La letteratura dell’assenso

Un segno dei tempi in Russia è dato anche dalla necessità di ritardare l’uscita di alcuni articoli. Per poter pubblicare questo testo Memorial Italia ha infatti dovuto attendere che una delle persone che si sono esposte si mettesse in salvo all’estero.

(di Massimo Maurizio, professore di Letteratura russa all’Università di Torino, socio di Memorial Italia)


16 agosto 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 15:21



Parlando del complesso rapporto tra il potere e la letteratura in URSS si ricorre spesso al concetto di letteraturocentrismo, secondo il quale la letteratura ha avuto un ruolo di primo piano per spiegare e diffondere le idee del potere o, nel caso della dissidenza (altrettanto presente) per criticare e decostruire queste stesse idee. Il letteraturocentrismo si basava sulla convinzione, fondata fino agli anni ’60, che in URSS e in Russia si leggesse più che in altri paesi. Dalla fine dell’Unione Sovietica, con l’avvento del (turbo)capitalismo degli anni ’90 e dei due decenni successivi questo rapporto è venuto meno e alla letteratura, come alle arti in generali, è stato riservato un posto defilato, in linea con la tendenza del mondo industriale.


Dopo il 24 febbraio il rapporto tra potere e scrittori sembra riproporsi: il primo necessita di cantori delle sue idee e, come sempre è avvenuto nel caso di letteratura asservita a scopi extra-estetici, la qualità delle opere è secondaria rispetto al contenuto. Oggi si sta formando un movimento di scrittori che il regime impiega a scopi meramente propagandistici, con tanto di visite al fronte, letture di versi ai soldati e nelle scuole eccetera eccetera, secondo uno schema tipicamente sovietico, con qualche cambiamento di poco conto. E quindi avanti con le letture pubbliche con felpe, sulle quali svetta la Z, la visione eroica delle guerra e della morte in nome del bene della patria che si vuole liberare da non meglio definiti gioghi annosi… tutto in stile propaganda sovietica anni ’40, tutto già visto, addirittura la forma (rime banali e una struttura narrativa che tende al primitivismo), il ritmo cantilentante e facilmente memorizzabile, eccetera eccetera. Tranne qualche caso.


E come allora questi autori hanno ottenuto il benestare di coloro che rappresentano il volto pubblico del potere, oggi perfettamente rappresentato da M. Simonjan, uno dei giornalisti più vicini a Putin. In un suo post scrive:

Un inaspettato risultato intermedio dell’operazione bellica speciale e che ci rende estremanente felici è la scoperta di un’intera, meravigliosa pleiade di ottimi poeti che scrivono sulla guerra.

Dolgareva @dolgareva, Pelevin @comradepelevin, Karaulov @karaulovnews, Apačev @akimapachev. Chi ho dimenticato?

Sono i nostri nuovi Simonov, Surkov, Berggol’c…

Stupisce il livello. Non sono esperimenti che ti fanno battere i denti con rime adolescenziali, così popolari nei famigerati salotti moscoviti, no, qui c’è una seria, grande poesia contemporanea. Senza eccessi. Libera, competente, di talento.

Stato, tesoruccio, magari ci farai finalmente caso?

A Simonov hanno dato il premio Stalin a 26 anni. Il secondo anno di guerra. Non chiedo premi Stalin per questi ragazzi, per di più che non abbiamo premi paragonabili. Ma magari li inviti in qualche scuola, ci pubblichi una raccolta, ci organizzi un concertino?

Non si può in fondo nutrire per anni mezze cartucce volgari, da avanspettacolo, scandalose, e non notare questa cosa, grande, russa, sincera, restando fedeli al principio ‘questi sono comunque dalla parte del potere sovietico, a che serve cullarli’ […]

Con chi state, maestri della vera cultura, è evidente. È giunto il momento di prendere una posizione. E voi con chi state?


Oltre ai richiami all’Unione Sovietica e ai poeti più disposti a prestare la penna alla volontà politica del paese (Simonov, Surkov, Berggol’c), al richiamo a M. Gor’kij, padre del realismo socialista, il metodo che nel 1934 asservì la cultura agli scopi del potere (sua è la frase “con chi state maestri della cultura?”), qui stupisce il tono da invettiva e di sfida simulata al potere che per anni ha nutrito “mezze cartucce volgari”, coloro – verrebbe da pensare – che hanno ottenuto premi letterari finanziati dallo stato (comunque un’esigua minoranza), ma che non appoggiano l’“operazione bellica speciale”, coloro che – verrebbe da pensare – vengono tradotti all’estero e sono riconosciuti come il volto della nuova cultura russa.


Mi pare che il déja vu circa la dipendenza della letteratura dallo stato non sia casuale nel contesto che si è venuto formando negli ultimi cinque mesi e che il richiamo allo stalinismo sia voluto. A dimostrazione di ciò si possono addurre i costanti rimandi della cultura popolare putinista all’ideologia sovietica della prima metà del XX secolo, la revisione storica, ma soprattutto l’apparato iconografico in stile pop (leggi, kitsch) che l’ha accompagnato: icone di Stalin in vendita sulle bancarelle, la mercificazione del ricordo della guerra come evento famigliare e l’appropriazione della stessa in senso statalista e identitario, il machismo del capo e la sua infallibilità, nastrini di san Giorgio che pendono dagli zaini degli studenti. Eccetera eccetera.


Il revisionismo storico a firma Vladimir Medinskij ha contagiato moltissimi aspetti della vita pubblica, ma soprattutto l’estetica ufficiale del paese. E quindi, ritornando a quanto si diceva prima, anche l’estetica letteraria, che nella poesia riconosciuta e cavalcata dal putinismo dopo il 24 febbraio richiama, appunto, quella di ottant’anni fa con qualche nuance modernizzante (l’uso del gergo, di espressioni marcatamente parlate) che ha, come si diceva, più l’aspetto di un ritocco estetico che non di qualcosa di sostanziale.


Tra parentesi la dicotomia tra poesia ufficiale e non ufficiale oggi si può considerare nuovamente in auge, non tanto come possibilità di pubblicare e diffondere le opere, cosa che grazie a Internet è difficilissima da intercettare e vietare, quanto come opposizione tra un’estetica (e un discorso) accettata e una non accettata, quest’ultima presentata come altera, nemica, indipendentemente dalle qualità e dalle istanze estetico-semantiche che persegue.


Scrivo queste righe il 15 luglio, il giorno dopo il bombardamento di Vinnycja, e questa mattina mi sono imbattuto in una poesia di E. Džabbarova, una poetessa estremamente promettente, che appartiene alla generazione nata nella prima metà degli anni ’90 che tanto sta dando alla poesia russa contemporanea.


Mi si perdoni se cito la poesia per intero:


Il corpo morto della lingua


riconoscimento del corpo di qualche paese nel corso di ciò che non si può nominare


colonizzatori che portano con sé lingue, agenti patogeni, microbi e virus


li hanno insinuati nei sogni degli abitanti del luogo


dritti nel sangue


bambini che si baciano con la terra, esternano l’amore per la madre, il padre, la nonna e il nonno


ora tutto l’amore è terminato in una posa terminale in una fotografia casuale nei telefoni di testimoni oculari


asserite la morte della patria, della lingua, del bambino


in quantità di due i missili testimoni attestanti stanno in mezzo alla strada


ditemi ciò che non si può dire ad alta voce, nell’orecchio


lasciamo la speranza all’ingresso della casa dei genitori


fa caldo come si confà all’inferno.


quanti brandelli di tessuto della vecchiaia servono per i lenzuoli funebri?


di chi celebrano le esequie gli uccelli alle 5 di mattina?


dici non c’è più colonizzazione, dappertutto terra indipendente


soltanto i virus e gli animali non concordano con te


nei loro boschi recisi sono sepolte le favole della mamma, il baule della bisnonna, la ricetta della torta


domenicale

il corpo mi prude, cerco di non toccare le isolette pruriginose, ma perdo il controllo e laddove prudeva


rimangono lividi:


grossi enormi come macigni come vuoti come pupille di innamorati


come se al loro interno detonasse una granata,


pum


come se al loro interno tutti coloro che sono morti parlassero,


pum


come se ogni livido fosse una parola che non esiste


pum


vasi sanguigni scoppiati come gesso bianco segnano il corpo morto della lingua sulla tua schiena


dirai pace, ma ovunque somministrano guerra


la gente sta in coda, domanda: quanto fa, toccano, contrattano, dicono che gli serve da mettere in tavola il


giorno di festa.


Del mutismo come risposta agli avvenimenti del presente si è già parlato altrove, mi preme sottolineare qui, al netto degli indubbi meriti artistici di questi versi, il ritorno nella lirica contemporanea di una sensibilità personale ben presente, tangibile. Se la guerra ha portato a una situazione di mutismo generalizzato, ha però in qualche modo rinobilitato il sentimento, la coscienza di poter e dover esprimere la propria debolezza come reazione, unica possibile, all’orrore tutto attorno.


E, di nuovo, la differenza tra le due estetiche di cui sopra sta nell’assertività di chi appoggia il conflitto e la politica del potere (e che quindi aderisce alla visione machista e infallibile dello stesso) e chi si trova schiacciato dagli avvenimenti, chi da questa sensazione di soffocamento e impotenza sa di dover ripartire, chi sa di avere a disposizione questa debolezza che si chiama umanità, che è la piccolezza dell’uomo, ma che è essa stessa una reazione intima e forte alla menzogna dei “forti”. E della loro sicumera di essere dalla parte giusta della storia, di conoscere la verità. E qui mi concedo una breve citazione di una delle beniamine di Simonjan, A. Dolgareva:


Più lontano, un chilometro forse più in là,

Oltre il fiume e l’acqua ed il vento e poi

Oltre un ponte iridato, sulle città.

Ci saranno altri, giovani, non saremo mai noi.

La sostanza del cielo sarà noi: lo schiumare

Siam dei giorni dell’era dell’operazione speciale.

Se i manoscritti non bruciano, i versi non mentono, e qui la posa eroica è soltanto, appunto, una posa, una facciata. Instabile come i villaggi di Potemkin.


UPD: il 17 luglio, il giorno dopo aver terminato la stesura di queste impressioni, Linor Goralik, capo-redattrice di ROAR (Russian Oppositional Arts Review) ha dichiarato che per la sua rivista, apertamente schierata contro la guerra, è stato chiuso l’accesso in Russia:


Ed ecco che ora ROAR (roar-review.com) è stato ufficialmente bloccato in Russia. È chiaro che tutti sanno usare un VPN, quindi non ha alcun senso, ma resta il fatto in sé. E: ci potete sempre leggere su telegram https://t.me/roarreview. In compenso sono incredibilmente grata a tutti coloro che ne hanno scritto, BBC News RussianRadio Svoboda , RBK, The Villagela rivista DOXA, OVD-Info e altri. Cari colleghi, un immenso grazie a voi per il sostegno. Grazie.


Evidentemente la parola non imbrigliata fa paura, al potere russo in questo momento fanno paura molte cose, ma questo è il primo caso che mi risulta in cui viene bloccato un sito esclusivamente dedicato alla letteratura e alle arti. E queste reazioni testimoniano la forza della parola poetica, letteraria, nella Russia del 2022 come nell’URSS dei processi a Iosif Brodskij, ad Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’, o della furia omicida e insensata delle persecuzioni staliniane a Osip Mandel’štam o Isaak Babel’.


PS: Dopo la stesura di quest’articolo è stato fondato il Consiglio di esperti sulle questioni dell’attività letteraria (Ekspertnyj sovet po voprosam literaturnoj dejatel’nosti), del quale fanno parte al momento più di 20 critici e letterati, il cui compito, sostanzialmente, è vegliare sulla correttezza delle proposte letterarie e artistiche pubbliche in Russia. La dicotomia tra estetica ufficiale e, di conseguenza, non ufficiale sta ritornando in auge con modi e dinamiche fino a sei mesi fa assolutamente impensati.


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