L’Ungheria e Putin. Storia di un amore improbabile

L’interrogativo sui motivi che stanno spingendo Orbán a trasformare un paese dalle tradizioni antirusse nella testa di ponte dell’influenza russa in Europa appare irrisolvibile. In questo momento, non possiamo che limitarci a esplorare il fenomeno, segnalandone la gravità.

(di Stefano Bottoni, storico, professore associato, Università di Firenze; immagine: EU2017EE Estonian Presidency, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons)


10 marzo 2023
alle 10:28


Viktor Orbán
Viktor Orbán nel 2017 EU2017EE Estonian Presidency, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons)


Se gli anniversari rappresentano l’occasione per lanciare un messaggio, dalla capitale ungherese ne sono arrivati ben due e in totale contrasto fra loro. Il 24 febbraio scorso un corteo organizzato dal partito di opposizione Momentum ha attraversato le vie del centro per raggiungere l’ambasciata russa a Budapest, all’incrocio fra la monumentale via Andrássy e via Bajza, a due passi da piazza degli Eroi. Lo scopo dell’iniziativa era la condanna dell’invasione russa dell’Ucraina e la solidarietà ungherese al governo di Kyiv e al popolo ucraino. Nello stesso tardo pomeriggio e appena qualche chilometro più in là, un numero lievemente superiore di persone, mobilitate da influencer e personaggi dello spettacolo vicini al partito del premier Viktor Orbán, davano vita a una manifestazione/concerto per ottenere “finalmente la pace”. Una pace basata, secondo il dettame del primo ministro, sul cessate il fuoco e sull’interruzione delle forniture occidentali di armi all’Ucraina. Uno degli intervenuti ha invitato il presidente ucraino Zelens’kyj a recarsi al fronte per combattere la “sua” guerra; un altro ha lungamente discettato sulle responsabilità di Putin, Biden e Zelens’kyj, giungendo alla conclusione che nell’impossibilità di stabilire una gerarchia di colpe l’essenziale è riconoscere la realtà dei fatti, incluse le modifiche territoriali inflitte allo Stato ucraino.


Le due manifestazioni riflettono bene lo stato dell’opinione pubblica ungherese riguardo all’aggressione russa. Secondo un’indagine condotta nel novembre 2022 dal centro Free Press for Eastern Europe, l’opinione pubblica ungherese risulta, nel contesto regionale, quella più orientata – insieme a quella bulgara – ad accettare la tesi che l’attacco russo sia stato almeno parzialmente “giustificato” (36%). Un altro 20% del campione non esprime alcun parere, mentre il 44% condanna chiaramente la campagna militare di Mosca. Emerge dunque il quadro di un’opinione pubblica in maggioranza indifferente e apatica rispetto a un conflitto che si svolge ai confini nazionali (un dato corroborato dalla scarsa adesione alle opposte manifestazioni del 24 febbraio), disorientata e divisa secondo linee partitiche nel giudizio sull’invasione.


Qui conviene fermarsi un istante per inquadrare il contesto in cui si manifesta questa consonanza russo-ungherese. A differenza di molti dei suoi vicini, l’Ungheria non vanta alcuna vicinanza etnica, linguistica, religiosa con lo Stato erede dell’Impero zarista e dell’Unione Sovietica. Gli ungheresi non sono di origine slava, l’ungherese è incomprensibile ai parlanti delle lingue slave, e tra la popolazione ungherese i cristiano-ortodossi rappresentano una sparuta minoranza. Quanto ai rapporti storici nell’età contemporanea, i precedenti trasudano violenza e prevaricazione: dalla repressione congiunta della rivoluzione nazionale ungherese del 1848-49 da parte delle truppe asburgiche e zariste fino alla violentissima liberazione/occupazione del 1944-45 e all’intervento armato dell’autunno 1956 per sopprimere la rivoluzione democratica e antisovietica. Non dobbiamo poi dimenticare che nel 1919 l’Ungheria divenne per qualche mese la testa di ponte del progetto bolscevico di rivoluzione mondiale, attraverso la Repubblica dei Consigli. E non dobbiamo neppure dimenticare che nel 1941-43 le truppe ungheresi parteciparono, al fianco di quelle tedesche, italiane e romene alla campagna genocida contro l’Unione Sovietica. A motivare i soldati e il fronte interno ungherese vi era il diffusissimo e duplice argomento antislavo (ovvero antirusso) e antibolscevico, spesso declinato in chiave antisemita attraverso il mito del comunismo giudaico. Gli unici momenti in cui gli interessi strategici di Mosca e Budapest hanno coinciso nell’ultimo secolo risalgono alla seconda metà degli anni Trenta, quando Mosca appoggiò strumentalmente le mire revisioniste ungheresi sui territori persi dopo la prima guerra mondiale con il trattato di pace del Trianon; più recentemente, va ricordata la fruttuosa collaborazione di Michail Gorbačëv e del suo gruppo dirigente con le élites comuniste e post-comuniste ungheresi, fra il 1988 e il 1991, per gestire pacificamente e in modo ordinato la transizione dal sistema di tipo sovietico alla democrazia multipartitica. Per ragioni comprensibili, le convergenze parallele intorno al patto Molotov-Ribbentrop e i primi due anni della Seconda guerra mondiale combattuta da Stalin al fianco di Hitler non sono divenute parte della memoria comune. Quanto a Gorbačëv, la sua moderazione si univa a un profondo rispetto dell’Ungheria e del modello di socialismo costruito da János Kádár. Nel novembre 1992, il presidente russo Boris El’cin compì una storica visita a Budapest nel corso della quale pronunciò parole di condanna per l’intervento sovietico del 1956 e chiuse idealmente il ciclo di riconciliazione avviato da Gorbačëv. L’ultima parola non era però stata detta. A partire dal 2006, i media ufficiali russi hanno ricominciato a descrivere l’insurrezione antisovietica del 1956 come frutto di un complotto fascista ordito dall’Occidente. Ai primi riferimenti nei talk-show televisivi e nei documentari prodotti in occasione degli anniversari è seguito un irrigidimento della linea storiografica ufficiale, successivamente riflesso a ogni livello, fino ai manuali scolastici e universitari. Nel 2016, chi scrive lavorava all’Istituto di storia dell’Accademia ungherese delle Scienze e non dimenticherà mai l’atmosfera di sospetto e autentica paura che emanava al convegno organizzato dall’Istituto culturale ungherese per il sessantesimo anniversario della rivoluzione a Mosca, dagli interventi dei colleghi russi. Gli stessi colleghi russi che fino a qualche anno prima potevano divulgare liberamente i risultati delle proprie indagini d’archivio si vedevano costretti all’autocensura o ad equilibrismi verbali per evitare sanzioni disciplinari.


In estrema sintesi: l’Ungheria di Viktor Orbán non è la Serbia di Aleksandar Vučić, legata alla Russia e all’immagine di una Russia “madre” dei popoli slavi come a un cordone ombelicale. E non è neppure la Bulgaria o la Slovacchia, legate per motivi linguistici, culturali o storici alla Russia e al mondo russo. È un paese che nell’ultimo decennio si è legato politicamente alla Russia di Vladimir Putin senza alcuna chiara motivazione di matrice storica, culturale o più prosaicamente economica (come nel caso di Germania, Austria o Italia). Vi è poi un dettaglio biografico e politico legato all’ascesa di Viktor Orbán sulla scena politica ungherese. Come leader del movimento liberale e poi conservatore Fidesz, dal 1989 al 2009 Orbán non ha mai fatto mistero dei suoi profondi sentimenti antisovietici e antirussi. Poi, la conversione nel novembre 2009 durante un viaggio riservato a San Pietroburgo (inopportunamente rivelato dai padroni di casa), al congresso di Russia Unita, in qualità di presidente del partito Fidesz e capo dell’opposizione. Putin gli concesse una mezz’ora scarsa di colloquio a quattr’occhi. Quella mezz’ora cambiò tuttavia il corso della politica ungherese e resta uno dei misteri meglio custoditi della storia ungherese recente.


Negli ultimi anni giornalisti investigativi, sociologi e scienziati politici di vari paesi hanno scandagliato il passato personale di Viktor Orbán per scoprire le radici di questa improbabile liaison. Il risultato è sinora deludente. Secondo la teoria proposta nel 2015 da Lajos Simicska, ex tesoriere del partito di Orbán e grand commis del suo sistema fino alla rottura avvenuta quell’anno, Orbán potrebbe essere stato reclutato dall’intelligence militare ungherese in occasione del suo temporaneo richiamo nell’esercito popolare, nel 1988. Le informazioni sensibili relative al futuro primo ministro sarebbero naturalmente finite a Mosca, terminale obbligato dello spazio informativo del Patto di Varsavia. Nel 2017 il portale investigativo russo Insider rivelò che le autorità russe possiederebbero sul premier ungherese un kompromat [un dossier compromettente, N.d.R.] relativo a un ingente finanziamento illegale ricevuto personalmente da Orbán nel lontano 1994. Il donatore non sarebbe stato altri che Simën Mogilevič, un mafioso russo-ucraino-israeliano di alto calibro che negli anni Novanta risiedeva legalmente a Budapest ed era conosciuto negli ambienti criminali come “zio Ševa”. In quel periodo Mogilevič utilizzava la capitale ungherese come base operativa e finanziaria per i suoi ingenti traffici illegali, ovviamente con la complicità della polizia locale. Quando il mafioso fu arrestato a Mosca nel 2008, Orbán guidava non solo l’opposizione di destra al governo socialista-liberale di Ferenc Gyurcsány, ma anche il fronte europeo anti-Gazprom, il colosso statale russo che si stava accordando con il governo di sinistra su un sostanzioso aumento delle forniture. “Non saremo la baracca più allegra di Gazprom” – aveva proclamato Orbán in una conferenza stampa. Il milione di marchi tedeschi che avrebbero finanziato la campagna elettorale di Orbán nel 1994 sarebbero diventati l’assicurazione sulla vita di Mogilevič. Nel 2008 quest’ultimo avrebbe infatti consegnato la documentazione in suo possesso relativa al politico ungherese a Nikolaj Patrušev, capo dell’FSB e fedelissimo di Putin. Il kompromat sortì l’effetto sperato: Mogilevič fu rimesso in libertà nel 2009 e di lì a poco Orbán ricevette il suo primo invito ufficiale in Russia dall’inizio della sua attività politica.


Il riorientamento di Orbán in senso marcatamente filorusso e (meno apertamente) filo-Putin non sembrerebbe, da queste ricostruzioni ipotetiche, basato su un’evoluzione organica del suo pensiero, ma sulla cruda necessità di preservare il potere nascondendo un segreto di portata tale da poterlo danneggiare. Studiosi dell’autoritarismo contemporaneo e analisti del mondo post-sovietico evidenziano tuttavia, nell’involuzione antidemocratica della leadership orbaniana, una chiara consonanza con le tematiche della propaganda ufficiale russa. La promozione della “famiglia tradizionale”, ragion d’essere del Congresso Mondiale delle Famiglie finanziato dall’oligarca russo Konstantin Malofeev, la propaganda “anti-gender” e le tirate antioccidentali che contraddistinguono ormai il discorso pubblico ufficiale ungherese sono in perfetta consonanza con il modello russo.


Analogamente, molto si è speculato sui motivi che spingono Orbán, il suo partito e i media ufficiali ungheresi ad assumere una posizione così smaccatamente ostile all’Ucraina invasa. Anche considerando il lato economico della cooperazione russo-ungherese, incentrata negli ultimi anni sul discusso progetto di ampliamento della centrale nucleare di Paks affidato a Rosatom, le principali motivazioni sono legate a interessi geopolitici e discorsi culturali. Orbán e il suo partito aderiscono sinceramente alla tesi dell’inesistenza della nazione ucraina come “comunità stabile di persone”, per riprendere la famosa definizione di nazione data da Stalin nel 1913 e ripresa nel febbraio 2022 da Putin per giustificare l’invasione di un paese “artificiale”. Politici e giornalisti polacchi hanno ripetutamente accusato le autorità ungheresi di aver sperato nel 2014 (e di sperare tuttora) in una disintegrazione territoriale dell’Ucraina per trarne vantaggio attraverso l’occupazione dell’ex regione ungherese della Transcarpazia, una zona di confine finora risparmiata dalla guerra in cui restano oggi meno di 100mila ungheresi su un milione e mezzo di abitanti.


Lo storico non è oggi nella condizione di poter verificare gli indizi contenuti in questo articolo con gli strumenti abituali del suo mestiere, né sarà probabilmente in grado di farlo per i prossimi decenni. L’interrogativo sui motivi che stanno spingendo Viktor Orbán e il suo governo a trasformare un paese dalle tradizioni antirusse, come l’Ungheria, nella testa di ponte dell’influenza russa in Europa, coinvolgendo in questa opera di disinformazione consapevole sulla guerra l’opinione pubblica ungherese in patria e nei paesi circostanti, resta quindi irrisolvibile. In questo momento, non possiamo che limitarci a esplorare il fenomeno, segnalandone la gravità per tentare di circoscriverne le conseguenze.

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