Il “militarpatriottismo” in Russia. Carri armati che sparano, ma non uccidono

Un lavoro lungo un decennio per formare nuove generazioni di russi che non si limitino ad amare profondamente il proprio paese e ad esserne orgogliosi, ma siano anche pronti, forti della gloriosa storia patria e della potenza delle armi in dotazione, a difenderlo (Prima parte) (Immagine tratta da kremlin.ru)

(di Francesca Lazzarin, dottore di ricerca in slavistica, traduttrice e interprete)


3 giugno 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 13:03


Per quanto la pioggia di razzi lanciati contro l’Ucraina all’alba del 24 febbraio 2022 abbia ovviamente scioccato e lasciato senza parole numerosi cittadini russi, la società civile del paese era stata preparata per anni, in modo tutt’altro che subliminale, all’eventualità di un conflitto bellico. Realizzato su larga scala, doveva funzionare come banco di prova (e di forza) per un esercito, una marina e un’aeronautica ampiamente celebrati dalle massime istanze del potere, nella cultura pop e in una lunga serie di rituali collettivi con diversi gradi di ufficialità.


In questo senso parlano da sé gli investimenti profusi durante l’ultimo decennio per realizzare, a livello nazionale, un modello di “voenno-patriotičeskoe vospitanie” (letteralmente “educazione militarpatriottica”): il suo scopo, tramite iniziative mirate nelle scuole, oltre a campi tematici, mostre, fiere ed altri eventi rivolti alla cittadinanza, è formare nuove generazioni di russi che non si limitino ad amare profondamente il proprio paese e ad esserne orgogliosi, ma siano anche pronti, forti della gloriosa storia patria e della potenza delle armi in dotazione, a difenderlo (o a compiere “operazioni militari speciali” oltreconfine, volte, perlomeno nella narrazione a senso unico della propaganda governativa, a preservare la sicurezza e l’integrità della Russia stessa).


Certo, in seguito all’indescrivibile tragedia della Seconda guerra mondiale, per generazioni le famiglie russe avevano brindato davanti alla tavola imbandita dei giorni di festa pronunciando il proverbiale augurio “Basta che non ci sia la guerra”. Nondimeno, con il passare del tempo, con l’irrigidimento ideologico della politica di un Cremlino sempre più sciovinista e revanchista, e soprattutto con la progressiva scomparsa dei veterani, testimoni diretti degli orrori del 1941-45, il conflitto in questione ha acquisito sempre più i contorni dell’epica Grande guerra patriottica (così, come sa chiunque frequenti la Russia, viene normalmente chiamata la Seconda guerra mondiale).


Una leggendaria “guerra sacra”, come recita un famosissimo canto di guerra sovietico, la cui memoria viene conservata nell’intimità delle foto e dei ricordi dei nonni caduti al fronte, da guardare e ascoltare a casa tra i parenti con la stessa nota malinconica dei film sovietici a tema bellico degli anni del disgelo (due su tutti, molto conosciuti anche in Italia, Volano le gru e L’infanzia di Ivan). In primo luogo va però celebrata dalle folle, trasformando le imprese del passato in un mito eterno, totalmente scevro delle sue zone d’ombra e funzionale alla propaganda politica odierna. Per fare nuovamente un parallelo cinematografico, basti confrontare le atmosfere dei film degli anni ’60 sopracitati con il trionfalismo di certi recenti prodotti del cinema russo che ben si inscrivono nella politica dell’educazione militarpatriottica, da I 28 di Panfilov (2015) a Сarri armati (2018).


A margine, va sicuramente ricordato come altri conflitti sanguinosi che negli ultimi decenni hanno visto coinvolta l’Unione Sovietica prima e la Russia post-sovietica poi, ma non sono stati coronati da un’indiscutibile vittoria contro un aggressore straniero, dall’Afghanistan (1979-1989) alle due guerre cecene (1994-1996 e 1999-2009), non abbiano fornito materiale adatto a forgiare uno sfavillante pantheon di eroi. Nonostante i monumenti ai caduti eretti in varie città russe, l’impressione è che si tratti di pagine di storia non particolarmente elaborate o menzionate a livello ufficiale e sottoposte, come accade normalmente con gli eventi traumatici, a un processo di rimozione nella memoria collettiva, tanto più se messe a confronto con la Grande guerra patriottica. Anzi, proprio la sua inefficacia narrativa, il suo chiaro intento propagandistico, ha reso ostili al governo tutti coloro che di quelle guerre invece hanno parlato, fornendo prove dei crimini perpetrati, basti pensare ad Anna Politkovskaja o al Centro di difesa per i diritti umani Memorial.


Se parliamo dell’impiego funzionale degli eventi di 77 anni or sono a fini “militarpatriottici”, non hanno bisogno di presentazioni le cerimonie in occasione del 9 maggio (“Giorno della vittoria” nel calendario della Federazione russa, culmine delle feste primaverili e ricorrenza particolarmente cara al Cremlino), che nel 2022, va da sé, hanno avuto in Occidente maggiore risonanza rispetto al solito, ma negli anni ’10 del XXI secolo avevano già acquisito un peso sempre più rilevante in Russia, complice la narrazione, in auge già a partire dal 2014, secondo cui nell’Ucraina orientale sarebbe in corso una nuova lotta tra nazifascimo e antifascismo. I separatisti di Donec’k e Luhans’k, da parte loro, hanno abbondantemente sfruttato, ieri come oggi, tutta una serie di nostalgici simboli e accessori sovietici del 1941-45 per legittimare la propria irriducibile posizione.


La spettacolare parata sulla Piazza Rossa, che non a caso non è stata annullata nemmeno nel periodo più critico della pandemia di Covid-19, ma semplicemente posticipata da maggio a giugno 2020; la sfilata delle navi della marina militare sulla Neva a San Pietroburgo; le mostre tematiche in musei come quello, enorme, del Parco della Vittoria sul Colle della Venerazione a Mosca; la processione del “Reggimento immortale” (nato dal basso come iniziativa civica e poi preso sotto l’ala protettiva del Ministero della difesa) durante la quale i cittadini russi percorrono le strade di diverse loro città con le foto dei padri, dei nonni e dei bisnonni veterani alla mano: questi sono solo alcuni degli eventi associati al 9 maggio in Russia.


Diversi sociologi russi hanno già pubblicato articoli rigorosi circa l’adesione della società civile ai rituali collettivi variamente connessi al Giorno della vittoria, che negli ultimi anni ben dimostrano in quale misura il vittorioso soldato sovietico si sia trasformato, da parente vivo e reale con la sua storia tragica alle spalle, in un astratto simulacro, un idolo con cui identificarsi: non a caso molti rappresentanti delle giovani generazioni, per festeggiare il 9 maggio, appuntano a borse e giacche il nastro nero e arancione di San Giorgio (uno dei simboli della “Grande Vittoria”), indossano copricapi o addirittura uniformi militari, decorano le proprie macchine e le proprie moto con stelle rosse o entusiastiche scritte “A Berlino!”, come è solito fare, per esempio, il club di biker patrioti “Nočnye volki” (“I lupi della notte”). Simili pratiche, che nell’ottica di un antropologo potremmo definire quasi carnevalesche, sono tra l’altro scrupolosamente rappresentate in un recente lavoro del noto documentarista Sergej Loznitsa, Victory Day (2018), incentrato sulle varie facce della festa del 9 maggio presso la nutrita comunità russa di Berlino.


Sono stati di non minore rilievo negli ultimi anni, e a maggior ragione hanno avuto peso quest’anno, i concerti, gli spettacoli tematici e le recite scolastiche dove i bambini imparano filastrocche e canzoncine a tema militare e vengono anch’essi vestiti con uniformi militari mignon o mascherati da carri armati e caccia: questa tendenza, già presente all’altezza del 2014 e dell’annessione della Crimea, ha trovato ovviamente un’ulteriore conferma quest’anno, tanto più che già nel 2016 è stato fondato, con il patrocinio del Ministero della difesa russo e con lo scopo preciso di diffondere i principi dell’“educazione militarpatriottica” tra i giovanissimi, il movimento giovanile “Junarmija” (letteralmente “Armata della gioventù”). Da un lato, a un occhio esterno questo può sembrare un curioso reboot dei pionieri sovietici viste le associazioni che possono suscitare i dettagli rossi dell’uniforme; dall’altro, i valori alla base della “Junarmija” sono senz’altro molto più spiccatamente nazionalisti e militaristi: le idee che vengono traslate paiono volte più alla preparazione all’eventualità di una guerra che non alla costruzione di un avvenire di pace e prosperità. In molte scuole russe, anche elementari, sono presenti sezioni della Junarmija, che si occupano dell’organizzazione di campi tematici, competizioni sportive, visite alle caserme, concorsi creativi e molte altre iniziative rivolte a ragazze e ragazzi russi.


Molti, con non poca inquietudine, hanno seguito gli sviluppi del “militarpatriottismo” russo già dal 2014. Negli anni successivi sono usciti alcuni validi documentari di giovani registi indipendenti russi che, mossi dalla stessa preoccupazione, illustrano con molta lucidità ed umanità il fenomeno in questione nella provincia russa. Vorrei segnalare almeno Immortal (2019) di Ksenija Ochapkina e Town of glory (2019) di Dmitrij Bogoljubov, che purtroppo in patria sono stati proiettati soltanto all’interno di festival di nicchia, rivolti essenzialmente a un pubblico già perplesso nei confronti della deriva “militarpatriottica” del proprio paese nelle sue varie incarnazioni.

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La tragedia dei prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa si consuma tra le pressioni degli agenti di sicurezza, condizioni di detenzione disumane, torture e processi già decisi. “In cella non c’erano né acqua, né gabinetto, né brande; dormivamo su tavolacci di legno. Alla latrina comune non ci portavano tutti i giorni, e comunque sempre col tempo contato. Giorno e notte si sentivano le urla dalla stanza delle torture: non c’era modo di tranquillizzarsi o di raccogliere i pensieri. Una volta ho sentito trascinare qualcuno fuori da una cella vicina, poi uno sparo. Le guardie ci dicevano che presto sarebbe toccato anche a noi, che eravamo troppi.” A questo clima di terrore spesso si aggiunge la totale assenza di contatti con i propri cari. La corrispondenza, l’invio di pacchi e le visite – rari momenti di sollievo nella prigionia – sono per molti detenuti ucraini difficilissimi, se non impossibili da ottenere. Trovare e poter pagare un avvocato indipendente, che svolga il proprio lavoro con coscienza, sostenga il suo assistito e ne difenda i diritti, è un’impresa altrettanto ardua. Riusciamo ancora a offrire questo tipo di supporto, ma ora più che mai abbiamo bisogno del vostro aiuto per andare avanti. Per garantire assistenza legale e aiuti umanitari ai cittadini ucraini detenuti nella Federazione Russa per motivi politici servono 38.000 euro. È una cifra considerevole, ma siamo migliaia anche noi che sosteniamo i prigionieri ucraini. In fondo, basterebbe che 3.800 persone donassero 10 euro ciascuna. Questa volta, però, non vi chiediamo solo una donazione. Vi invitiamo a parlare di questa raccolta fondi alle persone di cui vi fidate: amici, familiari, compagni di emigrazione e colleghi. L’appello è disponibile anche in inglese: potete condividerlo anche con chi non parla russo. A chi sono destinati i fondi? A causa degli alti rischi cui sono esposti i prigionieri ucraini nelle carceri della Federazione Russa molte richieste di aiuto ci arrivano in forma anonima. Possiamo condividerne solo alcune, a titolo esemplificativo. Aiuti umanitari Inviamo regolarmente pacchi a decine di ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa: cibo, medicinali, libri, sigarette, articoli per l’igiene, vestiti, scarpe – beni di uso quotidiano che in carcere diventano inaccessibili. Sergej Gejdt: “Vi scrivo per chiedervi aiuto. Se riusciste a mandarmi qualcosa da mangiare e delle sigarette ve ne sarei immensamente grato. I miei hanno problemi di soldi, mi pare di capire, e neanche io ho modo di chiedere a loro di darmi una mano, non avendo nessuno cui scrivere o che possa informarli che non ho più nulla. Il problema è che con i pochi rubli che avevo sul conto ho ordinato l’indispensabile: quel poco per lavarmi… E per il cibo non mi è rimasto nulla. Qualche compagno, per fortuna, mi dà una mano come può. Grazie infinite per il vostro tempo e per aver letto la mia richiesta.” Janina Akulova, condannata a nove anni di colonia penale a regime ordinario e a una multa di 700.000 rubli, chiede aiuto per un’altra detenuta: “C’è una ragazza qui che ha urgente bisogno d’aiuto, non ha letteralmente nulla. Noi cerchiamo di tenere duro, ma lei è messa davvero male. Dico sul serio: non ha niente di niente, neppure l’essenziale per lavarsi. Le abbiamo dato quello che potevamo, ma… potete ben capire.” Per continuare a spedire pacchi, servono attualmente 3.320 euro. Assistenza legale Non possiamo divulgare l’identità dei prigionieri ucraini che difendiamo legalmente: metteremo a rischio loro e i loro avvocati. Attualmente sono decine gli uomini e le donne – già condannati o in attesa di giudizio – che dipendono dal nostro aiuto. Quello che gli ucraini sono costretti a subire nelle carceri russe è sconvolgente anche per chi credeva di conoscere bene la brutalità del sistema. Condizioni inumane, torture, violenza oltre ogni limite. Benché, in assenza di un processo equo, un avvocato non possa garantire la liberazione di un innocente, il suo lavoro resta fondamentale. L’avvocato tutela i diritti del detenuto, richiama l’attenzione pubblica sul caso e, spesso, è l’unico interlocutore libero con cui il prigioniero possa comunicare direttamente, l’unico tramite per mantenere un legame con i familiari. Da mesi finanziamo gli avvocati che seguono decine di prigionieri ucraini. Molti casi durano da più di sei mesi e non accennano a finire. Per garantire assistenza legale ai prigionieri politici ucraini servono 31.300 euro. Totale della raccolta: 38.000 euro.Il 10% della somma sarà destinato a coprire le commissioni dei sistemi di pagamento e le perdite dovute alla conversione in rubli. Ogni donazione è importante! 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Ruslan Sidiki condannato a 29 anni di reclusione.

Il 23 maggio 2025 presso il tribunale militare di guarnigione di Rjazan’ il pubblico ministero Boris Motorin ha chiesto per Ruslan Sidiki – 36 anni e doppia cittadinanza, russa e italiana – di cui abbiamo già avuto modo di parlare, una condanna a trent’anni di reclusione. Dopo di lui ha preso la parola Igor’ Popovskij, l’avvocato di Sidiki. Il difensore ha spiegato nel dettaglio perché la versione dell’accusa non corrisponde ai fatti e, perciò, a verità. Nei casi in esame la definizione giuridica delle azioni del suo assistito non può rientrare negli articoli riguardanti il “terrorismo”. Quanto da lui compiuto può far capo, piuttosto, alla categoria “sabotaggio”. In due punti, a sostenere le accuse di terrorismo sono le invenzioni degli inquirenti e le deposizioni estorte sotto tortura. L’avvocato Popovskij ha infine ricordato che, in base alla Convenzione di Ginevra e a quanto da essa affermato “in data 12 agosto 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra”, Ruslan Sidiki andrebbe considerato come tale. L’anarchico Ruslan Sidiki è stato alla fine condannato a 29 anni di carcere. Si tratta della pena più severa mai inflitta per azioni contro infrastrutture militari e, in genere, per azioni che non hanno causato vittime. È l’ennesimo atto intimidatorio contro i dissidenti. Riportiamo in italiano il testo dell’ultima dichiarazione pronunciata da Ruslan Sidiki prima della lettura della sentenza. Mi rincresce che le mie azioni abbiano messo in pericolo Bogatyrëv*, Tarabuchin** e Unšakov***. Non erano loro il mio obiettivo e sono lieto che la loro salute non abbia subito danni gravi. Il mio obiettivo erano i mezzi militari russi e gli anelli della logistica militare per il trasporto di mezzi e carburante. Era il modo che avevo scelto per ostacolare le operazioni militari contro l’Ucraina. Naturalmente la notizia di un’esplosione e il clamore suscitato possono spaventare le persone. Lo stesso vale per i missili che sorvolano le case e per le prime operazioni militari: anche loro hanno lo scopo di intimidire la popolazione del Paese contro cui tali azioni sono dirette. Come ho già ampiamente ripetuto, non era mia intenzione intimidire nessuno. Ho scelto io gli obiettivi: ho attaccato la base aerea militare con l’intento di distruggerne i velivoli. Ho fatto saltare il treno per mettere fuori uso la linea ferroviaria su cui avevo individuato un discreto movimento di mezzi militari. Vorrei che fosse chiaro che ho studiato attentamente il movimento dei treni sulla linea che ho fatto saltare per assicurarmi che non ci fossero treni passeggeri. Per maggiore sicurezza, ho controllato visivamente il tutto prima dell’esplosione. Se non mi importasse della vita altrui, avrei potuto far deragliare il treno senza un mio intervento diretto. Non ho avuto nulla a che fare con chi ha tentato di fabbricare, poi, un nuovo ordigno esplosivo per far deragliare un altro treno. L’esplosione dell’11 novembre 2023 aveva già suscitato molto clamore ed ero perfettamente consapevole che le misure di sicurezza sarebbero state rafforzate. Inoltre, avevo già la morte di mia nonna a cui pensare. Con la popolazione russa ho rapporti neutrali. Dal 2014 ho con loro alcune divergenze su certi fatti, ma non è, per me, un motivo sufficiente per odiare qualcuno. L’impossibilità di influenzare pacificamente le azioni di chi ci governa, così come il tribunale che attende coloro che non condividono la politica dello Stato inducono alcuni a lasciare il Paese e altri a restare e a passare all’azione. Indipendentemente dalla gravità del reato, l’uso della tortura durante gli interrogatori è inaccettabile in qualunque caso, se diciamo di vivere in uno Stato di diritto. Torturare con scariche elettriche e picchiare una persona legata sono atti riprovevoli in massimo grado, la cui responsabilità ricade non solo su chi ha applicato metodi in questione, ma anche su chi è consapevole che essi vengono usati, non li contrasta e, anzi, è complice nel tenerli nascosti. Concludo recitandovi un frammento di una poesia di Nestor Machno: Che ci seppelliscano anche subito: ciò che davvero siamo non diverrà Oblio, risorgerà al momento dovuto e vincerà. Ne sono certo, io. * Aleksandr Ivanovič Bogatyrëv, camionista presso la Avargard s.r.l.. Il 23/07/2023 trasportava erba falciata da un campo vicino al villaggio di Tjuševo, regione di Rjazan’. Uscendo su una strada sterrata vicino al campo, centrò con una ruota un drone esplosivo. Che scoppiò. Bogatyrëv non rimase ferito. ** Sergej Aleksandrovič Tarabuchin, assistente macchinista dello stesso treno. A seguito dello scoppio del finestrino, ha riportato graffi al viso e a un braccio. *** Dmitrij Nikolaevič Unšakov, macchinista del treno merci n. 2018, che l’11 novembre 2023 era ripartito dalla stazione di Rybnaja. Si trovava nella cabina di guida al momento dell’esplosione sui binari. A seguito dell’esplosione ha riportato escoriazioni alla mano.

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