(foto: sede del KGB bielorusso:
Gruszecki, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)
03 aprile 2023
Aggiornato alle 14:13
All’inizio di gennaio la giornalista russa Ekaterina Jan’šina è arrivata a Minsk per seguire il processo contro l’attivista premio Nobel Ales’ Bjaljacki per il Centro per la difesa dei diritti umani di Memorial. È stata fermata subito dopo l’udienza e ha trascorso i 15 giorni successivi nel famigerato carcere di Akres’cina. Una volta in libertà ha rilasciato la sua prima intervista a “Advokatskaja Ulica”, con cui collabora, raccontando la vita nella cella “politica”, dove per 15 donne ci sono solo due posti letto. L’avvocata di Memorial Natalija Sekretarëva racconta dell’atmosfera di menzogna che circonda gli organi del potere in Belarus’. L’intervista è di Ekaterina Gorbunova, la traduzione di Milly Berrone, Giulio Novazio e Sara Polidoro. Ringraziamo la redazione di “Advokatskaja Ulica“ per l’autorizzazione a pubblicare la traduzione dell’intervista.
Quando e per quale motivo sei andata a Minsk?
Ekaterina Jan’šina: Sono arrivata a Minsk la sera del 4 gennaio per partecipare alla prima udienza del Caso Vjasna in qualità di osservatrice indipendente. Si tratta di una serie di indagini partite nel 2020 nei confronti dei membri dell’organizzazione Vjasna, tra cui il Premio Nobel per la Pace 2022 Ales’ Bjaljackij. Gli attivisti sono stati accusati di organizzazione e finanziamento di attività che violano l’ordine pubblico, nonché di evasione fiscale, ma secondo gli attivisti le motivazioni sono puramente politiche. Al momento è in corso il processo nei confronti del presidente di Vjasna, Ales’ Bjaljackij, del suo vice Valentin Stefanovič e dell’avvocato Vladimir Labkovič. Sono accusati di «associazione a scopo di contrabbando» (art. 4 comma 228 del Codice Penale), e rischiano dai 7 ai 12 anni di prigione.
Dopo aver saputo del tuo arresto, in molti si sono chiesti come mai fossi andata in un paese così rischioso, peraltro a coprire un processo “politico”. Perché lo hai fatto?
Ekaterina Jan’šina: Le frasi “Lo sapevi, no, dove stavi andando?” e “non le leggi, le notizie?” le ho sentite davvero, peraltro anche dagli agenti bielorussi. Molti ritengono che non valga la pena ficcare il naso in questioni rischiose. Ma io non la penso così. Sono andata in Belarus’ perché ritengo che il processo contro Vjasna sia davvero emblematico. Mi è bastato un solo giorno per capire l’assurdità delle accuse. Li accusano semplicemente perché fanno attivismo. Tra i capi d’accusa figurano l’assistenza legale e il pagamento delle multe o del cibo per chi era in galera. Per loro questi sono reati. Sono andata lì per vedere con i miei occhi un processo “politico” contro un premio Nobel per la Pace, premio Nobel che ha ricevuto anche Memorial.
Raccontaci cos’è successo in tribunale. Hai fatto una diretta, qualche foto o video?
Ekaterina Jan’šina: No, questo non è possibile neanche in Russia, ci vuole un permesso del giudice; quindi, ho pensato che fosse meglio evitarlo anche in Belarus’. L’udienza è durata molto, dalla mattina fino al tardo pomeriggio. Secondo la polizia io mi sarei “comportata in maniera aggressiva” e avrei fatto foto e video, ma allora perché mi è stato permesso di restare in aula fino alla fine dell’udienza? Non è realistico. C’erano le telecamere e c’erano le guardie. Se avessi davvero filmato mi avrebbero cacciata via subito. In realtà ho trascritto l’udienza sul telefonino per il Centro per i diritti umani di Memorial.
In Belarus’ è vietato?
Ekaterina Jan’šina: No. Infatti credo che non mi abbiano arrestato per quello. Dopo l’udienza mi hanno portata in un ufficio, ma non si è fatta alcuna menzione a foto o video o ai miei appunti sul telefono. Semplicemente non avevano capito chi fossi, a quale organizzazione appartenessi e perché fossi lì.
Quindi secondo te perché ti hanno arrestata?
Ekaterina Jan’šina: All’udienza eravamo due cittadini russi, io e Oleg Orlov [copresidente del Centro per i diritti umani di Memorial]. Gli agenti ci hanno preso i passaporti, si sono avvicinati a delle persone in borghese e si sono bisbigliati qualcosa all’orecchio. Poi ci hanno fatto entrare in aula, prendendoci tranquillamente i dati. Credo che, a prescindere, il fatto che ci fossero due cittadini russi abbia sorpreso i loro servizi segreti. Probabilmente sono riusciti a verificare chi fosse Orlov, mentre capire chi fossi io era più difficile.
Com’è avvenuto l’arresto?
Ekaterina Jan’šina: Alla fine dell’udienza mi si è avvicinata una guardia: “Signorina, mi segua, dobbiamo parlare con lei”. Mi hanno accompagnata nella stanza di fronte, dove c’era un tipo con un gilet blu. Ho capito in seguito che era un agente delle teste di cuoio che mi aveva aspettato per tutta la durata dell’udienza. La guardia mi ha poi detto “Si sieda qui, non tocchi il telefono e non tiri fuori niente dalla borsa. Stia seduta e aspetti”. “Cosa dovrei aspettare?”, “Un agente dei servizi”. Cinque minuti dopo sono arrivati diversi uomini in borghese. Non so se fossero davvero agenti del KGB, forse volevano soltanto intimidirmi. Uno di loro si è seduto di fronte a me e mi ha chiesto di presentarmi e di mostrargli i documenti. Al che io, ovviamente, ho risposto: “Prima lei. E mi spieghi cosa sta succedendo: sono in stato di fermo?”. La mia risposta lo ha irritato all’istante. Mi ha detto in maniera piuttosto sgarbata che era lui a fare le domande e che non era un gioco. Gli ho risposto che non avevo comunque intenzione di giocare con lui. Ha iniziato a chiedermi di che nazionalità fossi, anche se lo sapeva già. Mi ha chiesto se conoscessi le leggi della Belarus’, se le avessi studiate prima di presentarmi lì. Gli ho detto che l’esame di diritto l’avevo già dato all’università e che non avevo intenzione di parlare di leggi con lui. Lì ha iniziato a dirmi che in Belarus’ i canali Telegram estremisti sono vietati. E mi ha chiesto la password del mio telefono per poterlo controllare. Avranno pensato che stessi trasmettendo su un canale vietato, mi sono detta all’inizio, ma in seguito ho capito che sbirciare nel telefono è una prassi standard in Belarus’, quando vieni fermato. Mi sono rifiutata di sbloccarglielo. Mi ha guardato come se avesse di fronte una pazza: “Dammi il telefono”, ripeteva. “No”. Mi ha guardato per qualche secondo, confuso. Poi ha detto agli altri: “Portatela via”.
Cosa è successo dopo?
Ekaterina Jan’šina: Dopo mi hanno accompagnato al guardaroba, dove ho preso quello che avevo lasciato, poi mi hanno fatto salire su un’auto della polizia. Non mi hanno detto dove mi stavano portando: all’ingresso dell’edificio ho potuto solo leggere che si trattava del comando Moskovskij. Ho aspettato che iniziassero a compilare qualche documento o che mi interrogassero. Ma niente. Anzi, c’è stata qualche battuta scherzosa, uno che brontolava perché mi avevano portato nel momento sbagliato, quando c’erano da decidere le pattuglie del turno di Natale… L’agente era sorpreso di non trovare i miei dati, neanche sapeva che fossi russa. Appena l’ha scoperto ha chiamato “un collega russo” – così ha detto – e gli ha mandato una foto dei miei documenti per chiedergli di cercare informazioni su di me. Dopodiché è uscito, e quand’è tornato sospirava “Eh, Katja Katja…”. Poi mi hanno portata in un altro ufficio e mi hanno detto di togliere gli orecchini, gli anelli, i lacci delle scarpe e altre cose. Lì ho capito che avevano deciso di prendere dei provvedimenti, ma non sapevo quali. A quel punto mi hanno riportata nel primo ufficio. Io chiedevo in continuazione “E adesso?” e loro mi rispondevano “Tutto a posto, tranquilla”. Dopo poco sono arrivati altri agenti, mi hanno messo le manette e mi hanno portata via.
E poi?
Ekaterina Jan’šina: Strada facendo i poliziotti mi hanno chiesto cosa avessi combinato (neanche loro sapevano perché fossi stata arrestata). “Ho raccontato una barzelletta su Lukašenka che non è piaciuta”. Mi hanno portato in una stazione di polizia. Mentre compilavano i moduli mi hanno chiesto per chi lavoravo, ma io non volevo che lo sapessero e ho risposto che ero disoccupata. E “dice che è disoccupata” gliel’ho sentito riferire a qualcuno anche al telefono… A un certo punto uno dei poliziotti mi ha detto di “parlare”. Ma siccome non avevo ancora capito di cosa volevano accusarmi, gli ho detto che l’articolo 51 della Costituzione russa mi autorizzava a non dire nulla che potesse essere usato contro di me. E gli ho detto di metterlo a verbale. Ha eseguito. All’ennesima mia domanda sul perché ero lì, la risposta è stata “Lo scoprirai presto”. Se chiedevo di avere un avvocato, non rispondeva. “Quindi non posso averlo?”: lì ha annuito. A un certo punto mi dà il verbale e leggo che mi ero comportata in modo aggressivo al comando Moskovskij, dove invece gli agenti erano stati molto carini e mi avevano addirittura offerto una torta. Nel verbale c’era scritto che avevo insultato gli agenti, che li avevo aggrediti urlando e non avevo cambiato modi quando mi era stato chiesto di farlo. Guardo gli agenti e dico “Lo sapete cosa state facendo, sì??” E loro “Eh, Katja Katja…”. Lì è partito la solita manfrina: “Fosse per noi ti porteremo al cinema…”. E io, serafica “Vi state inventando il mio caso di sana pianta”.
Cos’hai fatto a quel punto?
Ekaterina Jan’šina: Ho fatto mettere a verbale che non ratificavo quanto era scritto e che non mi avevano parlato dei miei diritti, né mi avevano dato la possibilità di chiamare un avvocato. Avevano anche sbagliato le date, avevano scritto che ero cittadina bielorussa e che mi avrebbero sequestrato i telefoni. Poi mi hanno messo le manette e mi hanno portata in cella.
Come si stava lì?
Ekaterina Jan’šina: Le celle russe e bielorusse sono identiche. Scatole di cemento dove puoi fare 3-4 passi, che puzzano di muffa e di urina e dove fa molto freddo. Mi hanno dato solo il cappotto. La sciarpa e la borsa le avevo lasciate agli agenti di polizia. Era impossibile dormirci, lì dentro. Ho “passeggiato” quasi tutta la notte per scaldarmi. Poi ho chiesto se potessi andare in bagno. E l’agente che mi ci ha portato mi ha detto che alle 5 del giorno successivo sarei stata portata nel carcere di Akres’cina. Lì ho trovato altri detenuti in attesa, 10 persone accusate di furti o ubriachezza. Ero l’unica “politica”. Ci hanno registrati tutti e poi infilati nei “bicchieri”, delle stanzette microscopiche dove si sta solo in piedi o accovacciati. Impossibile sedersi o stendere le gambe. Eravamo in diversi in ogni buco e si stava stretti. Io ero l’unica donna. Da soli, forse, si poteva anche sopportare. Ma in più d’uno c’è chi si è sentito male. “Sei qui per soffrire” mi hanno detto. E così ho scoperto le regole di Akres’cina.
Ce le potresti spiegare?
Ekaterina Jan’šina: Di fronte al “bicchiere” ci sono il tavolo dell’agente di guardia e la stanza in cui ti visita l’infermiera, dove ti fanno togliere i vestiti e ti danno le ciabatte. Ho sentito una voce maschile chiedere con cattiveria: “Che te le sei tagliate a fare le vene, eh?”. E a seguire una raffica di insulti. Il destinatario era un prigioniero, non politico, che aveva cercato di tagliarsi le vene con un pezzo di ferro trovato in cella. “Perché ci trattate in modo disumano” gli ha risposto. L’agente gli ha imprecato contro: “Non sei qui per avere dei diritti. Sei qui per soffrire. Un’altra bravata del genere e ti lasciamo per una settimana appeso a un palo: per i polsi e per i piedi, con la faccia all’ingiù. Se fossi finito qui nel 2020 non ti sarebbe venuto neanche in mente di avere dei diritti. Lo sai quanti ne abbiamo sepolti, qui, all’epoca?”. Più tardi, quello stesso agente ha molto amichevolmente offerto una fetta di torta ai suoi colleghi.
Di nuovo la torta…
Ekaterina Jan’šina: Si. Perché quello era il suo ultimo giorno dopo trent’anni di servizio e voleva festeggiare la pensione. Raccontava ai colleghi come intendeva godersela e poco dopo gridava addosso ai detenuti. Io intanto studiavo il “bicchiere”. Le pareti erano ricoperte da scarabocchi. Ricordo che in un punto c’era scritto: “Pace al mondo”. E poco sotto: “Signore, pietà”. “Ci sarà da divertirsi” ho pensato. Di solito prima di entrare in cella ti fanno spogliare e vieni perquisita dalla testa ai piedi. A me non è successo, forse perché non avevano personale femminile e non valeva la pena far venire qualcuna apposta per me. Hanno preso le mie scarpe, le altre mie cose e mi hanno dato delle ciabatte enormi, un 43. L’infermiera mi ha chiesto se soffrivo di qualche malattia e poi mi hanno portata in cella.
Ho l’impressione che tu stia paragonando la tua esperienza in Belarus’ con quella russa. In Russia eri già stata arrestata?
Ekaterina Jan’šina: Sì, durante una manifestazione nel 2018: due giorni di reclusione, il tempo che avevo già trascorso alla stazione di polizia. Quindi non sono mai stata in un carcere preventivo russo, ma ho molti amici e conoscenti che mi hanno raccontato quali sono le condizioni là dentro. Mentre mi portava in cella, il “pensionato” mi ha chiesto perché ero dentro. Siccome l’avevo ripetuto fino alla nausea, gli ho risposto: “Perché ho degli occhi bellissimi”. È scoppiato a ridere.
Con chi dividevi la cella?
Ekaterina Jan’šina: Non era una cella “politica”. C’erano donne normalissime, arrestate per ubriachezza, per esempio. Entrando ho pensato: “Ci sono quattro brande e noi siamo in sei. Come dovrei dormire: stendendo un materasso a terra?”. Poi ho scoperto che in quella cella non sarei rimasta a lungo: lo stesso giorno ci sarebbe stato il processo, in seguito al quale mi avrebbero trasferita nel carcere di Akres’cina.
Come è andato il processo?
Ekaterina Jan’šina: È arrivato un agente di Akres’cina e mi ha convocata per l’udienza. Sapevo già che non avrei lasciato l’edificio e che il processo si sarebbe tenuto in collegamento video. Infatti, mi hanno portata in una stanzetta dove c’erano un tavolo e un notebook con aperto Skype. Seduta al tavolo c’era una guardia carceraria e in piedi alle sue spalle due detenuti. Chi è rinchiuso ad Akres’cina deve stare in piedi con la faccia al muro e le mani dietro la schiena, ed è così che ci hanno messi. Veniamo al processo. Il primo detenuto si è presentato davanti allo schermo. La giudice gli ha chiesto le generalità e ha detto: “Il tal giorno hai rubato un salame e della nutella. Confessi?”. E lui: “Confesso”. E lei: “Tredici giorni di reclusione; avanti il prossimo”. Fine del processo. Il secondo era accusato di non essersi presentato al giudice di sorveglianza per la libertà vigilata. Appurata la sua identità, la giudice gli ha chiesto: “Come mai non ti sei presentato?” Lui ha risposto: “Mi sono ammalato, stavo molto male”. La giudice: “E allora perché non hai chiamato il pronto soccorso?”. “Non lo so”, E lei: “Benissimo, a quanti giorni dovrei condannarti?”. Lui: “Non posso pagare una multa?” Lei: “Dimmi quanti giorni, se no decido io”. Lui: “D’accordo, tre vanno bene?” Lei: “Sì”. Fine. Poi ho sentito che la mia udienza si sarebbe tenuta dopo la pausa e mi è sembrato di cogliere la parola “difensore”. Ho pensato: “Possibile che in Belarus’ abbiano deciso di nominare un avvocato d’ufficio per una cittadina straniera? O me l’avranno trovato i miei colleghi?”. Sono stata riportata in cella, dove le altre mi hanno chiesto chi fosse il giudice. Quando hanno sentito il nome Motyl’ sono sbottate: “Ahi! Meglio che ti dichiari subito colpevole, dà sempre il massimo della pena, quella”. Finita la pausa sono tornati a prendermi e mi hanno portata a un altro piano, dove c’era una fila infinita su entrambi i lati del corridoio, tutte faccia al muro e mani dietro la schiena. Tutte ragazze e donne: non sembravano una minaccia per la società. Il corridoio aveva una rientranza con un tavolo, un portatile e una sedia su cui sedeva la mia guardia carceraria. Gli ho chiesto: “Davvero staremo qui nel corridoio?”. Mi ha risposto: “Si, tutte le stanze sono occupate.” Mi sono seduta accanto a lui e abbiamo aspettato l’inizio del processo. C’era molto rumore e una guardia di Akres’cina sbraitava contro chiunque osasse muoversi.
Natal’ja Sekretarëva [una degli avvocati di Memorial, N.d.R.], ci potrebbe raccontare cosa stava succedendo nel frattempo a “Memorial”? Come ha saputo dell’arresto di Katja, come le ha trovato un avvocato, come ha interagito con lui?
Natalija Sekretarëva: Oleg Orlov [co-direttore del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, N.d.R.] ha cominciato a scriverci, disperato e tutto in maiuscole: “HANNO PORTATO VIA KATJA PER INTERROGARLA”. Aveva cercato di entrare anche lui, ma glielo avevano impedito minacciando di usare la forza. Allora è andato al comando Moskovskij, dove gli hanno mentito, dicendogli che Katja non c’era: un “classico”. Oleg era in uno stato di impotenza assoluta: non riusciva a trovarla perché ovunque andasse gli mentivano. Noi abbiamo applicato i nostri protocolli, facendo quello che facciamo in casi simili in Russia. Di solito troviamo un avvocato che raggiunge il suo assistito alla stazione di polizia. In Belarus’ le cose sono un po’ più complicate. Ci avevano avvertito fin dall’inizio che erano rimasti pochissimi avvocati e che sarebbe stata dura trovarne uno. Attraverso diversi contatti abbiamo avuto il numero di una quindicina di legali ancora in attività, scoprendo però che tutti i loro telefoni erano probabilmente sotto controllo. Non dovevamo dire nulla che potesse attirare l’attenzione degli apparati di sicurezza. Le persone in Belarus’ vivono sotto perenne minaccia. La maggior parte degli avvocati mi ha scaricata. “Sono occupato”, dicevano quando li chiamavo, “Sono in viaggio d’affari”. Due avvocate mi hanno risposto che non risiedevano più in Belarus’. Una ha aggiunto che era fuggita per ragioni politiche. Era ormai sera tarda quando abbiamo capito che alla stazione di polizia non ci sarebbe andato nessuno. È stata dura farsene una ragione. L’avvocata che alla fine ha difeso Katja aveva comunque specificato che era “una perdita di tempo”. Nel senso che in Belarus’ gli avvocati possono dare al massimo un “sostegno emotivo” ai propri assistiti. Io insistevo: “Abbiamo bisogno che vada alla stazione di polizia, adesso.” Ovviamente non mi ha dato della povera scema, ma mi piacerebbe sapere che cosa ha pensato di me. Avendo studiato giurisprudenza e conoscendo il sistema giudiziario russo mi sentivo come probabilmente si sente chi chiede informazioni al bot di “OVD-Info” [progetto mediatico che combatte la persecuzione politica, N.d.T.]. Le domande che facevo erano banalissime: “La possono arrestare per avere trasmesso in diretta il processo?”. “Noi siamo sicuri che non possono farlo, ma voi ce lo potreste confermare?”. “Di cosa potrebbero accusarla?”. Abbiamo preso in considerazione tattiche diverse. Eravamo pronti a chiamare la stazione di polizia e avevamo addirittura scelto chi si sarebbe spacciata per la sorella di Katja mettendosi a piangere al telefono, ma poi ci siamo resi conto che non avrebbe funzionato. Verso mezzanotte e mezza ci siamo arresi. Il giorno dopo Oleg Orlov è andato in tribunale e ha trasmesso l’udienza in diretta, in modo che potessimo seguirla. Cosa per cui non è stato arrestato.
È normale che in Belarus’ un avvocato non riesca a vedere la sua assistita?
Natalija Sekretarëva: Una attivista per i diritti umani di una ONG straniera l’ha messa così: in Belarus’ non dicono mai niente a nessuno, né agli avvocati, né ai parenti. E la gente è rassegnata: “Tanto vi mentiranno. Ovunque andrete vi mentiranno”. Come hanno mentito a Orlov. Ad Akres’cina gli hanno poi confermato che Katja era detenuta lì, ma hanno addotto una sfilza di ragioni per cui non era possibile vederla né trasmetterle un messaggio. Prima motivazione: le restrizioni anti-Covid. Seconda: è un diritto che hanno solo i parenti stretti. Terza: il capo ha detto di no.
Quindi è impossibile trasmettere un messaggio a chi è recluso a Akres’cina?
Ekaterina Jan’šina: Ad Akres’cina non arriva mai niente a nessuno, e parlo dei prigionieri politici. Solo i medicinali, a patto che i parenti possano dimostrare la loro parentela in forma scritta. E anche lì non li danno direttamente a te. Ogni mattina passa un’infermiera e domanda: “Che le serve? Di cosa soffre?”. Poi controlla se a tuo nome c’è un qualche medicinale, e se c’è ti allunga un paio di pastiglie. In infermeria non hanno quasi niente, giusto le pastiglie per la tosse e le compresse di carbone attivo.
Natalija Sekretarëva: Di sicuro l’avvocata ha tentato di vedere Katja almeno una volta, ma non ci è riuscita. Mi pare che le abbiano raccontato che non c’erano stanze libere per il colloquio, o un’altra frottola del genere. Abbiamo capito dopo che averci anche solo provato è stata da parte sua una dimostrazione di grande stima nei nostri confronti. Sapeva benissimo che non l’avrebbero lasciata entrare.
Katja, ci hai raccontato che alla fine ti sei ritrovata in un corridoio di Akres’cina con in grembo un portatile e intorno tantissimi compagni di sventura. Hai chiesto di avere un colloquio riservato con l’avvocata?
Ekaterina Jan’šina: All’inizio dell’udienza la giudice mi ha chiesto di confermare il mandato al mio avvocato difensore. Ho domandato se fosse un avvocato d’ufficio o se lo avesse assunto qualcuno: non avevo intenzione di accettare un avvocato nominato dallo Stato. Quando è venuto fuori che era opera dei miei colleghi, ho confermato subito il mandato. Io ero nel corridoio, ad Akres’cina, l’avvocata in tribunale. Una volta iniziata l’udienza ha chiesto un colloquio riservato con me [su Skype]. La giudice ha lasciato l’aula, ma il cancelliere che redige il verbale è rimasto. Quanto a me, era chiaro che non mi avrebbero lasciata sola con nessuno: Akres’cina funziona così. Se ti affibbiano un agente, è chiaro che non ti mollerà un istante.
Quindi l’incontro con l’avvocata è avvenuto in presenza del segretario e dell’agente?
Ekaterina Jan’šina: Sì.
E siete comunque riuscite a parlare del processo?
Ekaterina Jan’šina: Sì. Ovviamente non abbiamo discusso di nulla di veramente riservato. Un esempio: l’avvocata mi ha chiesto come stavo. Io ero stata fortunata, nessuno mi aveva messo le mani addosso. Ma poniamo che mi avessero picchiata: avrei potuto denunciare la violenza senza temere conseguenze, con accanto una guardia carceraria? Ne dubito. Come facevo a sapere a chi avrebbe fatto rapporto? A Akres’cina fanno di te quello che vogliono, che tanto nessuno può venire ad aiutarti.
Cosa ci puoi dire del processo?
Ekaterina Jan’šina: Rispetto ai processi che avevo visto prima, il mio almeno sembrava un processo. La giudice ha esposto i capi d’accusa, ha elencato i miei diritti… Tuttavia, nel corso dell’udienza sono state dette molte cose che avrebbero dovuto quantomeno insospettirla. L’accusa si fondava sulla testimonianza dell’agente Porfjanovič, che aveva firmato il verbale. L’avvocata gli ha domandato: “Lo ha firmato lei il verbale?”. Lui ha bofonchiato un sì. “E allora perché il suo cognome è scritto tre volte in tre modi diversi? Ha sbagliato a scrivere il suo cognome?”. Prima ha risposto che era stata una giornataccia, poi ha cominciato a dire che ero stata “aggressiva” già in aula, durante il processo contro il gruppo per i diritti umani Vjasna. Per questo mi avevano portata in una stanza apposita per una chiacchierata, ma io mi ero opposta insultandoli e perciò ero stata portata in centrale, dove avevo offeso gli agenti con i peggiori epiteti. E quello mi veniva contestato. Ho domandato alla giudice se fosse possibile visionare i filmati delle telecamere di videosorveglianza. Lei è scomparsa per una ventina di minuti per poi riapparire e dichiarare: “Purtroppo in quella stanza del quarto piano non ci sono telecamere!”. Benissimo, diamo un’occhiata ai filmati del tribunale, allora. Ero seduta proprio sotto la telecamera: se ho davvero ripreso l’udienza i filmati lo confermeranno. E lì la giudice ha risposto che non ero sotto processo per il comportamento in tribunale, ma per quello che avevo fatto alla stazione di polizia. “Richiesta respinta”. La mia avvocata ha evidenziato molti altri vizi di forma e persino il mio agente di scorta si è messo a seguire l’udienza con interesse. Prima di pronunciare il verdetto la giudice si è assentata per un’ora e mezza. All’inizio ero sicura che mi avrebbe dato il massimo della pena. Poi sono cominciati i dubbi: per condannarmi a 15 giorni non c’era bisogno di pensarci tanto. Era evidente che qualcosa rendeva la decisione più difficile. Alla fine, è tornata e i giorni sono stati 15. Ho avuto l’impressione che la mia guardia fosse più scossa di me. Perché io me lo aspettavo, dal sistema giudiziario bielorusso, mentre lui non era evidentemente abituato ai “processi politici”. Spero che questo processo abbia scalfito almeno un po’ le sue convinzioni. Gli ho detto di non preoccuparsi troppo…
Hai consolato una guardia carceraria di Akres’cina sconvolta dal fatto che fossi stata condannata a 15 giorni di reclusione?
Ekaterina Jan’šina: Non era di Akres’cina, era della polizia. Portava i detenuti da Akres’cina al tribunale. Visto che la seduta si sarebbe tenuta su Skype mi aveva accompagnato al portatile. Mi ha parlato un po’ di sé: si occupava degli imputati a cui veniva concessa la libertà vigilata o che avevano già scontato la pena e doveva presentarsi per la firma. Di solito i prigionieri politici non lo riguardavano, ma a volte gli capitava di accompagnare i detenuti da Akres’cina al tribunale.
Ma è comunque parte del sistema e i suoi colleghi hanno montato un processo contro di te. Eppure, hai provato empatia per lui.
Ekaterina Jan’šina: È parte del sistema, si. Non parlerei di empatia, però. In certe situazioni viene fuori il mio lato canzonatorio. Era buffo avere accanto un poliziotto evidentemente stupito da quanto aveva visto. Così gli ho detto per scherzo: “Non stia lì a crucciarsi, passerà in un baleno”. È venuto fuori che non sapeva neanche chi fosse Ales’ Bjaljacki. Alla mia domanda: “Ma come? È un suo connazionale che ha vinto il premio Nobel, è una celebrità in Belarus’” ha risposto che lavorava troppo e non seguiva le notizie. Cosa gli vuoi dire?
Natal’ja, che cosa vi aspettavate dal processo, lei e l’avvocata? Vi ha stupito la sentenza?
Natalija Sekretarëva: Anche quando ti fermano durante le manifestazioni in Russia non puoi che fare congetture: quanto è severo quel giudice? si sarà alzato col piede giusto, stamattina?… Eravamo consapevoli che avrebbero potuto condannarla a 15 giorni, già ci avevano spiegato che il giudice Motyl’ dava sempre il massimo della pena. Un po’ come in Russia, insomma.
Katja, cos’è accaduto dopo il processo?
Ekaterina Jan’šina: Sono stata portata al Centro di Isolamento di Akres’cina. Lì ho domandato alla mia guardia se potessi avere dei libri. Accanto a lui c’era un tizio in borghese che ha riso sotto i baffi. “Come no” mi ha risposto, “abbiamo libri, giochi di società e anche un biliardo!”. È possibile che sia un problema di chiunque guardi alla Belarus’ dall’esterno: non capiamo fino in fondo che cosa sta accadendo lì, non ci rendiamo conto di cosa subisce la gente. Basandomi sulla mia esperienza in Russia, immaginavo che ogni due o tre giorni avrei potuto fare una telefonata, che avrei ricevuto la posta. O almeno un cambio di vestiti, dato che i miei erano palesemente poco adatti ad affrontare le condizioni in cui mi sarei trovata … Mentre aspettavo di essere perquisita è arrivato un agente del Centro di Isolamento con in mano carta e penna: “Scrivi le password”. Vorrei ricordare che i miei telefoni non erano lì, che me li avevano sequestrati prima. Gli ho risposto che non intendevo dargliele. Gli si è stampata in faccia un’espressione di incredulità assoluta, come le altre volte in cui mi ero rifiutata di eseguire un ordine. Dopo qualche istante di vuoto è arrivata la domanda: “Perché”? Ho risposto: “Perché è un mio diritto”. Mi ha guardato come se fossi pazza, si è voltato ed è andato via in silenzio. Dopo un minuto, è tornato. Dovevano avergli detto: “Quella è russa, non capisce dov’è finita. Vaglielo a spiegare tu”. “Ma hai capito dove ti trovi?” mi ha detto. “Lo sai che posto è questo?” Ho risposto che ne avevo ovviamente sentito parlare. “Lo sai cosa fanno alle persone qui dentro? Sai che potresti non uscirne viva? Sicura che non te ne pentirai?”. Non era minaccioso. Il suo era il tono dell’adulto che dà dei consigli a una ragazzina ignara. Gli ho detto: “Chissà, potrei anche pentirmene. Vedremo”. Mi ha guardato, si è voltato ed è andato via in silenzio. I primi ad andare in cella sono stati gli uomini. Io ero con un’altra ragazza: avevamo quasi raggiunto la cella anche noi, quando un’altra guardia carceraria, riferendosi al mio rifiuto di dare le password, mi ha detto: “Ascolta un consiglio: da’ retta a chi ne capisce. Il tempo non ti mancherà, qui dentro”. Quando si è aperta la porta della cella, ho visto che c’era un solo letto a castello, ma che le prigioniere erano una decina almeno. Ho capito subito che era una “cella politica”. Sul letto non c’erano né materassi né cuscini, il water era dietro un tramezzo. C’erano due videocamere in un angolo. Un tavolo stretto e una panca su cui a stento ci stavano tre persone. Il lavandino. Punto. La cella era pienissima, ma poi si è scoperto che non era ancora il massimo: siamo arrivate al completo di notte. Di solito nella nostra cella cercavano di stipare almeno quindici detenute. Una volta ce ne hanno messe addirittura diciassette, dicevano. Ma già in quindici non c’era proprio posto, c’era chi stava male, anche se non è capitato che qualcuno svenisse. Quando all’improvviso siamo diventate dodici, sembrava che ci fosse chissà quanto spazio. In questo tipo di celle mettono sempre almeno due non “politici”, due “asociali”. Gente detenuta per ubriachezza o senza fissa dimora: hanno un pessimo odore, forse anche i pidocchi. Lo fanno apposta, ovvio. Tra l’altro anche per loro è una tortura stare con noi. Perché le altre celle, quelle dei “non politici”, hanno materassi, cuscini, coperte. E un regolamento molto più umano. Quando sono arrivata ne ho trovate due, di quelle persone. A un certo punto sono diventate cinque. Dico subito che il tentativo di usarle per metterci in difficoltà è fallito: erano solo donne normali con una vita sfortunata. Una ha detto di essere disabile: era un po’ indietro nello sviluppo e si comportava come una bambina. E l’hanno messa comunque in una cella di quel tipo. Eppure, siamo riuscite a trovare un linguaggio comune. Gli abbiamo insegnato a lavarsi le mani dopo avere usato il bagno e anche a togliersi i pidocchi. E questo ha fatto innervosire gli agenti, credo.
Quali altre differenze ci sono nelle celle per “politici” rispetto a quelle normali?
Ekaterina Jan’šina: È tutto diverso. In primo luogo, la luce rimane accesa 24 ore su 24. In secondo, in cella non puoi avere niente, solo gli abiti che indossi. Se anche ti riuscisse di infilare nella borsa dentifricio, carta igienica e asciugamano, quando ti arrestano se sei un “politico” non puoi tenerti niente. Nemmeno la biancheria di ricambio: se non ce l’hai addosso, è vietato prenderla. Vuoi sapere come dormivamo? Quando la cella è al completo – quattordici-quindici persone – le quattro più coraggiose e intraprendenti dormono in due nel letto a castello. Fa male e ti riempi di lividi, però, perché dormi sulle traverse di ferro e non hai niente da stenderci sopra. La testa la appoggi sulle scarpe o su un maglione. Verso la fine anch’io ormai dormivo tranquilla a quel modo, ero riuscita ad abituarmi. Era come se i lividi si fossero trasformati in calli e riuscivo a dormire senza problemi. Altrimenti si dorme per terra, schiena contro schiena, e allora per girarti devi fare attenzione a non urtare nessuno con i piedi. Sul pavimento ci sono le cimici, che ti camminano addosso e quindi ti svegliano. Alcune delle altre erano allergiche e si sono riempite di macchie rosse. I primi giorni è terribile, ma poi ti abitui anche alle cimici. Manca l’aria, manca proprio. La cella è pensata per due persone, ma noi eravamo in quindici. Se poi la “mangiatoia” sulla porta era chiusa, e intendo l’apertura da cui ti passano il cibo, la situazione si faceva insostenibile. E allora parlavamo di meno per risparmiare l’aria. Di solito riuscivamo a convincere gli agenti a lasciare socchiusa la mangiatoia, e a quel punto la situazione migliorava almeno un po’. Tra l’altro, un sistema di ventilazione c’era e lo si poteva benissimo utilizzare: magari avrebbe scongiurato qualche malattia, dato che alla fine ci siamo ammalate tutte. Io non sono ancora guarita. Oggi ho parlato al telefono con una compagna di cella e mi ha detto che ha il Covid. Penso che l’abbiamo preso tutte, farò il tampone. Ogni mattina a noi “politici” toccava la perquisizione. Dopo la colazione – se non durante – si apriva la porta e fuori c’era un mucchio di agenti, alcuni con il passamontagna. E allora uscivi e ti mettevi in fila nel corridoio: mani al muro, sulla riga rossa. Un’agente ti perquisiva, una guardia diceva il tuo cognome, e tu rispondevi con nome e patronimico. Intanto gli altri agenti ribaltavano la cella da cima a fondo, scrollavano e sbattevano qualunque cosa, toglievano i calzini dal termosifone. Entravano con i manganelli, prendevano a manganellate tutto, rivoltavano tutto. Quando finivano, si tornava dentro e si metteva tutto in ordine. E si lavavano le suole delle scarpe, dato che in cella si stava scalze. Finite le perquisizioni di tutte le celle dei “politici” spegnevano la ventilazione. Anche gli agenti di Akres’cina si sono ammalati, li sentivamo tossire. Del resto, come si fa a tenere confinato in una cella un simile focolaio di virus? Comunque, uno dei giorni più fortunati di un soggiorno ad Akres’cina è di sicuro quello in cui riesci a convincere gli agenti ad accendere la ventilazione. Nessun contatto con l’esterno: questo è chiaro. L’unica cosa che si può fare è parlare. O sonnecchiare mentre le altre parlano. Da seduta, però, perché durante il giorno i “politici” non possono stare sdraiati. I “non politici” sì, anche se sono nella stessa cella: loro dormono, tranquilli. Gli agenti guardano dentro ogni quindici minuti, e se vedono un “politico” sdraiato, lo fanno alzare e minacciano di farci stare tutti in piedi nel corridoio.
Potevate fare il bucato?
Ekaterina Jan’šina: Ti tieni addosso quello che hai per due settimane. È ovvio che è terribile. Avevamo un lavandino. Riuscivamo a elemosinare sia il sapone per i panni sia il sapone normale, ma bisognava insistere per diversi giorni. I vestiti veri, però, come fai a lavarli? Se più di una persona lava e stende i panni ad asciugare, la cella diventa una sauna. E già fa caldo e manca l’aria normalmente. Perciò tentavamo di approfittare dei momenti in cui la ventilazione era accesa o qualcuno usciva, e lavavamo a turno. Ma era impensabile farlo ogni giorno. Dunque, cercavamo di limitarci alla biancheria intima e ai calzini…
Raccontaci delle tue compagne di cella.
Ekaterina Jan’šina: Per coincidenza, lo stesso mio giorno sono arrivate alcune donne imputate per lo stesso reato. Lascia che ti spieghi come “confezionano” i reati. Si prende una normalissima chat di quartiere: “Mi consigliate un’estetista per la manicure?”, “Mi avanzano degli omogeneizzati, servono a qualcuno?” e cose del genere. Col tempo la chat si svuota, molti l’hanno già abbandonata da tempo, ma nel 2020 molto probabilmente anche lì si era parlato delle proteste. Quindi si stana un vecchio messaggio “politico” e cominciano le perquisizioni. Sequestrano subito i cellulari, questo è fondamentale. Nelle chat trovano i simboli con i colori “bianco-rosso-bianco” della Belarus’ e l’iscrizione a un canale giudicato estremista: ce ne sono tanti e la lista viene aggiornata quotidianamente. E parte il verbale. Se trovano un messaggio a un amico con una condivisione da quel canale, al verbale si aggiunge una voce: diffusione di materiale estremista. Se invece non trovano niente, il verbale è per disobbedienza civile. Con tanto di condanna immediata e di giorni di reclusione. Non puoi cavartela con niente, se ti hanno messo gli occhi addosso. Nella mia cella c’erano alcune donne della stessa chat. Già a Mosca avevo saputo che una di loro aveva un procedimento penale a carico per una fotografia delle proteste: lei era sul marciapiede, figuratevi. Sta aspettando che la mandino in prigione. Ed è una pensionata innocua di 69 anni. Un altro esempio eclatante: una ragazza camminava per strada e la polizia l’ha avvicinata con un pretesto banale. Le hanno preso il telefono, si sono fatti dire la password, sono andati su Telegram per vedere cosa seguiva e hanno trovato un canale “estremista”. Finito: verbale per disobbedienza civile. Ecco, queste sono le persone con cui ho diviso la cella.
Il 20 gennaio sono venuta a trovarti. E ti ho mandato una fotografia di Akres’cina scattata da lontano. “È molto facile che ti mettano dentro, per questo” mi hai detto subito.
Ekaterina Jan’šina: Sì, è proprio così.
Ti hanno mai convocata per interrogarti?
Ekaterina Jan’šina: Sì, una volta. Ad Akres’cina è consuetudine che per i “politici” vengano appositamente gli ufficiali della polizia investigativa. Sconta pure la tua condanna “civile”, ma non credere che sia finita qui. Perché il telefono rimane a loro, password compresa. E finché sei in carcere, gli agenti continuano a passarlo al setaccio. L’esito del colloquio con l’ufficiale dell’investigativa dipende da quello che ci trovano o da quello che vogliono comunque cucirti addosso. Con alcuni l’ufficiale inizia dal questionario politico: “E quindi non te la passi bene? Ti trovi male nel nostro paese? Guadagni poco? E, ascolta, i tuoi conoscenti che se ne sono andati, lo amano il loro paese? Non fanno che smerdarlo, là dove sono”. Le solite domande standard di taglio politico, alle quali non bisognerebbe nemmeno rispondere: basta ascoltare, rispondere con un cenno. Nel mio caso è andata così: uno o due giorni dopo l’arresto arriva l’ufficiale. Mi portano in un ufficio, una stanzetta con una grata che delimita un angolo con una sedia. Tu ci entri, e loro chiudono la gabbia. Di fronte c’è il tavolo dell’ufficiale, e inizia il colloquio. Nel mio caso quel tale voleva capire perché ero venuta in Belarus’: “Chi ti comanda? Che ordini avevi?”. Insomma, che scopi avevo, cosa intendevo fare. Una domanda mi ha fatto ridere: “Ma tutta ‘sta preoccupazione per i bielorussi?”. In quel momento ovviamente non avevo contatti con l’esterno. Non sapevo che tutti avevano già scritto di me. E dalle sue domande non capivo se lui sapeva chi ero. Piuttosto, avevo la sensazione che cercasse di accertarlo. “Non è che lavori per Dožd’? [Tv Rain, N.d.R.]” continuava a chiedermi.Non sapevo se Oleg Petrovič [Orlov] era ripartito, perciò non volevo dire di essere una collaboratrice di Memorial. Non volevo coinvolgerlo. Perciò l’ho buttata sul ridere: “Ho fatto un viaggetto. Da noi i negozi sono tutti chiusi, mentre da voi funzionano. Ho pensato: mi compro dei vestiti e mi faccio anche un giro in tribunale”. Non sapevo che, in effetti, sapevano già chi fossi. “Perché mi menti?” mi ha detto l’ufficiale. “Non mentire! Se menti, cambia tutto”. Mi ha detto che quindici giorni erano ancora pochi e che potevano diventare altri quindici e altri quindici ancora.
Ci sono state pressioni fisiche?
Ekaterina Jan’šina: No, nessuna.
Nemmeno nei confronti delle tue compagne di cella?
Ekaterina Jan’šina: Dai racconti, sì, è capitato ai ragazzi più giovani. Quando al mattino irrompono nella tua cella degli uomini con il volto coperto e – alcuni – col mitra in mano, di solito non sei pronto a reagire. Ma se un ragazzo lo faceva, non gradivano e lo picchiavano. Quando ho detto che mi ero rifiutata di dare la password del telefono, le mie compagne di cella mi hanno raccontato la storia di una ragazza che se l’era dimenticata. L’hanno torturata con il taser e l’hanno mandata in cortile per la passeggiata, al gelo, senza giaccone. Mentre me lo dicevano, pensavo a quante botte avrei sopportato io prima di cedere, dar loro la password e tradire gli amici in Russia che nemmeno sarei riuscita ad avvertire… Nel colloquio l’ufficiale ha menzionato le password. Ha detto che avevo ancora tempo per riflettere: dunque sarebbe tornato… Poi ha letto il questionario politico e alla fine ha tirato fuori il 2020 [anno in cui sono cominciate le proteste contro il governo bielorusso e il presidente Aljaksandr Lukašėnka, N.d.R.]. Ha detto: “Allora anche da voi in Russia ci sono persone che sono contro il proprio paese. Pure tu, mi sembra di capire, sei di idee liberali”. Ho risposto che erano affari miei, di quali idee fossi. Francamente, è stato un colloquio inutile. Io non ho saputo niente di nuovo da lui e lui non ha saputo niente di nuovo da me. Per concludere ha detto: “Forse pensate che ci siamo dimenticati di quello che è successo nel 2020. Nossignora, manco per niente”. A quel punto ha chiuso il quadernetto con un gesto molto teatrale, si è alzato e se ne è andato.
Natalija, lei invece può dirci perché in quei quindici giorni non c’è stato modo di fare arrivare un avvocato ad Akres’cina? E com’è andato il ricorso?
Natalija Sekretarëva: Non abbiamo mai sperato che il ricorso in appello potesse portare a uno sconto di pena. Anche in Russia succede raramente. L’abbiamo un po’ inteso come uno strumento: serviva più che altro per rivolgerci in seconda istanza alle istituzioni internazionali. Inoltre, volevamo sfruttare qualunque possibilità per arrivare a Katja. Abbiamo ragionato così: se l’avvocato presenta il ricorso, ha un motivo non solo per portarle un pacco, ma anche per parlarle, per concordare la posizione relativa al ricorso. L’abbiamo saputo successivamente che al ricorso l’imputato non presenzia. Nemmeno su Skype. Inoltre, per noi era un momento difficile in fatto di attenzione pubblica. In Russia sappiamo che la visibilità può salvare una persona. La comunità degli attivisti per i diritti umani è concorde nel dire che l’attenzione dell’opinione pubblica è un bene, che è giusta, può salvare vite umane e prevenire il rischio di maltrattamenti. Ma in Belarus’?… I bielorussi ti dicono sempre: “Non fiatate. La visibilità peggiora le cose e basta”. E questa è una delle differenze tra i due regimi. A te sembra che la visibilità sia utile. Ma gli altri ti dicono che il clamore peggiora solo le cose.
Ekaterina Jan’šina: Le mie compagne di cella mi dicevano sempre “Per carità, se fai ricorso è solo peggio”. A proposito, l’insistenza degli avvocati per vedermi qualche conseguenza forse l’ha avuta. Quando sono uscita e ho confrontato le date, ho capito che a un giorno o due di distanza da quel tentativo mi avevano portato in parlatorio. Non per un colloquio. Ci ho trovato un funzionario dell’immigrazione. “Ti espellono” mi fa. “Ce li hai i soldi per il biglietto? Altrimenti devi aspettare qui finché qualcuno non te lo compra”. Ho detto che li avevo. “Bene, è per il 20”. Perché è importante? Perché in Belarus’ di solito fino all’ultimo giorno non sai mai se uscirai al termine dei quindici che ti hanno dato o se te ne prenderai altri. È un altro modo per fare pressione su di te. Nel mio caso avevo saputo con qualche giorno di anticipo che avevano intenzione di espellermi il 20, cioè che non avrei dovuto affrontare nuovi “giorni” o un procedimento penale. Sono solo supposizioni. Ma dopo avere visto tanta insistenza devono aver pensato: “Ma vattene subito, cretina”.
Katja, tu cosa ne pensi dell’attenzione pubblica? Il fatto che della tua storia si sia scritto in Russia ti ha aiutato o ti ha ostacolato?
Ekaterina Jan’šina: Tanta attenzione alla mia storia mi ha messo a disagio, visto che in fondo non mi era successo niente di grave. D’altra parte, è anche possibile che non mi sia successo niente di grave proprio per questo.
Natalija Sekretarëva: Oleg Petrovič Orlov, invece, ci ha subito scritto in caps lock: “PERCHÉ NON SCRIVETE? DOVE SONO I POST? PERCHÉ NON C’È NIENTE SU KATJA?”.
Ekaterina Jan’šina: Be’, tutti cerchiamo di aiutarci a vicenda… Ma non farei un caso generale della mia esperienza specifica. Non mi ero mai trovata nelle situazioni in cui si trovano i bielorussi. Perciò limiterei la questione “visibilità” a me in prima persona. E in prima persona rispondo per me stessa che l’attenzione pubblica con ogni probabilità mi è stata d’aiuto. Ma a cosa potrebbe portare la stessa attenzione per un cittadino bielorusso davvero non lo so.
Il 20 gennaio dovevi uscire alle 16.45. Siamo venuti ad aspettarti, ma non sei uscita. Raccontaci cos’è successo.
Ekaterina Jan’šina: In generale ad Akres’cina non vorresti mai essere rilasciato prima del tempo. Se vengono a prenderti prima del dovuto è un brutto segno. Significa che ti arresteranno di nuovo. Da me si sono presentati verso l’una. E ho pensato: “Oops, sta’ a vedere che non esco…”. Di sotto ho trovato ad aspettarmi il funzionario dell’immigrazione. “Andiamo all’aeroporto” mi fa. Ho chiesto dei bagagli con cui ero arrivata, che erano rimasti in albergo. Non ho mai saputo che fine abbiano fatto. E mi interessava sapere anche dei miei telefoni. Mi ha risposto che erano alla scientifica e che, se avessi deciso di aspettare i risultati, sarei dovuto restare ad Akres’cina. Ovviamente ho deciso che i telefoni non erano così importanti. Anelli, orecchini, contanti e altri oggetti che avevo con me in tribunale me li hanno restituiti, ma detraendo l’importo necessario a coprire il cibo che mi avevano gentilmente offerto in quei quindici giorni. Perché in Belarus’ devi pagare per le meravigliose condizioni in cui ti permettono di “prenderti una vacanza”. Hanno preso un foglio A4, ci hanno fatto una specie di busta, ci hanno scritto a mano la sottrazione – quanti soldi avevo lasciato, quanto dovevo pagare e il risultato – e ci hanno messo dentro il resto fino all’ultimo spicciolo. Per riavere le tue cose devi avere pagato il vitto: a quel punto ritiri l’ordinanza del tribunale, vai alla polizia e ti ridanno tutto. Altrimenti è impossibile. C’era un agente, mi ricordo il cognome: Tišečkin. Bussava in continuazione alla porta: “Signore, ricordiamoci di pagare!”. È che quei soldi per loro sono importanti. Mi hanno espulsa insieme ad altri due cittadini russi. A detta della scorta, gli altri avrebbero dovuto aspettare ancora un po’ anche se i parenti erano pronti a pagare il volo. Ma siccome io andavo cacciata via d’urgenza, avevano approfittato per fare un carico unico. L’espulsione si è svolta in modo molto semplice. Ai ragazzi hanno messo le manette, a me no: non ne avevano abbastanza, hanno detto. Ci hanno fatto salire su una macchina normale, si sono fermati per prendere le nostre cose e siamo andati all’aeroporto, dove hanno pagato il biglietto con la mia carta. Tutto molto tranquillo. Ci hanno accompagnato all’imbarco e ci hanno salutato.
A noi, invece, al citofono, gli agenti di Akres’cina hanno detto di aspettarti. Solo dopo hanno ammesso che eri già in libertà. È stato molto difficile accertare che ti avevano espulsa. Per un po’ non ci abbiamo creduto…
Natalija Sekretarëva: Purtroppo in Belarus’ è una pratica normale allungare il fermo dopo i primi quindici giorni, per tutti i giorni che vogliono e per tutte le volte che vogliono. Per un po’ abbiamo pensato che fosse successa la stessa cosa anche a Katja. Le bugie sono alla base di tutto. Lo scopo è confonderti e disorientarti. Aspetta pure, ti dicono, sta per uscire. E dopo un po’: “Ma come, non l’avete vista? Possibile? Vi è passata accanto ed è già in volo per la Russia”. Tu sai che può trattarsi di una menzogna e non ci credi finché non vedi chi devi vedere. È un ottimo sistema per confonderti del tutto, e sono sicura che lo fanno apposta. Così quando i dipendenti del consolato o della struttura detentiva ti dicono che il tale è su questo o quel volo, tu non ci credi più. Perché la verità non esiste.
Katja, una domanda per concludere. Non hai pensato che avresti potuto sbloccare il telefono e uscire da quella situazione con il minor danno possibile….
Ekaterina Jan’šina: Quello che c’è nel mio telefono non riguarda solo me, coinvolge anche altre persone. E comunque non potevo comportarmi diversamente: di questo mi sono resa conto subito. Mi sono detta: “Di mia volontà non darò nessuna password; che non si azzardino a intimidirmi e facciano pure quello che vogliono”. Posso capire che in questo modo ho fatto preoccupare un po’ di persone. Ma è stata una mia scelta, e non me ne pento.
Natalija Sekretarëva: Il paradigma in cui viviamo vuole che se una persona sottolinea con calma i propri diritti fondamentali la rimproverano di andarsela a cercare. Katja si è comportata in modo estremamente corretto, non ha fatto niente che potesse suscitare malcontento. Ha detto con calma: “Non sono tenuta a farlo”. E così era.
Hai ragione. Anch’io sono cascata nel cliché del “se l’è cercata”, con la domanda precedente…
Natalija Sekretarëva: Ma lo abbiamo pensato anche noi! Se Katja avesse sbloccato il telefono, se avesse risposto, se avesse fatto tutto quello che volevano loro, probabilmente se la sarebbe cavata con l’espulsione immediata. Lo pensiamo un po’ tutti. E spaventa.
Ekaterina Jan’šina: Quel sistema di cose distrugge davvero le persone. Ti senti solo, non puoi far sapere niente all’esterno, i tuoi parenti non sanno cosa ti succede… A me è stato utile per capire quanto – colpevolmente – poco si parli di ciò che succede in Belarus’. Ho promesso alle mie compagne di cella che avrei cercato di raccontare il più possibile quello che ho visto. Anche questa intervista è un modo per mantenere la promessa che ho fatto alle persone che ho avuto l’onore di conoscere. Voglio che se ne parli e voglio che non si dimentichi che in questo stesso momento qualcuno è rinchiuso in una cella sovraffollata. Che fra quindici giorni scoprirà che gliene hanno aggiunti altri quindici e che avrà un procedimento penale a suo carico. Senza un avvocato che insista per vederlo e senza eco sui mass media internazionali. Può trattarsi di un architetto o di un barista: può essere chiunque. E sono soli, a tu per tu con un sistema spaventoso.