Internazionali. Infine mercoledì 11 giugno alle 10:30 la delegazione parteciperà all’Udienza generale del Santo Padre Papa Leone XIV in piazza San Pietro e alle 14:30 terrà un’audizione presso le Commissioni riunite Affari esteri e difesa e Diritti umani del Senato della Repubblica: Audizione informali in Commissioni riunite 3a e Diritti umani | Senato della Repubblica.

Leggi

Raccolta fondi per i prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa.

Memorial Political Prisoners Support aiuta da tempo in modo autonomo i cittadini ucraini detenuti nelle carceri delle Federazione Russa per ragioni di carattere politico. Al momento la situazione è ulteriormente peggiorata e per questo motivo l’associazione desidera chiedere sostegno anche attraverso la rete dei Memorial europei, promuovendo una campagna di raccolta fondi. Le donazioni saranno destinate alla copertura delle spese legali e alla fornitura di aiuti umanitari. I prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa hanno bisogno di assistenza legale, hanno bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto hanno bisogno di non essere dimenticati. Per maggiori informazioni e per contribuire –> Urgent appeal: help Ukrainian prisoners in Russia – Поддержка политзаключённых. Мемориал. Appello urgente: raccolta fondi per i prigionieri ucraini detenuti nella Federazione Russa. La tragedia dei prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa si consuma tra le pressioni degli agenti di sicurezza, condizioni di detenzione disumane, torture e processi già decisi. “In cella non c’erano né acqua, né gabinetto, né brande; dormivamo su tavolacci di legno. Alla latrina comune non ci portavano tutti i giorni, e comunque sempre col tempo contato. Giorno e notte si sentivano le urla dalla stanza delle torture: non c’era modo di tranquillizzarsi o di raccogliere i pensieri. Una volta ho sentito trascinare qualcuno fuori da una cella vicina, poi uno sparo. Le guardie ci dicevano che presto sarebbe toccato anche a noi, che eravamo troppi.” A questo clima di terrore spesso si aggiunge la totale assenza di contatti con i propri cari. La corrispondenza, l’invio di pacchi e le visite – rari momenti di sollievo nella prigionia – sono per molti detenuti ucraini difficilissimi, se non impossibili da ottenere. Trovare e poter pagare un avvocato indipendente, che svolga il proprio lavoro con coscienza, sostenga il suo assistito e ne difenda i diritti, è un’impresa altrettanto ardua. Riusciamo ancora a offrire questo tipo di supporto, ma ora più che mai abbiamo bisogno del vostro aiuto per andare avanti. Per garantire assistenza legale e aiuti umanitari ai cittadini ucraini detenuti nella Federazione Russa per motivi politici servono 38.000 euro. È una cifra considerevole, ma siamo migliaia anche noi che sosteniamo i prigionieri ucraini. In fondo, basterebbe che 3.800 persone donassero 10 euro ciascuna. Questa volta, però, non vi chiediamo solo una donazione. Vi invitiamo a parlare di questa raccolta fondi alle persone di cui vi fidate: amici, familiari, compagni di emigrazione e colleghi. L’appello è disponibile anche in inglese: potete condividerlo anche con chi non parla russo. A chi sono destinati i fondi? A causa degli alti rischi cui sono esposti i prigionieri ucraini nelle carceri della Federazione Russa molte richieste di aiuto ci arrivano in forma anonima. Possiamo condividerne solo alcune, a titolo esemplificativo. Aiuti umanitari Inviamo regolarmente pacchi a decine di ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa: cibo, medicinali, libri, sigarette, articoli per l’igiene, vestiti, scarpe – beni di uso quotidiano che in carcere diventano inaccessibili. Sergej Gejdt: “Vi scrivo per chiedervi aiuto. Se riusciste a mandarmi qualcosa da mangiare e delle sigarette ve ne sarei immensamente grato. I miei hanno problemi di soldi, mi pare di capire, e neanche io ho modo di chiedere a loro di darmi una mano, non avendo nessuno cui scrivere o che possa informarli che non ho più nulla. Il problema è che con i pochi rubli che avevo sul conto ho ordinato l’indispensabile: quel poco per lavarmi… E per il cibo non mi è rimasto nulla. Qualche compagno, per fortuna, mi dà una mano come può. Grazie infinite per il vostro tempo e per aver letto la mia richiesta.” Janina Akulova, condannata a nove anni di colonia penale a regime ordinario e a una multa di 700.000 rubli, chiede aiuto per un’altra detenuta: “C’è una ragazza qui che ha urgente bisogno d’aiuto, non ha letteralmente nulla. Noi cerchiamo di tenere duro, ma lei è messa davvero male. Dico sul serio: non ha niente di niente, neppure l’essenziale per lavarsi. Le abbiamo dato quello che potevamo, ma… potete ben capire.” Per continuare a spedire pacchi, servono attualmente 3.320 euro. Assistenza legale Non possiamo divulgare l’identità dei prigionieri ucraini che difendiamo legalmente: metteremo a rischio loro e i loro avvocati. Attualmente sono decine gli uomini e le donne – già condannati o in attesa di giudizio – che dipendono dal nostro aiuto. Quello che gli ucraini sono costretti a subire nelle carceri russe è sconvolgente anche per chi credeva di conoscere bene la brutalità del sistema. Condizioni inumane, torture, violenza oltre ogni limite. Benché, in assenza di un processo equo, un avvocato non possa garantire la liberazione di un innocente, il suo lavoro resta fondamentale. L’avvocato tutela i diritti del detenuto, richiama l’attenzione pubblica sul caso e, spesso, è l’unico interlocutore libero con cui il prigioniero possa comunicare direttamente, l’unico tramite per mantenere un legame con i familiari. Da mesi finanziamo gli avvocati che seguono decine di prigionieri ucraini. Molti casi durano da più di sei mesi e non accennano a finire. Per garantire assistenza legale ai prigionieri politici ucraini servono 31.300 euro. Totale della raccolta: 38.000 euro.Il 10% della somma sarà destinato a coprire le commissioni dei sistemi di pagamento e le perdite dovute alla conversione in rubli. Ogni donazione è importante! La cifra si può raggiungere solo se sono in tanti a contribuire, anche con un piccolo gesto. Al momento, per poter fare la differenza, abbiamo un enorme bisogno non solo di donazioni, ma anche di aiuto nella condivisione. Se 3.800 persone donassero 10 euro ciascuna, potremmo farcela. 5 giugno 2025

Leggi