Io e la mia amica moscovita N., dall’altra parte della barricata

Ha meno di 40 anni, è laureata, di grande cultura e sensibilità, e non ignora la guerra in corso. Ma, rispetto ad altre persone molto simili a lei che frequentavo a Mosca nello scorso decennio, ha scelto coscientemente di stare dalla parte opposta della barricata.

(nella foto: parata della Vittoria a Mosca,
9 maggio 2022,
Mos.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons)


(di Francesca Lazzarin, assegnista di ricerca in letteratura russa presso l’Università di Udine)


13 marzo 2023 
ore 10:50


Quella che segue non è un’analisi critica, ma una scheggia di memoria che è riaffiorata qualche giorno fa, ruvida e tagliente, trascinandosi dietro una manciata di riflessioni tutt’altro che rassicuranti o risolutive. Nell’anno appena trascorso si è molto parlato di quei cittadini russi che non protestano contro la guerra e/o il regime putiniano. Sono state nominate le generazioni anziane di nostalgici dell’URSS, le fasce sociali disagiate e traviate dalle chimere patriottiche della propaganda televisiva, i cinici con i loro interessi economici e di potere, gli indifferenti “al di fuori della politica” che riescono a fare la vita di sempre, tra shopping e aperitivi. La mia vecchia amica N. non è niente di tutto questo: ha meno di 40 anni, è moscovita, laureata, di grande cultura e sensibilità, e non ignora la guerra in corso. Ma, rispetto ad altre persone molto simili a lei che frequentavo a Mosca nello scorso decennio, ha scelto coscientemente di stare dalla parte opposta della barricata. Condivido dunque, a mo’ di ulteriore tassello di un mosaico di ardua decifrazione e ben lungi dall’essere completo, la sua storia. Anzi, la nostra storia, che rappresenta anche un altro “legame spezzato”, allo stesso tempo affine e diverso da quelli catturati nell’omonimo documentario del 2022 sottotitolato in italiano per Memorial.


Conobbi N. a Mosca, alla festa di compleanno di un nostro amico comune, 9 anni esatti fa. Era il febbraio 2014, io risiedevo in Russia in pianta stabile, con l’idea che difficilmente sarei mai tornata in Italia. Al di là della corruzione, dei brogli elettorali, degli arresti alle manifestazioni, del boicottaggio dei media indipendenti, in fin dei conti non si stava affatto male – specie se eri un expat straniero con lo stipendio in euro, vivevi in centro a meno di mezz’ora a piedi dalla Piazza Rossa e frequentavi vivaci compagnie di giovani tra i 25 e i 30 anni in grado di realizzare progetti culturali, inaugurare nuovi luoghi di aggregazione e promuovere visioni del mondo alternative a quelle dei vertici, senza mai perdersi d’animo di fronte alle difficoltà. D’altro canto, pure dall’alto non erano mancate le iniziative meritevoli: la Mosca hipster degli anni ’10, quella dell’amministrazione Sobjanin, non aveva nulla da invidiare a Londra o Berlino, perlomeno entro i limiti del loro terzo raccordo anulare.


N. era appunto una trentenne cosmopolita e creativa, ma allo stesso tempo le sue radici affondavano salde nel suolo russo. Aveva studiato design e moda in una prestigiosa accademia internazionale, però per i vestiti e gli accessori che disegnava e cuciva si ispirava alle tradizioni sommerse della campagna russa, con tutti i motivi folclorici del caso. Era anche appassionata di architettura, dei palazzi antichi che si erano conservati tra i saliscendi del quartiere di Kitaj-Gorod. All’epoca mi interessava moltissimo conoscere più in profondità gli angoli nascosti della mia città d’adozione, quelli che rimanevano in sordina, persi tra i nuovi grattacieli. Sicché ci trovammo subito sulla stessa lunghezza d’onda. Diventammo davvero molto amiche, e non potrei contare le interminabili giornate passate a camminare per i viali e i parchi, i caffè condivisi confrontandoci su un’infinità di argomenti, le mail in cui ci davamo consigli su libri e film, i viaggi insieme. Mi voleva molto bene anche perché, a detta sua, io non giudicavo negativamente la Russia a priori, a differenza di tanti europei prevenuti – solo tempo dopo avrei riconosciuto in quella frase il candido vittimismo che, opportunamente rinfocolato dalla paranoia, avrebbe portato al revanchismo aggressivo di oggi.


In parallelo alle nostre discussioni e ai nostri pianti per i rispettivi traumi del passato e fidanzati sbagliati, si susseguivano eventi decisamente più grandi di noi. Un mese dopo il nostro primo incontro arrivò l’annessione della Crimea, che N. supportò. Addirittura, lo vide come un segno del destino e si trasferì a Sebastopoli per un paio di mesi, perché percepiva una sorta di legame spirituale arcano con la contesa penisola del Mar Nero, dove aveva svariati amici di vecchia data. E all’epoca, devo ammetterlo, ero anche io possibilista in merito: i suoi racconti sullo schietto senso di appartenenza alla Russia della maggioranza degli abitanti del cosiddetto “orgoglio dei marinai russi” (come recita una notissima canzone sulla Seconda guerra mondiale) permettevano in qualche modo di sorvolare sulla sconcertante condotta degli “omini verdi” dell’esercito mandato dal Cremlino. Su Donec’k e Luhans’k, bombe a orologeria esplose poco dopo, N. era più cauta: tendeva però a far ricadere tutta la colpa sull’Ucraina e l’Occidente, e a minimizzare il coinvolgimento russo. Un atteggiamento mantenuto anche in estate, quando fu abbattuto il tristemente noto Boeing malese. Però i suoi nonni in gioventù, negli anni ’50, avevano vissuto proprio a Donec’k: mi aveva mostrato delle vecchie foto e sperava che presto, non si sa come, la città sarebbe ritornata alla pace e alla vita. Per il resto, nei discorsi che facevamo, io e lei travalicavamo raramente i confini del nostro microcosmo.


Poi seguì una prevedibile svolta ortodossa: N. riprese ad andare assiduamente in chiesa, a leggere e rileggere la Bibbia. Per un periodo frequentò una parrocchia del centro di Mosca impegnata nel sociale e nel dialogo ecumenico: anche io partecipai a numerosi loro eventi di beneficenza, dando il mio contributo. N., da parte sua, all’epoca era un’accanita sostenitrice della cosiddetta “teoria dei piccoli gesti”, ulteriormente corroborata dalla sua rinnovata fede cristiana: in parole povere, si trattava di cominciare da sé e dalla propria cerchia e darsi da fare per aiutare il prossimo, senza anelare a cambiamenti più grandi e sistemici. Va da sé, N. era estremamente scettica nei confronti dei nostri amici comuni che, nel frattempo, scendevano in piazza a protestare contro le elezioni blindate del consiglio comunale moscovita e gli emendamenti costituzionali – Aleksej Naval’nyj e la sua squadra, d’altronde, non le avevano mai ispirato alcuna fiducia. Allo stesso tempo, non si poteva certo dire che fosse putiniana. Era, più che altro, fatalista: in Russia ai piani alti non poteva andare diversamente, tanto valeva non pensarci e coltivare il proprio giardino, incentivando dal basso quello che c’era di buono. D’altronde, “vuoi dirmi che in Europa e in America c’è davvero la democrazia?”, mi chiedeva a volte a bruciapelo. E io, richiamando alla mente la mia scalcagnata seconda (o terza?) Repubblica, dove quasi tutti i premier erano stati nominati in seguito a consultazioni di palazzo dopo l’ennesima crisi di governo, a prescindere dai risultati delle elezioni, effettivamente non sapevo bene cosa dire. Tanto più che ero emigrata in Russia perché in Italia non c’era lavoro: era difficile, a meno di non sembrare incoerenti, spezzare una lancia a favore di quel miraggio europeo per cui i miei amici ucraini si erano presi le manganellate della polizia sul Majdan, di quella vagheggiata oasi di civiltà e libertà dove i miei studenti universitari russi ventenni sognavano di trasferirsi e che io, invece, non avevo mai amato davvero. N. sicuramente era legata a Mosca, alle sue strade e alle sue facce molto più di quanto io fossi mai stata legata alla cittadina veneta contro cui avevo ampiamente imprecato, rimasticando come una pillola amara l’adagio “ingrata patria, ne ossa quidam mea habes”.


Nel 2020 però ci tornai, nella mia “ingrata patria”. Si misero di mezzo il Covid-19 e varie traversie personali, oltre all’irrigidimento ideologico che cominciava già a fare capolino nell’università dove insegnavo. Con N. da allora mi sentii più raramente, anche perché lei nel frattempo aveva avuto la sua seconda figlia – apparteneva ancora a una generazione di russe abituata da un lato a sentirsi obbligata ad avere almeno due bambini prima dei 35 anni per potersi definire una donna a pieno titolo, dall’altro a sposarsi, divorziare e risposarsi in modo istintivo, mettendo subito su famiglia senza riflettere più di tanto sul “dopo”. Anche di quello avevamo parlato spesso: dei pattern dannosi di una nazione traumatizzata e confusa, a cui non avrebbe fatto male una seduta di psicoterapia collettiva per sviluppare un approccio più equilibrato alla vita. N. ne era consapevole e sperava che le sue due bambine sarebbero cresciute in un contesto diverso: in fondo, nonostante tutto, non avevano vissuto gli smottamenti degli anni ’90, quando i genitori ventenni di N. si ubriacavano nel cortile di fronte alla figlia come se non ci fosse un domani, andavano alle feste degli amici portandosela dietro e se la dimenticavano lì, per poi accorgersi della sua assenza solo la mattina dopo. N. ci era andata, dalla psicologa, e parlavamo spesso della terapia. Anche da quel punto di vista sembrava che la “teoria dei piccoli gesti” potesse dare i suoi frutti, passo dopo passo.


***


Il 26 febbraio 2022 ho litigato con N. per la prima volta. Rispondendo a un mio messaggio disperato sull’inizio dell’invasione su larga scala, ha cominciato a provocarmi sugli otto anni di genocidio nel Donbas, sulle sofferenze della Crimea mai riconosciuta in quanto russa, sui fascisti ucraini, sull’ipocrisia dell’Occidente, quasi ignorando tutti i pensieri che avevamo condiviso, appunto, dal 2014 ad allora. Senz’altro l’avevo delusa: quando abitavo in Russia aveva praticamente smesso di percepirmi come una straniera, ero saltata con successo al di là del cerchio di fuoco che separa, nelle pieghe più ataviche della mentalità autoctona, l’“estraneo” dal “proprio”, ed ero diventata per così dire “una di loro”. Probabilmente, quindi, si aspettava da me parole diverse. Sicuramente, però, non mi poteva tacciare di russofobia: sarei stata anche disponibile a un confronto sulle famigerate colpe della NATO, o sulle derive delle destre ucraine. Ma non con qualcuno che mi scriveva righe come “la Russia sta difendendo i suoi interessi come può” e “le nostre forze armate dicono di stare colpendo solo obiettivi militari, e io gli credo”. Ho voluto evitare il protrarsi di scambi di battute dolorosi per entrambe: ho chiuso il discorso e ho smesso di cercarla, provando a conservare nella memoria i nostri trascorsi degli anni ’10, e non lo sciagurato avvio del nuovo decennio. D’altronde, neanche lei mi ha più contattata.


***


A un anno di distanza ho riguardato il profilo di N. su VKontakte, l’unico social network importante rimasto ufficialmente attivo in Russia dopo il blocco di Facebook, Instagram e Twitter. Differentemente da altri, N. non usa il VPN e dunque ha mantenuto la sua pagina solo lì. Sapevo che quello che ci avrei trovato, molto probabilmente, non mi avrebbe fatto piacere, ma volevo almeno sapere come stava. Ora N. aiuta i profughi donbassiani arrivati a Mosca, raccoglie soldi per i soldati russi feriti ricoverati negli ospedali militari della capitale, supporta associazioni che si occupano della ricostruzione di Mariupol’ (ritenuta a tutti gli effetti una città russa, che “ha sofferto molto”, come lei scrive senza precisare a causa di chi). Se non altro è consapevole della guerra in corso e se ne preoccupa, differentemente da tanti moscoviti che si proclamano “al di fuori della politica” e continuano a bere cocktail e fare selfie come se niente fosse, irritandosi per i prezzi astronomici dei voli Mosca-Roma con scalo a Dubai che gli impediscono di farsi le belle vacanze di una volta. Da un lato, N. fa indubbiamente qualcosa di utile per il prossimo: la “teoria dei piccoli gesti”, a suo modo, continua ad essere applicata. Dall’altro, è sempre più convinta che il suo Paese, nonostante tutto, non abbia particolari colpe, e proprio per questo motivo gli abitanti delle regioni ucraine annesse vorrebbero farne parte, senza “doppi standard” all’occidentale. Sostiene che chi, tra gli invisi compatrioti emigrati, definisce il popolo sovietico e russo uno “schiavo” assuefatto all’imperialismo, in realtà non comprende la resistenza e la capacità di sacrificio di quello stesso popolo, che seppur traumatizzato e sofferente (o forse proprio per questo) può essere assimilabile, piuttosto, al “rab Božij”, lo “schiavo di Dio”, paradossalmente libero perché non necessita di nulla di materiale, ma solo della fede – ed è dunque tanto più ammirevole. La seduta collettiva di psicoterapia, al momento, pare rimandata a data da destinarsi.


Mi chiedo se valga la pena riprovare a intavolare un dialogo. In un post di qualche mese fa ha scritto che è normale perdere i vecchi amici quando i rispettivi sistemi di valori sono così diversi: credo si riferisse anche a me.


E mentre mi attanaglia un dolore fisico per la spirale di distruzione senza fine che questa guerra ha innescato, sento d’un tratto che ciò che mi fa soffrire non è solo la perdita forse irreversibile di una persona cara, ma anche l’estremo relativismo delle nostre coordinate esistenziali: quello che scrive N. sui profughi del Donbas che sta aiutando a Mosca e sui soldati russi feriti e bisognosi di preghiere ed ex voto è in fondo molto simile a quello che scrive la mia amica ucraina Y., evacuata a Čerkasy dopo che la sua cittadina vicino a Sumy è stata distrutta durante l’occupazione russa nel marzo 2022. Solo, le parti sono invertite, i “buoni” diventano “cattivi”, la “verità” diventa “menzogna”, e viceversa. Sembrano due rette parallele che, per definizione, non si possono toccare. E ormai l’impressione è che non ci sia più scampo da questa dialettica inceppata tra il bianco e il nero, cristallizzata nel gelo del secondo febbraio di guerra totale.


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