La propaganda russa e le paure del maschio. Colloquio con Stanislav Chockij

Lo psicologo spiega il legame tra l’invasione russa e la cultura "bullistica" dominante.


06 aprile 2023 
Aggiornato alle 13:41


Lo psicologo Stanislav Chockij spiega il legame tra l’invasione russa e la cultura “bullistica” in questo articolo pubblicato per Vërstka (media indipendente russo sorto dopo l’aggressione russa dell’Ucraina, con un canale TelegramYoutube, e profili InstagramFacebook e Twitter) la cui redazione ringraziamo per aver concesso l’autorizzazione a pubblicare la traduzione italiana di Luisa Doplicher. 

* * *

Il presidente russo e i membri del suo governo si permettono spesso commenti offensivi e volgari nei riguardi degli oppositori politici o dei semplici cittadini, dal famoso “li faremo marcire nei cessi” [espressione di Putin durante la Seconda guerra cecena, N.d.R.] alle battute che citano stupri. Spesso questo linguaggio viene chiamato “maschile” o “bullistico”. Stanislav Chockij, psicologo libero professionista specializzato nella cura di comportamenti violenti o distruttivo-aggressivi, descrive l’origine di questa cultura «bullistica» e le paure che le stanno dietro.


Chi pecora si fa…


Spesso i maschi tendono a mostrarsi aggressivi e ad attaccare per primi anche quando in realtà non hanno nessuna voglia di passare alle vie di fatto o di scatenare conflitti. Ho dedicato l’ultimo decennio a riflettere su questi meccanismi. Mi ricordo l’episodio seguente. Avevo circa tredici anni quando fui avvicinato da tre adolescenti un po’ più grandi di me. Mi circondarono e (gentilmente, devo dire) mi chiesero qualche soldo perché non ne avevano abbastanza per comprarsi la birra. I soldi ce li avevo, la voglia di darglieli no; mi sembrava un’umiliazione. Ma rifiutare apertamente era pericoloso. Così menai il can per l’aia per una quarantina di minuti. Alla fine, diedi loro qualcosa, ma ero contento di me: non l’avevo fatto per paura, ma perché tutti quei discorsi mi avevano sfinito. Insomma, la mia dignità era salva. A casa raccontai tutto a mio padre, secondo cui, però, avevo sbagliato: “Avresti dovuto dire che avevi i soldi, ma te li saresti tenuti. Questa sì che è dignità”. Ricordo benissimo che in quel momento, davanti a mio padre, provai molta più vergogna e paura che di fronte ai bulli. La sua reazione mi fece capire che la mia scelta non soddisfaceva i criteri della virilità “autentica”. E temetti il suo disprezzo. Imparai la lezione: se hai paura di dire un «no» schietto e deciso, se non ti difendi con le unghie e coi denti, non sei un vero uomo. In seguito, mi comportai come mi aveva insegnato mio padre: mi feci valere senza sotterfugi. Tempo dopo mi accorsi che diversi maschi sembravano conoscere qualcosa di me che li aiutava a prevedere le mie reazioni e a pilotarle. Forse la paura di perdere la dignità, e forse perché la provavano anche loro. “Chi pecora si fa…” è una convinzione che la famiglia e la società instillano in molti di noi sin dall’infanzia. La tendenza alle prove di forza e ad attaccare di fronte a ogni minaccia, sia pur minima, ne è inevitabilmente figlia. Chi si comporta in modo aggressivo e non è capace di risolvere i problemi pacificamente reca danno a sé stesso e agli altri. Molti maschi, però, non sono disposti a mettere in dubbio il proprio comportamento: a fermarli è la paura dell’umiliazione. A mio parere le autorità russe lo sanno e se ne approfittano con abilità. Non per niente da vari anni i politici e la propaganda si divertono a ripetere che gli ucraini mancano di rispetto alla Russia. Nella variante tradizionale della cultura “machista”, in una situazione del genere l’unico modo di conservare la propria dignità è aggredire. Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, mi capita molto spesso di notare sentimenti contrastanti negli uomini. Se sono pochi quelli che vogliono davvero far soffrire il prossimo, c’è però spesso l’aspirazione a dominare, controllare e mostrarsi duri, se non crudeli; una crudeltà che è a volte diretta anche contro il prossimo. E senza la quale stentano a conservare la sicurezza di sé e la dignità.


Che cosa c’entra la cultura “bullistica”?


Comunque la si veda, aggredire il prossimo non è molto piacevole. Se tuttavia ci si attiene alla tesi del «chi pecora si fa…» l’aggressione è una scelta obbligata e una strategia preventiva. Permette di attaccare conservando una buona opinione di sé. Storicamente è successo che in Russia per alcune generazioni di maschi la socializzazione sia avvenuta soprattutto per tramite di una cultura “bullistica” basata sulla ragione del più forte, che ha il diritto di schiacciare il prossimo. Questa cultura è diventata un comodo fondamento ideologico per il «chi pecora si fa…», e gli fornisce una specie di codice d’onore. Ecco alcuni postulati fondamentali della cultura “bullistica”: 



1. Il “codice d’onore”, cioè quello morale, si applica soltanto ai pari, cioè a chi rispetta i tuoi stessi valori. Gli “altri”, i diversi, sono nemici fino a prova contraria.


2. Verso gli “altri” vale la regola “abbiamo sempre ragione noi”. I punti di vista altrui possono essere bellamente ignorati.


3. La violenza è sempre giustificata se l’”altro” ti provoca. È da considerarsi provocazione il semplice fatto di essere altro da te.


4. Prima di aggredire, spiega e sottolinea la tua superiorità morale, il tuo diritto ad agire così.


5. Poniti da subito al di sopra dell’altro. Tu fai le domande, lui risponde. Un interlocutore spaventato che non parla il gergo abituale del tuo gruppo è una possibile vittima.


Volente o nolente, non c’è ragazzino nato tra gli anni Trenta e gli anni Novanta che non abbia dovuto fare i conti con la cultura “bullistica”. Negli anni di formazione è difficile tenersene alla larga: è il fascino della semplicità e la percezione della forza. Apparsa com’è in luoghi e ambienti specifici, per vari motivi a poco a poco si è evoluta e mescolata all’intera cultura maschile, “importandovi” alcuni suoi valori. Essenziale per la cultura “bullistica” è l’immagine dell’”altro”, che è sempre un nemico fino a prova contraria. “Stop! Di che quartiere sei?!” è una domanda che molti ragazzini conoscono.


Scuola di vita


In realtà, spesso, le basi della cultura “bullistica” vengono gettate già durante l’infanzia. Alcuni metodi educativi inculcano nei bambini un certo modello di comportamento: o chini la testa, o comandi. Un’ottica in cui il concetto di libertà è assente o molto deformato: “Sei libero, ma finché sta bene a me”. Ai bambini piccoli si dice: “Se fai i capricci, ti lascio qui”; “Non puoi alzarti da tavola finché non hai mangiato tutto”; “Perché no? Perché lo dico io”. Agli adolescenti i genitori intimano: “Non hai voglia? Trovala!”; “Se non ti entra in testa con le parole, te lo faccio entrare a calci in culo!”. Oppure li umiliano: “Io, alla tua età…”; “Guarda Petja, guarda Vasja: loro sì che…”. Di conseguenza sin dall’infanzia si formano le seguenti convinzioni:
– se sarò diverso dagli altri, verrò punito o emarginato;
– bisogna fare le scelte giuste (cioè soddisfare i desideri dei più forti);
– i più grandi hanno il diritto di comandarmi.
Da qui il desiderio di appartenere al gruppo dei “forti” e di adeguarsi alle sue regole. È un modo per garantirsi l’incolumità. La cultura “bullistica” si basa su una prima esperienza di umiliazione e sul tentativo di superarla umiliando qualcun altro. Il succo è semplice: fino a prova contraria, non sei nessuno. L’ammirazione va meritata. E il modo per riuscirci lo stabiliamo noi. In genere, un ragazzo cresciuto in un ambiente come questo (o a questo simile) quando diventa adulto si sottrae alla sua influenza e cambia frequentazioni; la personalità si sviluppa, gli orizzonti si ampliano, si iniziano ad apprezzare valori individuali e non di gruppo. A volte, però, in determinate circostanze, i semi della cultura “bullistica” possono germogliare di nuovo e orientare il comportamento.


La cultura “bullistica” oggi


Secondo Dmitrij Gromov, storico e antropologo, i fattori che danno potere ai gruppi che adottano questa cultura sono i seguenti:
– La quantità di giovani: più sono gli adolescenti e i ragazzi nel quartiere, più forte sarà questa cultura;
– La comparsa nelle vicinanze di molti «altri», che siano stranieri o gente nuova;
– L’esistenza di un capo forte in grado di formare il gruppo;
– La possibilità di guadagnare qualcosa con mezzi illeciti.


Pensateci un attimo: è la Russia attuale. Oggi molti maschi adulti e intelligenti si adoperano per farsi una posizione. Per farlo, però, puntano spesso sui tradizionali valori “virili”, come la durezza e resistenza alla fatica. Di molta meno attenzione gode l’esercizio delle cosiddette “soft skill”, capacità come la riflessione e il pensiero critico. Di conseguenza i maschi sono tendenzialmente forti, assertivi e pronti allo scontro aperto, ma anche vulnerabili nella sfera relazionale e inclini a reazioni emotive tipiche degli adolescenti. Si può allora dire che, da un punto di vista psicologico, tra i maschi russi adulti ci sono molti ragazzini. Bisogna inoltre aggiungere che la Russia è da sempre un paese multietnico. Ma le politiche sociali e migratorie vigenti hanno fatto sì che nella società si osservi un alto livello di xenofobia. Il risultato è che gli “altri” non mancano. Nel paese, infine, abbondano i metodi illeciti per guadagnare qualcosa e c’è una persona con tutte le caratteristiche del leader forte. Ed ecco all’appello tutti i fattori utili alla cultura “bullistica”. Ciò significa che le condizioni sono assolutamente favorevoli a far leva sulla paura maschile dell’umiliazione e a sfruttare il codice d’onore “bullistico”.

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