(di Alessandro Cifariello, ricercatore presso l’Università degli Studi della Tuscia)
31 maggio 2022
Aggiornato 04 ottobre 2022 alle 09:18
L’intera ideologia sottesa ai discorsi di Putin e del patriarca Kirill rimanda a un principio tipico della cultura imperiale russa dell’800, la triade di Uvarov, rappresentata da pravoslavie (ortodossia), samoderžavie (autocrazia), narodnost’ (identità/tradizione nazionale). Pensata come antitesi a Liberté, Égalité, Fraternité.
Il 24 febbraio, data che sarà ricordata per il futuro dell’intera Europa, abbiamo assistito all’attraversamento del confine russo-ucraino da parte di mezzi corazzati russi marchiati dalla lettera Z. La stessa scritta è comparsa anche nelle perquisizioni della sede moscovita di Memorial, considerata oggi inoagent, agente straniero, e per questo chiusa. Si tratta di azioni che fanno parte di una più complessa operazione speciale militare, che si svolge in qualunque ambito sociale dello spazio geopolitico post-sovietico.
In relazione all’operazione speciale si costruisce una narrazione in cui, per legge, è vietato l’uso del termine “vojna”, guerra. Infrangendo questa narrazione sulla prima rete russa, in prima serata, durante il telegiornale, la giornalista Marina Ovsjannikova si è esibita con l’ormai celebre cartello “Fermate la guerra, non credete alla propaganda, vi stanno mentendo”. L’uso di “guerra”, “propaganda”, “menzogna”, accanto alla verità ufficiale di stato, condanna Ovsjannikova a essere accreditata inoagent. Altri, a differenza dell’Ovsjannikova, pagano l’opposizione con la propria vita, com’è accaduto a Oksana Baulina, attivista vicina a Naval’nyj che lavorava per The Insider (rivista a sua volta considerata inoagent) e corrispondente di guerra in Ucraina; il 23 marzo è stata fatta a pezzi da un drone a Kiev. La verità non si può raccontare.
Questi esempi ci fanno riflettere sull’importanza del legame tra verità e racconto, tra natura e lingua. A partire da un approccio linguistico e storico-culturale ritengo fondamentale rimarcare il sovvertimento dell’uso delle preposizioni “na” e “v” associate alla nazione Ucraina. Nel 1845 Taras Ševčenko, padre della poesia ucraina e dello stesso movimento nazionale ucraino, in una lirica scriveva “Na Vkrajini mylij”, nella cara Ucraina. Vent’anni dopo Michail Katkov, intellettuale nazionalista russo, parlando d’Ucraina usava invece “V Ukraine”, in Ucraina. Dopo oltre centocinquant’anni, oggi, a differenza del russo della Federazione Russa, in cui la norma vuole “na Ukraine”, nel russo dell’Ucraina indipendente si è passati a “v Ukraine”: la preposizione “na”, che si usa per un bordo, un confine – come ricorda la radice stessa di Ucraina – è inadatta a combinarsi con il nome di uno stato sovrano.
L’intera ideologia sottesa ai discorsi di Putin e del patriarca Kirill rimanda a un principio tipico della cultura imperiale russa dell’800, la triade di Uvarov, rappresentata da pravoslavie (ortodossia), samoderžavie (autocrazia), narodnost’ (identità/tradizione nazionale). Pensata come antitesi a Liberté, Égalité, Fraternité, divenuta proprietà dell’Occidente democratico e liberale, questa triade fu rielaborata da Katkov durante il regno di Alessandro II in funzione antidemocratica e antiliberale.
Dotato di grande autorevolezza, Katkov dirigeva il quotidiano Moskovskie vedomosti e la rivista Russkij vestnik, fondamentale per la letteratura russa (lì comparvero Padri e figli di Turgenev, Anna Karenina di Tolstoj, Delitto e castigo, I demoni, L’idiota, i Fratelli Karamazov di Dostoevskij). Conservatore amante delle lingue classiche e della cultura umanistica, si era apertamente schierato contro gli intellettuali di orientamento democratico-liberale. Non era particolarmente giudeofobo rispetto a contemporanei più aggressivi, come ad esempio Vitalij Šul’gin, fondatore e direttore del quotidiano russofilo di Kiev, Kievljanin, che nel 1864 in funzione antipolacca utilizzerà lo slogan “Kiev era, è e sarà russa”. In seguito all’insurrezione polacca del 1863-1864 non era infatti ammessa una polonizzazione, né tantomeno un’ucrainizzazione, di Kiev.
In Katkov, più che negli altri, erano ben presenti però posizioni antipolacche. Suonato l’allarme nei confronti del partito polacco della “riva destra del Dnepr’”, colpevole di aver provocato le agitazioni antirusse, egli sosteneva l’attuazione di misure volte alla russificazione del territorio. La lotta in Ucraina era una questione di vita o di morte per determinare chi tra Russia e Polonia dovesse sopravvivere come nazione. Katkov diceva spesso che non poteva esistere una grande Polonia accanto a una grande Russia.
Alessandro II in un primo momento aveva permesso la discussione pubblica delle varie “questioni nazionali” e così, attraverso Osnova (“fondamenta”, “base”), rivista con edizione bilingue russo-ucraina, che ebbe vita brevissima, gli intellettuali ucraini cercarono di far conoscere a tutta la popolazione le peculiarità della nazione ucraina. Nel 1863, proprio nel pieno dell’insurrezione polacca, fu emanata la circolare ministeriale di Pёtr Valuev, con cui si ordinava la sospensione delle pubblicazioni di letteratura religiosa, scolastica e per l’alfabetizzazione, “na malorossijskom jazyke”, in piccolorusso (ossia in ucraino). Il motivo di quest’azione censoria fu esclusivamente politico: bloccare idee e progetti separatisti che partivano dal diffondere tra il popolo gramotnost’, alfabetizzazione, e prosveščenie, istruzione.
Come spesso avveniva, le scelte governative erano supportate dall’autorevolezza della voce di Katkov: lui scriveva, lo zar recepiva e ordinava, e il governo agiva. Katkov credeva ciecamente alla teoria del complotto anti-russo: ad agire contro la Russia nelle regioni sudoccidentali era il “perfido intrigo gesuitico”, che aveva saputo raccogliere e organizzare rivoluzionari, divenuti in modo più o meno cosciente armi altrui. I principi dell’intrigo gesuitico che pervertivano la Russia erano naturalmente materialismo, ateismo, emancipazione, anarchia ed educazione liberale, che predicava cosmopolitismo, se non addirittura irreligiosità. Insomma, in Katkov ritroviamo gli stessi elementi della Russia contemporanea: gli inoagenty, la democrazia occidentale, la chiesa non ortodossa che perverte il cristianesimo ortodosso, l’ateismo, l’allontanamento dai valori tradizionali, l’emancipazione di gruppi sociali, e così via. Anche l’attacco all’opinione pubblica di allora ricorda la considerazione dell’attuale governo russo secondo cui qualunque voce di dissenso viene etichettata come traditore oppure inoagent.
Nel contesto dell’insurrezione polacca Katkov si soffermò a lungo sulle questioni delle identità nazionali russa e ucraina, negando quest’ultima in quanto artificiale: perché, scriveva Katkov, l’identità nazionale russa era unita e indivisibile, mentre quella ucraina era stata pensata a tavolino. Katkov attaccò non solo i singoli che stavano diffondendo la lingua ucraina tra i contadini, sovvenzionando le scuole e i manuali didattici per il popolo, ma l’intero movimento ucrainofilo. La metafora della possessione diabolica, da lui utilizzata, è riscontrabile anche in una delle massime opere della letteratura russa dell’epoca, I demòni di Dostoevskij: le correnti democratico-liberali si erano impossessate di letteratura, gioventù, funzionari (ovviamente tutti pervertiti dalle idee occidentali e dunque progressisti e democratici). Katkov notava che il movimento ucrainofilo era emerso proprio nel momento in cui aveva cominciato ad affermarsi l’intrigo gesuitico, e i pubblicisti polacchi avevano preso a mostrare all’Europa che l’identità nazionale russa era un’illusione e che la Rus’ sudoccidentale non aveva nulla in comune con il restante popolo russo, perché in base alle sue peculiarità etnico-nazionali tendeva più verso la Polonia. Per Katkov era inaccettabile la “dottrina delle due narodnost’ russe e delle due lingue russe”, considerata “un sofismo rivoltante, assurdo”, perché l’Ucraina “non ha mai avuto una sua storia autonoma”. E sulla questione ucraina concludeva con la condanna del tentativo di “elevare e sviluppare un dialetto locale a scapito della lingua storica nazionale esistente” in quanto parte del progetto di “recidere l’unità del popolo”.
Pur con tutti i distinguo del caso, è chiaro che quanto esprimeva allora Katkov è proprio il sottotesto dell’ideologia politica alla base delle azioni di Putin, che, non limitandosi alla questione linguistica, mira alla riconquista dell’intero spazio geopolitico ucraino come parte dell’antica unità slavo-orientale. Si tenga a mente che già nel nome del partito di Putin, Edinaja Rossija (Russia Unita, oppure Un’Unica Russia), è evidente il programma politico di riunire i tre popoli sotto la bandiera di un’unica identità nazionale. Ed era già tutto scritto nel pamphlet del luglio 2021, intitolato Sull’unità storica di russi e ucraini: Putin si era infatti scagliato proprio contro gli eterni tentativi di certe “forze” di minare quest’unità, dividendo e facendo scontrare parti di un unico popolo.