La maledizione della storia russa nell’ideologia ossessiva di Putin

Il presidente russo è uno storico dilettante, ma le sue azioni dimostrano tutti i rischi di un simile hobby.

(di Konstantin Akinša, curatore e critico d’arte)


20 gennaio 2023 
ore 12:39


Memorial Italia pubblica una riflessione del curatore e critico d’arte ucraino Konstantin Akinša – apparsa su eurozine.com (ringraziamo la redazione per l’autorizzazione a pubblicare la traduzione di FV e Giulio Novazio) nel novembre scorso – in cui si evince come quella in Ucraina sia anche una guerra ideologica per la riscrittura definitiva della storia russa. Putin è uno storico dilettante, ma le sue azioni dimostrano tutti i rischi di un simile hobby. Meno di sei mesi prima di invadere l’Ucraina, il re-storico ha scritto un lungo articolo intitolato L’unità storica di russi e ucraini. Questo insipido trattato, collage patetico di stereotipi arrugginiti e banalità propagandistiche del secolo scorso, mette in dubbio non solo il diritto di ucraini e ucraine ad avere una propria nazione, ma anche l’esistenza stessa dell’Ucraina come stato sovrano. Per quanto in Occidente l’articolo di Putin possa apparire bizzarro, a storici e storiche di professione, esso è significativo del clima politico in Russia, e chiaramente rivelatore dell’imminente invasione”.


Il principe Grigorij Potëmkin (1739-1791)
Dipinto di Giovanni Battista Lampi il Vecchio (1846)

Lo scorso maggio, quando le città dell’Ucraina meridionale erano già occupate ma non ancora annesse, i russi si sono serviti delle loro solite tattiche. Hanno cominciato a rilasciare passaporti alla popolazione locale, ricorrendo a intimidazioni e minacce se qualcuno non si mostrava abbastanza entusiasta di acquisire la cittadinanza russa.

A Melitopol’, uno degli uffici improvvisati per il rilascio di passaporti russi sfoggiava un curioso manifesto che riprendeva un classico esempio della propaganda sovietica durante la Seconda guerra mondiale. Nella versione originale, un soldato dell’Armata Rossa trafiggeva con la baionetta Hitler raffigurato con il muso da topo, che spuntava da una copia lacerata del patto Molotov-Ribbentrop. Il manifesto era completato dallo slogan “Sconfiggeremo e annichiliremo il nemico senza pietà!”.


Nel pastiche esposto in bella vista nell’ufficio passaporti di Melitopol’ il soldato era identico, ma il nemico era molto diverso. Al posto del Führer c’era infatti un uomo grasso e mal rasato, intento a scribacchiare un manoscritto intitolato Historia, chissà perché scritto in latino. Alle spalle dell’infelice storico, destinato a essere fucilato da un plotone di esecuzione russo, c’era un uomo in divisa che teneva in mano una maschera sorridente. Era senz’altro costui il vero artefice del revisionismo storico in atto, ma la pochezza artistica del manifesto non permetteva di accertare se simboleggiasse il militarismo della NATO, l’imperialismo statunitense o il nazionalismo ucraino. Lo slogan dichiarava: “Non lasceremo che la nostra storia venga riscritta!”.


La visione della storia come un testo sacro che non si può rivedere e neanche interpretare è ormai da tempo parte integrante della nuova ideologia putiniana.


Questa idea si basa sul culto della vittoria sovietica nella Seconda guerra mondiale, rapidamente trasformato in una nuova religione politica. Che gli ideologi di Putin abbiano cavalcato questo concetto e contribuito a svilupparlo non è stata certo una sorpresa. La storia sovietica nella sua forma originaria era infatti di scarsa utilità per i propagandisti moderni, legata com’era alla guerra contro i nazisti e alle esplorazioni dello spazio nel secondo dopoguerra. Gli ideologi putiniani hanno subito reinterpretato in chiave contemporanea la vittoria della Seconda guerra mondiale, costata all’Unione Sovietica un numero incredibile di vite umane. Senza scrupolo alcuno, hanno nazionalizzato questo episodio storico per renderlo esclusivamente russo e ripulirlo da tutti i dettagli spiacevoli, come la spartizione della Polonia nel 1939 o l’occupazione dei paesi dell’Europa centrale e orientale nel dopoguerra. La parata militare per la Giornata della Vittoria è diventata la ricorrenza più importante dell’anno. Gli striscioni trionfalistici che proclamano “Possiamo ripetere l’impresa!” sono sfoggiati in molte automobili e in periferia di Mosca è stata eretta una copia in compensato del Reichstag, in modo da poterne celebrare ogni anno la presa con una rievocazione storica.


Per consolidare questo nuovo culto, soprannominato Pobedobesie (ossessione per la vittoria), sono stati necessari la protezione e il sostegno dello Stato. Nel 2009 l’allora presidente Medvedev ha istituito la “Commissione presidenziale contro i tentativi di falsificare la storia che ledano gli interessi della Russia”. Il suo compito era “difendere la Russia da chi falsifica la storia e vorrebbe negare il contributo dell’Unione Sovietica alla vittoria nella Seconda guerra mondiale”. La commissione ha avuto vita breve ed è stata chiusa nel 2012, dopo il ritorno di Putin al Cremlino. Nel 2021 negare il contributo dell’Unione Sovietica alla vittoria e paragonarla alla Germania nazista erano ormai considerati crimini punibili con multe salate.


Molti intellettuali russi speravano che gli eventi legati alla Seconda guerra mondiale intralciassero il tentativo di Putin di trasformare la storia in un’arma; questa si è rivelata però una vana illusione. Nell’agosto del 2021 Sergej Černyšov, rettore di un’università di Novosibirsk, è stato sottoposto a un interrogatorio del Comitato Investigativo della Federazione Russa per aver criticato Aleksandr Nevskij, principe medievale canonizzato dalla Chiesa ortodossa russa. Questo episodio ha mostrato chiaramente che esprimere qualsiasi dubbio sulla grandezza della storia russa avrebbe presto costituito un alto tradimento. Putin è uno storico dilettante, ma le sue azioni dimostrano tutti i rischi di un simile hobby. Meno di sei mesi prima di invadere l’Ucraina, il re-storico ha scritto un lungo articolo intitolato L’unità storica di russi e ucraini. Questo insipido trattato, collage patetico di stereotipi arrugginiti e banalità propagandistiche del secolo scorso, mette in dubbio non solo il diritto di ucraini e ucraine ad avere una propria nazione, ma anche l’esistenza stessa dell’Ucraina come stato sovrano. Per quanto in Occidente l’articolo di Putin possa apparire bizzarro a storici e storiche di professione, esso è significativo del clima politico in Russia, e chiaramente rivelatore dell’imminente invasione.


Tenendo presente quanto detto finora, sarebbe ragionevole interpretare la guerra contro l’Ucraina come “guerra per la storia”; l’occupazione russa di Cherson è un ottimo esempio a sostegno di questa tesi.


Subito dopo la caduta di Cherson in mano russa, nel centro della città sono proliferati cartelloni raffiguranti personaggi storici russi che l’avevano visitata secoli fa. “Cherson, una città con una storia russa!” era lo slogan principale, che si tentava di dimostrare valido tirando in ballo personaggi storici ben noti. Fra questi c’erano il famoso poeta Aleksandr Puškin, l’eroe delle guerre napoleoniche Denis Davydov, e anche Aleksandr Suvorov, generalissimo ai tempi di Caterina la Grande e Paolo I. Naturalmente, il testo sul cartellone di Puškin taceva il fatto che in realtà il poeta fosse giunto laggiù perché lo zar l’aveva esiliato dalla sua capitale. Seguendo questo patetico ragionamento, l’Italia, “stato successore” dell’Impero romano, potrebbe giustamente rivendicare la città di Ovidiopol’ nella regione di Odesa, dove Augusto aveva esiliato Ovidio.


All’inizio dell’occupazione russa, lo slogan più comune per le strade di Cherson era: “Resteremo qui per sempre!”. A maggio l’umore è cambiato radicalmente, man mano che la controffensiva ucraina prendeva slancio. La Russia ha iniziato a portar via di nascosto le opere più preziose conservate nei musei di Cherson. Il 30 settembre Putin ha annesso la regione di Cherson e il 19 ottobre ha dichiarato la legge marziale, legalizzando di fatto il saccheggio della città. Gli occupanti hanno smantellato e rimosso i monumenti sovietici dedicati a eroi imperiali russi, come Suvorov e l’ammiraglio Fëdor Ušakov. La stessa sorte è capitata al monumento al principe Grigorij Potëmkin, anche se nel suo caso il furto non si è limitato alla statua. I resti di Potëmkin, sepolti nella Cattedrale di Santa Caterina, sono stati riesumati e portati via di soppiatto.


L’episodio di Potëmkin è stato un esempio lampante del ripetersi della storia, poiché non era la prima volta che veniva disturbato il principe defunto. Paolo I, figlio di Caterina la Grande, aveva fatto rimuovere il corpo mummificato di Potëmkin dalla cripta della cattedrale, dove era esposto in bella vista. Nel 1874 i suoi resti furono collocati in una nuova bara di piombo e sepolti sotto una lapide inserita nel pavimento della cattedrale. Nel 1930, quando la cattedrale fu trasformata in un museo dell’ateismo, i resti di Potëmkin furono riesumati un’altra volta ed esibiti. Erano esposti in tre vetrine: la prima conteneva il cranio, la seconda le ossa, mentre la terza era riservata a quel che restava dei suoi vestiti. La macabra esposizione portava il cartellino con la dicitura: “Resti del principe Potëmkin, amante di Caterina la Grande”. Il tutto fu smantellato solo dopo le proteste di Boris Lavrenev, influente scrittore stalinista che visitò il museo nei primi anni Trenta. Si dice che, dopo l’intervento di Lavrenev, le ossa fossero state sepolte di nuovo, ma resta un mistero se lo scheletro sia davvero completo o autentico. Tanto per cominciare, il teschio del principe era scomparso e, secondo una diceria locale, i bambini lo avevano usato per giocare a calcio nel cortile della cattedrale. Si diceva pure che l’avesse rubato un collezionista di macabri souvenir. Infine, nel 1984, i resti di Potëmkin furono riesumati di nuovo ed esaminati da una commissione che includeva alcuni esperti patologi forensi. Riuscirono solo a concludere che le ossa trovate nella tomba appartenevano a un uomo alto e a datarle alla fine del XVIII secolo. Nessuno sa per certo se siano i resti del principe.


Nella visione putinista della storia, Potëmkin è importante come conquistatore della Crimea. È però anche noto che si associa il suo nome all’espressione sprezzante “Villaggio di Potëmkin”, spesso usata per indicare qualsiasi progetto esclusivamente di facciata. Si sa che il principe aveva fatto tutto il possibile per impressionare la sua amante, Caterina II. Aveva tra l’altro costruito sulle rive del Dnipro una serie di “insediamenti” prefabbricati che si potevano erigere sbrigativamente prima della visita dell’imperatrice e poi smantellare in poco tempo. La versione di Putin della storia russa è un esempio del tutto calzante di un progetto similmente ridicolo, una scenografia teatrale completamente priva di qualsiasi sostanza. 


Durante questa guerra fallimentare, inutile e vile, usare la storia come un’arma è diventato non meno urgente dell’acquisto dei droni iraniani. Per apportare gli ultimi tocchi al suo “Villaggio di Potëmkin” della nuova ideologia russa, il regime putinista ha introdotto una nuova disciplina obbligatoria per tutti gli istituti di istruzione superiore in Russia: “Fondamenti dello stato russo”. I due elementi centrali di questo nuovo catechismo saranno la storia della Russia e della sua cultura, propagandate in maniera tale che nessuno, per paura di rappresaglie brutali, oserà riscriverle.

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Dmitrij Muratov: “Per favore, scambiate i civili”.

Pubblichiamo in italiano il testo del recente intervento di Dmitrij Muratov, direttore di Novaja Gazeta e premio Nobel per la pace 2021, pubblicato il 25 maggio scorso e indirizzato ai presidenti della Federazione Russa e dell’Ucraina. La traduzione è di Elena Kostioukovitch. Ma guardate che manca poco, credo che presto nel nostro Paese inizieranno a celebrare solennemente la Giornata del boia. I boia riceveranno complimenti, regali, sfileranno tutti orgogliosi nelle loro uniformi da parata. Oggi vi parlerò dei torturatori incaricati dallo Stato. Nel mio Paese è ricomparsa la figura del professionista della tortura, del carnefice. Nell’anno dell’ottantesimo anniversario della vittoria sul fascismo in Russia è tornato il fabbisogno dei carnefici al servizio dello Stato. 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Igor’ Baryšnikov, prigioniero politico, pensionato di Kaliningrad, è stato condannato a sette anni e mezzo di reclusione per avere “diffuso notizie false sull’esercito russo”. Ha il cancro, ha la sonda della gastrostomia che gli esce fuori dalla pancia, non può né stare seduto né sdraiato, riesce a malapena a camminare. Per due anni non l’hanno operato e quando finalmente l’hanno fatto sono iniziate gravi complicazioni. Baryšnikov è pressoché cieco, ha già perso la vista da un occhio e quella dell’altro sta peggiorando rapidamente. Quando era libero, Igor’ si prendeva cura della madre anziana e costretta a letto. Quando è morta, lui era in carcere. La giudice, che si chiama Ol’ga, cognome Balanina, gli ha rifiutato il permesso di poche ore per andare al funerale. Vi ho detto il cognome della giudice, vero? Questa persona si chiama Ol’ga Balanina. Andrej Šabanov, 45 anni. È un sassofonista, musicista, viveva a Samara. La sua condanna è per aver pubblicato sui social network alcuni post contro l’”operazione militare speciale”. La condanna ammonta a sei anni (“incitamento all’attività terroristica”). È invalido di seconda categoria, gravemente malato, affetto da psoriasi. Sta letteralmente marcendo vivo. Šabanov si è spogliato in tribunale, ecco la foto, ha chiesto di essere rilasciato in aula, il suo corpo è coperto di piaghe. Il giudice Dmitrij Anan’ev non ha resistito a questo spettacolo e, per non assistere alla scena, ha ordinato che l’imputato fosse riportato in carcere. Nadežda Bujanova, della quale ho già parlato. È una dottoressa di 67 anni, pediatra. È stata denunciata dalla madre di un paziente, secondo la quale la Bujanova avrebbe parlato male del padre del bambino, caduto nel “servizio militare volontario”, e che ciò sarebbe avvenuto in presenza del figlio. In realtà, a giudicare dalle telecamere, il bambino non era nello studio. Non è stata registrata l’audio della visita. Ma quando il bambino di sette anni è stato interrogato da un agente operativo dell’FSB, ha reso una testimonianza in cui, usando parole da adulto e formulazioni tratte dal codice penale, ha spiegato come la dottoressa Bujanova (a parole di quel bambino) “avesse diffuso pubblicamente informazioni palesemente false sulle forze armate della Federazione Russa”. Il bambino non è stato chiamato in tribunale. Bujanova è stata rinchiusa in un centro di detenzione preventiva. Un “attivista patriottico” le ha portato come “dono alimentare” in carcere trenta chili di sale in una spedizione unica, in modo da esaurire il limite delle consegne mensili e lasciarla senza vitamine e cibo. Ora Bujanova è stata condannata. Onestamente, ero sicuro che l’avrebbero lasciata uscire con una multa o una condizionale, la vecchia dottoressa, l’unica non fumatrice costretta a stare in una cella con trenta fumatrici. Ma le hanno dato cinque anni e mezzo di colonia penale. Oleg Belousov, di San Pietroburgo. 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Trenta anni prima: un progetto del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial.

Per provare a capire come e perché la Russia postsovietica si sia trasformata in una dittatura il Centro per la difesa dei diritti umani Memorial promuove il progetto Trenta anni prima. In Russia la dittatura è eterna? Come hanno fatto a distruggere la libertà di parola in Russia? Perché la Russia non è diventata una democrazia? Come è possibile che Vladimir Putin sia ancora al potere? Il 24 febbraio 2022 la Federazione Russa ha avviato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina e l’eco di numerose domande ha ripreso a risuonare. È possibile trovare una risposta? Il Centro per la difesa dei diritti umani Memorial pensa di sì. Nel 2023 il Centro ha compiuto trent’anni. La data è convenzionale: Memorial ha iniziato molto prima a difendere i diritti umani. Il punto di riferimento è l’aprile del 1993, quando fu adottato lo statuto dell’associazione. Ricordiamo che nell’aprile del 2022 le autorità russe hanno chiuso in via definitiva il Centro. Gli attivisti tuttavia hanno ricostituito l’associazione, continuando a portare avanti il loro prezioso lavoro. La Russia postsovietica ha quasi la stessa età del Centro Memorial. Sotto lo sguardo e con la partecipazione degli attivisti di Memorial la Russia è cambiata: la dittatura sovietica è diventata una giovane democrazia e si è poi trasformata in una nuova dittatura. I collaboratori di Memorial sono stati non solo testimoni, ma anche attori degli eventi storici più determinanti della Russia contemporanea. L’attualità per loro è stata storia, una storia che hanno voluto descrivere e documentare. E adesso hanno molto da raccontare. È questo lo spirito che anima il progetto Trenta anni prima. Con la collaborazione di media indipendenti, difensori dei diritti umani, esperti e rappresentanti della società civile i collaboratori del Centro Memorial intendono affrontare le numerose e importanti questioni che riguardano la Russia postsovietica. Tentano di comprendere che cosa abbia condotto all’attuale regime. Cercano di spiegare come sia stato possibile distruggere le libertà dei cittadini russi, come sia potuto accadere che quegli stessi cittadini abbiano rinunciato alle proprie libertà e come sia stato perseguito chi ha tentato di difenderle. Ottobre 1993: come è iniziata la “piccola guerra civile” a Mosca? Siamo nel 1993 quando a Mosca si parla di “piccola guerra civile”. Per molti osservatori i fatti del 3-4 ottobre 1993 segnano il momento dell’autodistruzione di una nascente democrazia nella Russia post-sovietica e della sua trasformazione in uno stato autoritario. Il conflitto tra il presidente Boris El’cin e il Soviet Supremo, iniziato il 21 settembre, raggiunge il culmine nella prima settimana di ottobre, provocando proteste, scontri, attacchi agli uffici del sindaco di Mosca e al centro televisivo di Ostankino e alla fine l’assalto della Casa Bianca russa da parte dell’esercito. 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A trent’anni di distanza comprendiamo che quegli accordi hanno avuto vita breve: le repubbliche sono state integrate nella cosiddetta verticale del potere e private di poteri reali, diventando solo simbolicamente differenti dalle altre regioni della Federazione Russa. Nell’ambito del progetto Trenta anni prima la testata giornalistica indipendente russa Vërstka ripercorre le vicende che hanno condotto la Federazione Russa, intenzionata a diventare una federazione democratica, a trasformarsi in uno stato unitario autoritario. Darja Kučerenko ha parlato con attivisti, giornalisti, linguisti, storici e politologi provenienti da Baškortostan, Čuvašija, Burjatija. Prendendo spunto dall’esempio offerto da queste repubbliche, si analizza come il federalismo proposto negli anni Novanta abbia subito graduali restrizioni. 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Attualmente l’esercito della Federazione Russa commette crimini atroci in Ucraina. I nomi delle città ucraine in cui i militari russi hanno torturato e ucciso, “filtrato” e stuprato sono noti a tutti. Di numerosi altri crimini non si ha ancora notizia, ma solo perché la guerra non è finita. I collaboratori del Centro tuttavia conoscono bene le guerre cui la Russia ha preso parte negli ultimi trent’anni. Prima di Mariupol’ ci sono state le rovine di Aleppo e di Groznyj. Le stragi impunite di civili ceceni a Samaški e Novye Aldy hanno condotto all’incubo di Buča. I “campi di filtraggio” sperimentati dai cittadini di Mariupol’ sono gli eredi del “sistema di filtraggio” utilizzato in Cecenia. Perché l’invasione su vasta scala dell’Ucraina è stata definita dalle autorità “operazione militare speciale”? Non è la prima volta che le autorità della Federazione Russa nascondono la guerra dietro formulazioni astruse. 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Padova, 5 giugno 2025. Student Advocacy Day. Academic Freedom and Belarus: storytelling and advocacy.

Si tiene giovedì 5 giugno 2025 dalle 9:00 alle 17:30 presso il Complesso Beato Pellegrino (via E. Vendramini 2) dell’Università degli Studi di Padova lo Student Advocacy Day, quest’anno dedicato alla situazione della libertà accademica in Belarus. L’incontro Academic Freedom and Belarus: storytelling and advocacy è l’appuntamento conclusivo dello Scholar at Risk Student Advocacy Seminar dell’Università di Padova, tenuto da Claudia Padovani e Francesca Helm. Le/i partecipanti hanno avuto modo di studiare il caso delle loro colleghe e dei loro colleghi che in Belarus hanno subito persecuzioni da parte del regime di Lukašenkaù, brutali pestaggi e torture fisiche e psicologiche nelle carceri. Nella giornata conclusiva saranno presentati i risultati del lavoro e saranno ascoltate le testimonianze di studentesse e studenti bielorussi perseguitati. Il pomeriggio sarà dedicato invece all’editoria e alla letteratura, con la testimonianza di Ihar Ivanou di Skaryna Press, casa editrice bielorussa costretta a operare all’estero. Sarà presentata l’antologia di poesia bielorussa tradotta in italiano Il mondo è finito e noi invece no, curata dalla nostra presidente Giulia De Florio, i nostri Alessandro Achilli e Massimo Maurizio insieme a Dmitrij Strocev e Maya Halavanava, con la presenza della poetessa Hanna Komar. Infine, studentesse e studenti dell’Università di Padova terranno un reading di poesia bielorussa.

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