Il regime, la follia, il dissenso, il futuro. Conversazione sulla Russia con Anna Zafesova

La giornalista Anna Zafesova: "Il giorno in cui, non sappiamo come e quando, cadrà il regime di Putin, bisognerà evitare che si ripeta la situazione di trent’anni fa, quando è stata proclamata la fine della storia e poi si è invece scoperto che i russi si sono rivelati più sovietici dei sovietici. Stavolta bisognerà seguire questa transizione molto da vicino".

(di Alessandro Catalano, professore di lingua e letteratura ceca presso l’Università di Padova e socio di Memorial Italia)


30 settembre 2022 
Aggiornato 05 ottobre 2022 alle 15:28


Anna Zafesova è una giornalista che si occupa di politica, società e cultura postsovietica, con particolare attenzione alla Russia e all’Ucraina. Il suo ultimo libro è Navalny contro Putin (2021). Memorial Italia ha realizzato questa intervista nel corso di alcuni incontri, l’ultimo dei quali si è tenuto il 27 settembre.


Adesso sembrano tutti molto sorpresi, ma lei a febbraio immaginava che stava per scoppiare la guerra?


Io no, e la cosa è agli atti, perché ho rilasciato tante interviste. Fino agli ultimi giorni in tanti continuavamo a ripetere che si trattava di un gioco di nervi, persino poco prima dell’invasione. Quando era ormai chiaro che non era così. È stato un nostro limite. Alcuni colleghi e io ci siamo interrogati per capire dove avessimo sbagliato. Siamo giunti alla conclusione che l’errore è stato quello di analizzare la situazione con strumenti razionali: affermare che un politico è folle è ritenuto poco professionale, eppure in questo caso è andata proprio così. Anche i rapporti dell’Istituto Nazionale per le Ricerche Strategiche dell’Ucraina stimavano che le truppe russe ai confini con l’Ucraina oscillassero fra i 120.000 e i 140.000 uomini, un numero ampiamente inferiore a quello necessario per un’invasione.  E infatti adesso vediamo che la Russia ha lanciato un arruolamento di massa proprio per ovviare a questo problema.


Beh, se penso che per reprimere la Primavera di Praga nel 68 è stato messo in campo il triplo degli effettivi…


Esatto, e stiamo parlando di un paese molto più piccolo e con un esercito non inesistente ma quasi, mentre qui siamo in presenza di una guerra in corso già da otto anni, con dall’altra parte una linea del fronte, trincee fortificate, un esercito addestrato e temprato, strutture logistiche raffinate. L’Ucraina è un paese ben più pronto rispetto al disastro iniziale del Donbass nel 2014. Lo scenario più probabile, in base ai discorsi di Putin, sembrava quindi una riattivazione del conflitto in Donbass. L’opzione di una guerra su vasta scala era presa in considerazione, sia dagli ucraini, sia dal Pentagono, come ipotesi da studiare, ma era stata scartata, un po’ anche perché sembrava completamente folle, non era mai successo dal 1945. Prendiamo il caso dell’Iraq, che chiaramente è stata una delle ispirazioni di Putin, che deve aver pensato “se l’hanno fatto gli americani, posso farlo anch’io”: innanzitutto le guerre in Iraq, sia quella del 1991 che quella del 2003, sono state precedute da mesi e mesi di negoziati, riunioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, inviati che andavano da Saddam Hussein e tornavano indietro. La guerra era stata chiaramente annunciata e non era stata così pretestuosa, ambigua. Per tutti questi motivi era razionale pensare che la guerra non sarebbe scoppiata. E, in realtà, sarebbe ancora razionale essere di questa opinione, perché questa guerra Putin non è riuscito a vincerla. In un certo senso avevamo quindi ragione noi analisti a ritenere che fosse una follia.


Quindi la follia può essere considerata nel discorso politico una categoria significativa?


Il problema è che politica e diplomazia non riescono a trattarla perché è una categoria, come dire, clinica e non siamo noi a doverla diagnosticare, oppure è una categoria letteraria. Nel momento in cui io, in quanto diplomatico o esperto militare, vado da un capo di un governo e sostengo che c’è un problema e la Russia sta per iniziare una guerra, lui mi chiederà delle prove. Se io dico che ha ammassato 130.000 soldati al confine, lui mi dirà che tutti i militari sostengono che questo non basta. Ed è davvero così, in politica non puoi ragionare con simili categorie.



Questo farebbe pensare che hanno ragione coloro che dicono che è numericamente impossibile ampliare questa guerra in direzione dei paesi baltici o in qualunque altra direzione…


Quanto Putin ha fatto in Ucraina ci dovrebbe avere insegnato che questa possibilità, benché irrazionale, non sia da scartare del tutto. La premier estone ha formulato le sue paure in modo molto chiaro: l’invasione russa porterebbe all’intervento Nato in base all’articolo 5 del trattato istitutivo dell’alleanza, ma il tempo previsto per liberare un paese del genere dalle truppe russe è di circa sei mesi. Un periodo in cui un paese piccolo come l’Estonia sarebbe completamente devastato, basti pensare al comportamento dei soldati russi a Buča.


Speriamo che questa resti solo una possibilità astratta. I suoi racconti sulla situazione interna della Russia sono sempre estremamente precisi e dettagliati. Qual è secondo lei la situazione attuale? C’è ancora in Russia uno spazio per forme di dissenso?


Io credo che sia necessario definire chiaramente di cosa stiamo parlando: se con dissenso intendiamo scontento, esiste senz’altro, come del resto dimostrano ampiamenti gli avvenimenti dell’ultima settimana. E lo vediamo perfino nei sondaggi ufficiali: ora non ne escono da un po’, ma all’inizio della guerra riportavano un 30% di russi contrari alla “operazione militare speciale”, una cifra altissima per un sondaggio ufficiale e sicuramente sottostimata, perché non tutti hanno avuto il coraggio di esprimere la loro vera opinione. Ultimamente girano sondaggi segreti, citati da vari giornali di opposizione prevalentemente in esilio, sulla base di indiscrezioni trapelate dal Cremlino. Non è dato sapere quanto siano attendibili in un paese in cui, se tu chiami guerra la guerra, rischi di essere incriminato, però parlano di più della metà della popolazione contraria alla guerra, quindi si tratterebbe addirittura del 55-65%. Non tutti sono contrari alla guerra perché ritengono di essere dalla parte del torto: alcuni riconoscono le ragioni dell’Ucraina, altri vorrebbero annettere l’Ucraina ma non sono pronti a pagarne il prezzo, altri ancora cominciano a rendersi conto delle conseguenze interne ma non s’interrogano sulle ragioni. Fare analisi più dettagliate è in questo momento impossibile, ma quello che emerge da tutti i sondaggi è una percentuale più o meno costante del 25-30% di persone a favore della guerra, poi c’è un altro 30% di chi non è né contro né a favore e un 30% di contrari.


E il dissenso politico attivo?


Bisogna tener conto che c’è stata una pesante stretta sulle libertà civili. L’antropologa Aleksandra Archipova, che ho intervistato un paio di mesi fa e che adesso è ovviamente scappata, sta cercando insieme ai suoi colleghi di monitorare il numero delle condanne contro gli oppositori. Dopo un periodo in cui erano calate, ora si osserva un nuovo aumento. Ora c’è naturalmente una novità perché la mobilitazione cosiddetta parziale proclamata da Putin ha spinto a protestare migliaia di russi che fino a questo momento si erano tenuti lontano da un coinvolgimento attivo nelle proteste. Se una tale escalation repressiva non lasciava prima spazio a forme di dissenso, che venivano perseguitate sia per i loro contenuti, sia in quanto gesti di aggregazione, adesso assistiamo a forme anche inedite di protesta, come le madri daghestane e jakute che scendono in piazza e picchiano i poliziotti. Questo è un dato interessante, le repubbliche delle minoranze etniche appaiono mediamente molto più attive delle regioni a maggioranza russa. Del resto, in Russia manca una tradizione di proteste di massa. Pensiamo al recente arresto dell’ex sindaco di Ekaterinburg Evgenij Rojzman, un uomo che, con le sue fondazioni di beneficenza, ha aiutato decine di migliaia di persone: in una città di un milione e mezzo di abitanti sono scese in piazza solo poche centinaia di persone.


Si è parlato molto della questione dei visti per i cittadini russi, qual è la sua posizione al riguardo?


I visti turistici pongono un dilemma non indifferente. Io non ho una risposta univoca: da un lato mi rendo conto che, passati sei mesi di una guerra atroce, è curioso che i cittadini russi continuino ad andare in vacanza in Europa, a fare shopping come se nulla fosse; dall’altro trovo altrettanto sbagliata una punizione collettiva e non riesco a capire quale metodo bisognerebbe adottare per fare una selezione. Il visto turistico per molti rappresenta il solo modo di scappare. Si sta parlando di creare visti umanitari per persone a rischio, un progetto dai nobili intenti, ma di difficile realizzazione, perché la richiesta di un tale visto non sfuggirebbe certo alla polizia. Comunque mi rendo anche conto che gli episodi di aggressioni di turisti russi agli ucraini, che si sono verificati in molte città europee in queste ultime settimane, saranno anche pochi, ma hanno un grande valore simbolico. Si tratta però di questioni che andrebbero discusse con grande cautela, alle quali ora si aggiunge anche il problema dei russi che fuggono dalla chiamata alle armi. Si tratta di una situazione delicata, anche in relazione alla difficoltà di ottenere asilo da parte dei dissidenti scappati all’inizio della guerra.


Rispetto agli emigrati russi, qual è la situazione di questa ennesima diaspora russa?


Personalmente ritengo che l’Unione Europea dovrebbe, e oggi a maggior ragione, iniziare a occuparsi anche di tutti i cittadini che sono scappati dalla Russia nei primi mesi di guerra e nei confronti dei quali, visto che si tratta di rappresentanti del paese colpevole, non c’è alcun tipo di aiuto, né politiche specifiche. Dopo sei mesi, si stima che si tratti di circa cinque milioni di persone, ai quali si sono aggiunte nell’ultima settimana almeno altre 250000 persone: un esodo di dimensioni disumane, che però non ha ancora prodotto un movimento politico degno di questo nome o un movimento di protesta significativo. L’opposizione russa è molto eterogenea e va da coloro che sono blandamente putiniani fino a persone che augurano all’Ucraina una vittoria militare che distrugga la Russia nella sua forma post-imperiale. Molti di questi emigrati, comunque, dopo sei mesi senza accoglienza, visti e permessi di soggiorno temporanei saranno costretti a tornare in Russia, dove diventeranno vittime o complici del regime, ma questa è un’eventualità che non giova né agli ucraini né agli altri europei, perché il giorno in cui in Russia cambierà il regime – e prima o poi cambierà – se vogliamo ricostruire una Russia europea, la dovremo ricostruire con queste persone.


Questo è verissimo. Un’altra cosa che mi colpisce molto è che, almeno in Italia, si sono sentite poco le voci dei russi emigrati, mentre paradossalmente sono risuonate molto più spesso le voci della propaganda ufficiale.


Non guardo molto la televisione italiana, quindi non saprei fare un’analisi quantitativa. Noi alla “Stampa” siamo sempre alla ricerca di interviste e contributi di intellettuali d’opposizione, di analisti ed esponenti della protesta. Però in Italia c’è sicuramente una deformazione del sistema mediatico che consente a personaggi assolutamente improbabili di costruire carriere sostenendo le tesi più assurde e provocatorie. Io personalmente ho rifiutato e rifiuto inviti ai talk show perché mi è capitato diverse volte di essere invitata insieme a propagandisti russi, ho il mio codice professionale deontologico. E questi personaggi sono pericolosi, perché, per quanto, anche come Memorial, ci sforziamo di denunciare che in Russia i diritti umani sono minacciati e che siamo di fronte a una dittatura, quando poi uno di questi presunti “esperti” se ne esce con qualche affermazione infondata di grande effetto, si trova sempre qualcuno pronto a dire: “ma guarda, sta dicendo cose interessanti, tutto sommato mi trovo d’accordo”. Che è poi quello che è successo quando abbiamo concesso ampio spazio ai no-vax.


A questo proposito ho vissuto un’esperienza un po’ bizzarra qualche settimana fa, quando sono andato a vedere il film su Naval’nyj in una ricca città del Veneto, il cinema all’aperto. Immaginavo che fossero tutte persone in qualche modo al corrente della situazione e invece sentivo continuamente commentare: “ma non è possibile, secondo me non è vero”. E mi sono chiesto se in questo commento c’è una percezione sbagliata o proprio ignoranza…


L’ignoranza ovviamente è presente, ma spesso è accompagnata da un desiderio di ignoranza: vogliamo solo informazioni che confermino i nostri pregiudizi, l’idea astratta ci siamo fatti di un paese che non fa parte della nostra esperienza immediata. Questo spiega la forte resistenza ad accettare il racconto degli insuccessi dell’esercito russo in Ucraina, cosa che adesso dopo la mobilitazione “parziale” è ancora più evidente.


Parlando di percezioni quantomeno inesatte, vorrei soffermarmi un momento sulla questione dell’invincibile armata rossa. Esiste secondo Lei il problema di una ripresa pedissequa delle narrazioni russe da parte dei mezzi di comunicazione italiana?


Rispetto al tema militare ho l’impressione che resti molto forte l’idea dell’armata invincibile, poi ovviamente in Italia prevale un’idea un po’ letteraria della Russia, rafforzata dall’esperienza della Seconda guerra mondiale e dal retaggio comunista. Eppure le condizioni disastrose dell’esercito russo erano già note da tempo a chi si occupa di questi temi, pensiamo alle guerre in Cecenia (1994 e 1999), in Georgia, nel Donbass nel 2014 e in Siria, dove le truppe russe hanno faticato molto di fronte a eserciti meno numerosi o addirittura di fronte a guerriglie poco organizzate. In tutte queste occasioni ha usato la tecnica che abbiamo visto usare anche in Ucraina: massiccio uso di artiglieria e bombardamenti, cioè sostanzialmente non stiamo parlando di una conquista, ma di una distruzione sistematica, accompagnata da un comportamento brutale nei confronti della popolazione civile. Di fatto, la Russia ha in realtà pochissimi reparti ben attrezzati e ben addestrati, tutto il resto è un esercito di stampo sovietico, inefficiente, povero e colpito dalla corruzione. Questo è diventato molto evidente nel momento della recente chiamata alle armi, credo che tutti abbiano visto i film che sono circolati negli ultimi giorni. Peraltro 300000 persone da reclutare all’improvviso sono tantissime, il compito logistico è immane e non sembra esattamente uno dei punti di forza di questo esercito.


E l’Ucraina?


A tutto ciò fa da contrappunto la distorta percezione dell’Ucraina come “paese piccolo”, anche se si tratta del più grande stato europeo, con un esercito piccolo, mentre gli uomini arruolati in Ucraina sono 700.000, di cui 250.000 in prima linea, a fronte dei 900.000, di cui più o meno 120.000 in prima linea, della Russia. In tutto questo c’è una fortissima componente non razionale.


Un altro tema scottante è quello delle sanzioni: si sono moltiplicate le narrazioni di “esperti” che fanno reportage in Russia e che raccontano, ripetendo la versione del Cremlino, che le sanzioni non servono a niente. Qual è la sua opinione in proposito?


Innanzi tutto, trovo curioso che si spaccino per esperti, in molti casi, persone che fino a febbraio non sarebbero nemmeno riuscite a indicare dove si trova l’Ucraina sulla cartina, mentre gli esperti veri sono negletti perché sono considerati noiosi e propongono spiegazioni che richiedono in chi ascolta uno sforzo di comprensione. Tra coloro che son riusciti a trovare spazio apprezzo per esempio Nona Mikhelidze, dell’Istituto Affari Internazionali. Ogni volta che si incontra un “esperto” che ripete che le sanzioni non funzionano, viene subito da pensare che sia in malafede e parli di cose che non conosce o che stia appositamente manipolando le informazioni. Le sanzioni funzionano benissimo, solo non così rapidamente come molti avrebbero ingenuamente desiderato.


Quindi le sanzioni funzionano…


Sì, le sanzioni funzionano. Tra l’altro non ne abbiamo ancora visto fino in fondo gli effetti, per esempio l’embargo petrolifero scatta a pieno regime soltanto a fine anno, siamo quindi ancora in una fase transitoria. Ma c’è anche un altro aspetto importante, la Russia è un paese estremamente arretrato tecnologicamente, come lo era già l’Unione Sovietica e, ancora più lontano nel tempo, l’Impero russo. In Russia la produzione di automobili è calata del 97%; la Russia non ha più la possibilità di produrre missili, aerei e armi perché le componenti estere erano essenziali, soprattutto per quanto riguarda l’elettrotecnica. Esiste certamente la possibilità di aggirare le sanzioni tramite l’India o la Cina, però è poco probabile che questi paesi vogliano compromettersi aiutando espressamente la Russia. Del resto, non fanno certo beneficenza, in cambio vogliono soldi e le entrate di Putin saranno sempre più basse perché noi compreremo sempre meno energia.


Dai primi dati sembra che sul fronte interno per via delle sanzioni stia aumentando l’inflazione e almeno due milioni di russi perderanno il posto di lavoro. Ultime indiscrezioni di Bloomberg dicono che le spese militare saliranno fino al 40%, cosa che è ovviamente normale in un paese in guerra, ma questo andrà a scapito di tutto il resto e diventerà sempre più difficile sostenere la retorica dell’operazione speciale. Chi va a Mosca e racconta che i ristoranti sono pieni e la gente fa shopping nei negozi, non ha capito che l’obiettivo delle sanzioni non era chiudere i ristoranti. Bisogna però andare a vedere che cosa c’è nei ristoranti e nei negozi, di quanto sono aumentati i prezzi e quante medicine sono diventate di difficile reperibilità, e questo è tutt’un altro discorso. L’obiettivo delle sanzioni è togliere a Putin la possibilità di finanziare una guerra che gli costa più o meno un miliardo al giorno. Ed è una guerra che paghiamo noi con le nostre bollette, e questa è una cosa della quale tutti si rendono conto.


Questo è il nodo cruciale, poi bisognerà vedere se il nostro consenso interno resisterà…


Per il momento credo di sì, perché l’atrocità di questa guerra è tale che anche i partiti e i politici più filoputiniani d’Europa sono costretti a essere molto più prudenti e più ambigui. Inoltre, l’economia occidentale sembra capace di elaborare strumenti che forniscono aiuto alle famiglie e alle imprese, anche se non si può escludere che in qualche paese europeo abbia luogo a un certo punto una rottura e vinca le elezioni una forza votata all’appeasement.


E che succederebbe allora?


Io non credo che cambierebbe veramente il corso degli avvenimenti, poi va anche tenuto presente che in questo momento non ha molto senso salire sul carro del perdente. Però è essenziale che i politici siano in grado di spiegare alla popolazione le ragioni delle decisioni che prendono. Continuare a sostenere l’Ucraina ha senso da un punto di vista strategico perché, rispetto al rischio dell’aumento delle bollette per un inverno, cosa che si può compensare in vari modi, molto maggiore sarebbe il rischio strategico di una Russia che ti minaccia con le armi atomiche. Ormai la minaccia atomica non è più un tabù, i propagandisti russi spesso invitati nei programmi italiani ne parlano apertamente e l’ex presidente Medvedev lo ribadisce ormai quotidianamente.


Anche se la guerra si fermasse e la Russia conquistasse una serie di territori ucraini, questo implicherebbe comunque un consistente aumento delle spese militari, di sicurezza e di intelligence per tutti i paesi europei, cosa che peraltro è già avvenuta. Con tutti i problemi collegati a una guerra, perché passerà del tempo prima che riprenda la produzione; ad esempio in Donbass, la regione è in parte distrutta. E dal Donbass, per inciso, viene l’argilla di cui si servono i produttori di piastrelle italiani. In realtà una soluzione del genere significherebbe congelare la situazione in attesa che si ripresenti, che è poi quello che è avvenuto dopo il 2014: tutti hanno pensato a un conflitto “congelato”, che sarebbe andato verso una faticosa e lenta soluzione dopo un cambio di regime a Mosca. Ma invece del cambio di regime abbiamo assistito a una sua recrudescenza.


C’è però chi è preoccupato del destino delle imprese…


È evidente che un imprenditore ha il problema di chiudere il bilancio annuale e non è obbligato a pensare a questioni strategiche. A quelle dovrebbero pensarci i politici, che a loro volta hanno però una prospettiva limitata dalle scadenze elettorali. Ora è arrivato il momento di pensare a una strategia riferita a un’Ucraina liberata che andrà ricostruita con un nuovo piano Marshall. Questa potrebbe essere l’occasione per un grande rilancio non solo per quella parte d’Europa, che del resto, rispetto alla Russia, era già molto più integrata nel nostro sistema economico, industriale, minerario, ma anche per tutto il continente, perché stiamo parlando di una ristrutturazione delle infrastrutture che inevitabilmente coinvolgerà tutto l’Occidente, e quindi anche le aziende italiane. Ci sarà bisogno di costruire ponti, case, gallerie, ferrovie e a farlo saranno le grandi imprese europee.


E la Russia?


Una Russia libera e democratica, che smetta di essere un emirato che estrae risorse depredate da un ristretto gruppo di oligarchi, con un vero mercato sia a livello di produzione che di consumi, è nell’interesse dell’intera Europa. E questo anche per quanto riguarda il rapporto con la Cina. Ogni tanto si dice che, se la respingiamo, la Russia cadrà nelle braccia della Cina, ma ciò è vero per una Russia autoritaria come quella odierna, non per una Russia democratica ed europea. Quindi, se si vuole strappare la Russia all’orbita cinese, l’unico modo è aiutarla a diventare europea. Ma la strada è lunga, anche perché il giorno in cui, non sappiamo come e non sappiamo quando, in Russia cadrà il regime di Putin, bisognerà evitare che si ripeta la situazione di trent’anni fa, quando è stata proclamata la fine della storia e poi, dopo trent’anni, si è invece scoperto che i russi si sono rivelati più sovietici dei sovietici. Stavolta bisognerà seguire questa transizione molto da vicino.


Cosa ne pensa, infine, del futuro della Russia oggi? La sua opinione sul destino di Putin e del putinismo è cambiata rispetto a quanto scritto nel suo volume su Naval’nyj?


Nel libro su Naval’nyj avanzavo l’ipotesi che il putinismo sarebbe caduto, ma questa è una cosa ovvia, anche perché nessuno vive in eterno. Però in Russia non siamo ancora arrivati a questo punto, le ipotesi del cambiamento del putinismo prima della guerra erano quindi fondamentalmente tre.


1) Lo scoppio di una primavera russa, cioè una rivolta di piazza. La mia idea era che bisognasse aspettare sostanzialmente che lo scontento diventasse più forte del rischio, che il beneficio della protesta diventasse più elevato del rischio comportato dalla repressione. Le possibilità di tale esito si sono via via assottigliate dopo l’arresto di Naval’nyj, quando la Russia è diventata una dittatura, ma sono aumentate drasticamente ora che il dilemma per molti uomini russi è quello di morire in Ucraina o rischiare l’arresto in patria.


2) L’altra ipotesi era quella che una pressione popolare, attraverso manifestazioni e proteste, avrebbe permesso di ottenere quelle elezioni libere che avrebbero cambiato la struttura del potere. In questo modo sarebbe iniziato un dialogo con il regime, com’era accaduto nel 1989 in Polonia, in Cecoslovacchia e in altri paesi, cioè una rivoluzione più o meno di velluto. In quel momento questa era l’idea di Naval’nyj, ma tutto si è risolto nel suo contrario perché le proteste hanno portato solo a un aumento della repressione, quindi a un apparente rafforzamento di Putin.


3) La terza ipotesi era quella di un rovesciamento di palazzo, indipendentemente dal fatto che questo implichi che Putin sia ancora vivo o deceduto per motivi naturali. In questa ipotesi si dovrebbe giungere a un accordo tra alcuni esponenti del regime, non necessariamente più liberali, ma semplicemente più pragmatici. Persone che si rendono conto che, se vogliono sopravvivere, devono aprire delle valvole, spalancare alcune porte e allentare la tensione, anche attraverso un ricambio generazionale, che è ad esempio quello che ha fatto Michail Gorbačëv.


Ma si tratta di un’opzione realistica?


Nel putinismo non si intravede chi potrebbe realizzare qualcosa del genere, perché si tratta di un regime personalista, non c’è un partito con un politbjuro che ha delle correnti, dei falchi e delle colombe, dei rappresentanti dell’industria, dei militari, delle forze di intelligence, tutte cose che c’erano invece in Unione Sovietica. Quello di oggi è un sistema politico molto più primitivo, molto più rudimentale, una specie di corte con dei clan che combattono per la propria ricchezza e la propria sopravvivenza. Sull’élite russa rimando a un’intervista al politologo Abbas Galljamov pubblicata su “Novaja Gazeta” il 12 luglio 2022. Galljamov spiega che la l’élite politica russa è talmente disabituata a un’azione comune, talmente per pervasa dalla sfiducia e dal sospetto che realizzare una congiura è molto difficile. Se si pensa che il ministro Sergej Shoigu non ha mai fatto nemmeno un giorno di militare e tutti i generali sono degli yesman, è davvero difficile che si possa affermare un Pinochet russo. Siccome quella di Putin è una dittatura costruita su una sola immagine, non c’è un suo numero due, non c’è un Göring o un Himmler, è quindi estremamente difficile che qualcuno possa succedere a Putin come leader maximo. Potrebbe anche scatenarsi una guerra di tutti contro tutti, che è poi ciò che continua a trattenere i clan di potere dall’agire perché la paura di molti è che tutto collassi di colpo.


Si vedono segnali di tali timori da parte delle classi dirigenti?


Esistono segnali abbastanza obiettivi, come ad esempio la quantità di inserzioni di vendita di immobili di lusso nei quartieri della nomenclatura di Mosca, in ulteriore aumento nelle ultime settimane. Che cosa significa questo dato? Si tratta di una classe sociale impoverita o che vuole tagliare la corda? Si sta preparando un “si salvi può” che era nell’aria già prima della guerra? Non sto parlando ora degli oligarchi, che catturano la fantasia della stampa italiana, ma di funzionari, ministri, viceministri e manager di grandi aziende, sindaci e governatori, cioè dipendenti dello stato che avevano immobili, conti e attività all’estero, e spesso anche i figli all’estero, tutte cose che Naval’nyj denuncia da tempo. Tutti questi signori avevano un permesso di soggiorno o un visto business o da investitore in qualche paese occidentale, molti proprio in quei paesi baltici che tanto affermano di odiare, molti altri nella Repubblica Ceca, tantissimi ad esempio a Praga, dove si concentra il ceto medio grazie al fatto che lì a un certo punto il semplice acquisto di un immobile è diventato condizione sufficiente per ottenere un visto e un permesso di soggiorno. Questa è un’élite che accumulava un patrimonio in Russia per spenderlo in Occidente dove, a lavoro finito, aveva intenzioni di trasferirsi o comunque di trasferire le famiglie. Un programma che adesso, dopo la mobilitazione, anche molti russi meno abbienti sembrano voler seguire per sfuggire a un sistema che dà l’impressione di sgretolarsi sempre più velocemente.

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