Tanja Hacura-Javors’ka: “Non c’è sicurezza nel mondo senza una completa sconfitta della Russia”

Intervista all'attivista bielorussa, oppositrice del regime di Lukašėnka che, dopo aver lasciato Minsk si è rifugiata a Kyïv, dove svolge attività sociali e umanitarie a sostegno del popolo ucraino. "All'inizio c'era un po' di diffidenza, ma nessuno mi ha mai offeso perché parlo russo".

(di Francesca Lazzarin, assegnista di ricerca in letteratura russa presso l’Università di Udine, e Massimo Tria, docente di letteratura russa presso l’Università di Cagliari e membro di Memorial Italia; nella foto: le proteste del 2020, immagine di Homoatrox, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons, con modifiche)


23 luglio 2023 
alle 11:30


Pubblichiamo qui un’intervista alla dissidente bielorussa Tanja Hacura-Javors’ka, fatta in occasione di un tour di incontri che fra maggio e giugno 2023 ha visto impegnata l’attivista in diverse città italiane. Attivista anti-regime e organizzatrice di eventi culturali, nel 2022 la bielorussa Tanja Hacura-Javors’ka ha lasciato Minsk e si è rifugiata a Kyïv, dove ora è impegnata in varie attività sociali e umanitarie, con le quali sostiene e aiuta il popolo ucraino contro l’aggressione russa, senza ovviamente dimenticare la sua amata Belarus’: “Mi trovo qui ormai da più di un anno: è capitato che qualcuno avesse un atteggiamento circospetto nei miei confronti, ma in generale non ho mai percepito alcuna aggressività […] E anche in tutti quegli spauracchi sulla discriminazione della lingua russa non c’è niente di vero: io quasi non parlo ucraino, ma nessuno mi ha mai offesa per questo”. 


Dicci qualcosa su di te, sulla tua formazione professionale come giornalista e donna di cultura. Quando è iniziata la tua attività di protesta contro il regime bielorusso?


Sono cresciuta al momento del crollo dell’Impero sovietico e della formazione di una Belarus’ indipendente. Dopodiché, con grande rapidità, in Belarus’ ha iniziato ad imporsi la dittatura. La mia infanzia è stata accompagnata dalla carenza dei prodotti di base, dalla disoccupazione e da un alto tasso di criminalità; la mia adolescenza, invece, dagli scontri di piazza tra la polizia e i sostenitori dell’indipendenza del paese e dei valori nazionali. Ho iniziato ad andare alle mie prime manifestazioni di massa quando avevo quindici, sedici anni. In seguito, questo movimento ha perso la sua dimensione di massa, perché i leader dell’opposizione sono stati uccisi e, inoltre, molte figure influenti sono state costrette ad abbandonare il paese. All’epoca distribuivamo volantini e annunci sulle manifestazioni. Negli anni di scuola ho vissuto anche il mio primo interrogatorio quando hanno arrestato il mio amico e sodale Aleksej Šidlovski. Più avanti lo hanno condannato ad alcuni anni di prigione ed è diventato il primo prigioniero politico nella storia della dittatura di Lukašėnka. È successo nel 1996. Ho sempre cercato dei contesti in cui potevo essere il più possibile utile alla società, e mi sono iscritta alla Facoltà di giornalismo per scrivere la verità e portare avanti inchieste importanti. Ma quasi subito dopo la laurea sono entrata in un’organizzazione per i diritti umani, il “Comitato Helsinki della Belarus’” (CHB), e le mie competenze in ambito giornalistico si sono rivelate utili per scrivere report sulla violazione di tali diritti. Poco dopo ho cominciato ad occuparmi dell’organizzazione di svariate campagne di divulgazione, sempre nella sfera dei diritti umani. In generale, posso dire di aver iniziato la mia attività di protesta ancora negli anni Novanta, quando partecipavo a eventi di piazza contro il regime, e negli anni Duemila l’ho proseguita nel campo dei diritti umani, in modo più sistematico.


Raccontaci qualcosa in più sul CHB e su come, in seguito (nel 2013) è stata fondata l’associazione civile “Zvjano”, di cui poi sei diventata leader. Come ha tentato di ostacolarvi il regime?



Il CHB era una grossa organizzazione con una sua rappresentanza in diverse regioni bielorusse. Si può dire che lì mi sono davvero formata come attivista per i diritti umani e ho avuto modo di conoscere i meccanismi per difenderli. Abbiamo fatto spesso monitoraggio, scritto diversi report. Allo stesso tempo, organizzazioni così grandi hanno i loro svantaggi: l’autorità conquistata in passato è d’intralcio a uno sviluppo nel presente. I giovani aspirerebbero a forme di lavoro più moderne e creative, mentre le vecchie generazioni operano secondo piani già rodati. Così ho fondato la mia organizzazione, appunto “Zvjano” (“Anello della catena”), per fare quello che non riuscivo a fare nel Comitato. Per esempio, organizzare un festival di documentari sul tema dei diritti umani. Per quanto riguarda gli interventi del regime nel nostro lavoro, ci hanno ostacolati in diversi modi: perquisizioni, sfratti dagli uffici, chiusura degli spazi affittati proprio nel giorno in cui dovevano svolgersi i nostri eventi, congelamento del conto in banca dell’organizzazione, procedure penali nei confronti dei suoi vertici. Non hanno mai arrestato i vertici del Comitato, ma tra i nostri colleghi c’è chi ha subito procedure penali e ha dovuto scontare vere e proprie condanne in prigione. Per l’appunto il Nobel per la pace Ales’ Bjaljacki è in prigione ormai per la seconda volta, e i periodi in cui si viene incarcerati per attività legate ai diritti umani sono di durata non breve.


Sei la direttrice del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Minsk. Quando hai iniziato ad interessarti di cinema come strumento di sensibilizzazione e lotta sociale?


Ancora una volta, ho saputo che esisteva una simile forma di sensibilizzazione sui diritti umani lavorando al CHB. Un mio collega è andato a un festival simile a Varsavia e da lì ci ha portato dei materiali informativi. Mi è sembrato davvero interessante e gli ho fatto molte domande dettagliate in merito. L’anno successivo sono andata a mie spese a Varsavia per vedere come funzionava. Vivevo da amici e andavo al cinema, e quando sono partita mi hanno fatto portare a casa molti film in DVD. Allora non c’erano ancora chiavette USB o archivi cloud… Ho avuto una bella impressione, e in più sono venuta a sapere che c’era un festival simile in Ucraina, e mi è dispiaciuto che proprio in Belarus’ non ci fosse niente del genere. Ma nel Comitato non hanno appoggiato la mia iniziativa: non siamo riusciti a mettere insieme una squadra di sodali, quindi sono tornata ad affrontare la questione nella mia organizzazione, cioè all’interno di “Zvjano”. Le prime proiezioni le abbiamo allestite nel 2014.



Cosa ci puoi raccontare delle elezioni presidenziali in Belarus’? Dopo le prime, legittime, del 1994, si ritiene di solito che quelle successive siano state più o meno tutte falsificate dal regime. Tu hai votato? Quando hai iniziato a protestare in strada contro la palese falsificazione di quello che dovrebbe rappresentare un importante momento di pratica democratica?


Partecipo alle proteste da quand’ero adolescente, da prima di avere il diritto di voto. Ho sempre protestato non solo contro i brogli: ero contro la soppressione dei diritti e delle libertà, la chiusura dei giornali, la stipula di alleanze con la Russia. In generale, a parte i voti ‘rubati’, i vertici guidati da Lukašėnka hanno sempre irriso il diritto e i cittadini, e non soltanto durante le elezioni. Avevo raggiunto l’età per votare già alle elezioni del 2001, ma non sono andata al seggio, perché di per sé quelle elezioni non erano legittime. Il fatto è che Lukašėnka era stato eletto nel 1994, dopodiché ha cambiato la Costituzione sulla base di un referendum (anch’esso riconosciuto come non legittimo) e ha iniziato a conteggiare i suoi mandati presidenziali dal momento in cui sono entrate in vigore queste modifiche. Il che significa che dal ’94 al 2001 non ci sono state proprio elezioni presidenziali: lo hanno eletto per un mandato quinquennale, ma hanno organizzato le successive elezioni solo dopo sette anni. Come se non bastasse, in quei sette anni sono stati assassinati svariati leader dell’opposizione: le indagini in merito sono state interrotte, e i loro corpi finora non sono stati rinvenuti. È per questo che nel 2001 non sono andata al seggio. Poi ci sono state le uniche elezioni a cui ho votato, nel 2006. L’ho fatto perché in quel momento l’opposizione si era coalizzata presentando un unico candidato, e ho iniziato a sperare che il cambiamento fosse possibile. Non solo ho votato, ma ho anche partecipato a manifestazioni, vivendo nella tendopoli allestita nel centro della città. Nel giro di quattro giorni le tende sono state smantellate, il leader dell’opposizione ha rinunciato alla corsa presidenziale e io sono rimasta profondamente delusa non tanto dal regime, quanto dall’opposizione. Mi ha salvata dalla depressione solo il fatto che proprio in quel periodo sono entrata nel CHB e vi ho trovato un mio spazio.


Cosa ricordi, invece, delle elezioni del 2020, dopo le quali si è verificata l’ondata di proteste forse più forte della storia bielorussa recente?


Anche nel 2020 c’erano molte speranze, ed effettivamente si è trattato delle proteste più partecipate e durature del popolo bielorusso. Inoltre, una pagina importante di questa protesta è rappresentata dall’unità e dall’attivismo delle diaspore bielorusse in tutto il mondo. All’improvviso abbiamo smesso di avere paura all’interno del paese e di fare finta di niente all’estero. Ma ancora una volta, come attivista per i diritti umani, io mi preoccupavo innanzitutto delle persone. Il 10 agosto ero proprio nel luogo dove hanno sparato a un manifestante, e io stessa ho messo in salvo dei feriti con la mia macchina. Ho visto con i miei occhi quante erano le vittime e che traumi avevano riportato. Così, dall’11 agosto, io e altri volontari ci siamo impegnati negli ospedali. Portavamo ai ricoverati cibo e oggetti per l’igiene personale, gli fornivamo assistenza, e abbiamo anche cominciato a fargli domande sull’accaduto. Sulla base delle prime trentacinque interviste alle vittime abbiamo pubblicato il primo report sulla violazione dei diritti umani, che è stato diffuso tra le organizzazioni internazionali, le ambasciate, nonché presso la Commissione d’inchiesta e la Procura di Belarus’. Abbiamo chiesto che i crimini compiuti venissero indagati. In seguito la mia organizzazione, insieme ad altre, ha dato vita al Comitato per l’indagine sulle torture, che è attivo anche ora e ha avuto già modo di parlare con quasi duemila vittime. Tutto ciò costituirà, in futuro, la prova dei crimini commessi dal regime. Dunque, per quanto riguarda le proteste del 2020 – che, oltretutto, sono anch’esse finite presto –, mi ricordo del dolore che hanno portato, anche se per molti sono state delle manifestazioni molto belle.


Qual è la tua opinione sui tre più noti sfidanti di Lukašėnka alle elezioni del 2020 (Viktar Babaryka, Valeryj Tsapkala, Sjarhej Cichanoŭski)? E cosa pensi in generale dell’opposizione interna al paese?


È una domanda difficile. Nel complesso ho un’opinione neutrale nei confronti di tutti. Certo, è un dato di fatto che Babaryka e Cichanoŭski siano stati incarcerati illegalmente. Non nutro grande ammirazione nei loro confronti, perché sono sempre stati molto fedeli alla Russia e a Putin. Tsapkala ha sempre portato avanti una retorica filorussa. Babaryka, da parte sua, alla domanda su di chi fosse la Crimea, ha risposto: “della Grecia”. Cichanoŭski ha espresso allo stesso identico modo il suo rispetto nei confronti di Putin e ha visitato la Crimea occupata. Con questo non voglio gettare fango su nessuno, cerco solo di essere obiettiva: il fatto che una persona si trovi in prigione non significa che dobbiamo mettere a tacere questioni di cruciale importanza. Che si tratti di prigionieri politici che devono essere liberati, è un dato di fatto; che non siano leader che difendono gli interessi nazionali bielorussi, è anch’esso un dato di fatto. Questa è la mia opinione. E l’opposizione attuale, purtroppo, non esercita nessuna influenza sulla situazione interna al paese.


Nella tua attività il punto di non ritorno è coinciso con la mostra “La macchina respira, ma io no” della primavera 2020, che è stata immediatamente chiusa, quasi sicuramente perché l’idea alla sua base era molto distante dalla narrazione ufficiale del regime riguardo al Covid, narrazione piuttosto minimizzante, se non proprio negazionista. Da cosa dipende, a tuo parere, una simile durezza nei confronti di una mostra il cui principale obiettivo era semplicemente rendere omaggio al lavoro dei medici?


Bisogna capire che per il regime non si trattava solo di una mostra di opere d’arte, ma di un luogo e di un evento dove qualcuno si permetteva di pensare con la propria testa. Perché i vertici riscrivono la storia nei manuali scolastici, e in televisione e sui giornali mostrano quell’immagine del mondo che deve obbligatoriamente fissarsi nella testa di ciascuno. E non ci possono essere immagini alternative o riflessioni libere. In una dittatura non c’è spazio per la riflessione, la comunicazione, il dialogo. Viene deciso in alto cosa dobbiamo guardare e leggere, cosa bisogna sapere, cosa è necessario pensare di determinati fenomeni e avvenimenti. Certo, una mostra d’arte di per sé potrebbe anche corrispondere ai contenuti della propaganda, ma comunque nessuno rischierà: tutti gli spettacoli nel paese vengono passati al vaglio da una commissione prima di essere resi pubblici; vengono stampati solo i libri di scrittori “di fiducia”, e così via. E noi abbiamo annunciato che volevamo ringraziare i medici per il lavoro svolto durante il Covid, la cui esistenza veniva negata dal regime. È importante capire che, se a parte la mostra non avessimo fatto nient’altro, ce la avrebbero solo chiusa, ma difficilmente ci avrebbero arrestati. L’arresto e la persecuzione penale che sono seguiti erano legati non tanto alla mostra, ma al resto del nostro lavoro, in particolare alle indagini sui crimini compiuti durante le proteste del 2020.


Nel marzo 2022 sei stata costretta a lasciare il tuo paese e a trasferirti in Ucraina: un passo certamente estremo e molto doloroso. In che modo questa decisione è legata alle tue proteste contro l’invasione russa in Ucraina? Come ti hanno accolta a Kyїv, e in cosa consiste, ora, la tua attività in Ucraina?


Me ne sono andata da Minsk non perché ho protestato contro l’invasione e mi hanno arrestata, ma perché in quel momento la mia famiglia (mio marito, che è cittadino ucraino, e mio figlio) si trovava già in Ucraina: li avevano espulsi forzatamente dalla Belarus’, mentre a me, quando sono uscita di prigione, avevano impedito di lasciare il paese. Al momento dell’invasione dell’Ucraina dal territorio bielorusso era già un anno che vivevamo lontani. Ho deciso di attraversare il confine illegalmente, per essere vicina alla mia famiglia e aiutare gli ucraini. L’accoglienza non è stata delle migliori: non volevano farmi entrare nel paese perché ho il passaporto bielorusso, ma alla fine sono riuscita lo stesso a raggiungere il mio scopo. Non appena sono arrivata, mi sono subito messa al lavoro: abbiamo iniziato ad aiutare gli ospedali nella cura dei feriti. In particolare, raccogliamo fondi per l’acquisto di attrezzatura medica molto costosa per la terapia VAC [terapia topica negativa per il trattamento delle lesioni profonde, N.d.R.], che permette di evitare la setticemia e accelera il processo di cicatrizzazione. Inoltre, un mese fa abbiamo aperto un centro per la riabilitazione dei veterani e dei soldati ancora attivi che sono stati feriti. Ormai mi trovo qui a Kyїv da più di un anno: è capitato che qualcuno avesse un atteggiamento circospetto nei miei confronti, ma in generale non ho mai percepito alcuna aggressività. Se incontri delle persone e queste vedono che stai dalla loro parte, non avranno alcuna pretesa o risentimento. E anche in tutti quegli spauracchi sulla discriminazione della lingua russa non c’è niente di vero: io quasi non parlo ucraino, ma nessuno mi ha mai offesa per questo.


Cosa pensi dell’invasione russa in Ucraina? In Italia molti sembrano stranamente propensi a “comprendere le giuste ragioni di Putin”, ma spesso dimenticano le ragioni dei cittadini ucraini, che preferirebbero non venire bombardati ogni notte… Tu hai ora la possibilità di vedere tutto con i tuoi occhi e di sperimentare questa invasione direttamente… Cosa puoi dirci in merito?


Ritengo che quest’invasione sia un crimine mostruoso. Ma non va dimenticato che la guerra è iniziata nel 2014, e all’epoca non c’è stata una reazione adeguata da parte della comunità internazionale. Perciò questa nuova fase del conflitto è una conseguenza dell’impunità di Putin per la violazione della sovranità dell’Ucraina, avvenuta otto anni fa. Se la comunità internazionale permetterà anche questa volta a Putin di prendersi una parte del territorio, dei cittadini, delle risorse dell’Ucraina attraverso dei negoziati per così dire “di pace”, tra cinque-sette anni continuerà la sua offensiva verso Kyїv.



Penso che per la sicurezza dell’Europa e del mondo ci debba essere un solo esito: la completa sconfitta della Russia e la restituzione dei territori occupati.


Ultimamente sei stata protagonista di un’importante serie di incontri in Italia, all’interno dei quali hai potuto mostrare alcuni aspetti del tuo lavoro e dialogare con il pubblico in diverse città, da Napoli a Trento, fino alla Sardegna. Qual è stata a tuo parere la reazione del pubblico italiano a questi eventi? C’è stato qualcosa che ti ha sorpreso in particolare?


Mi ha sorpreso il fatto che moltissimi italiani ritengono che nella guerra contro l’Ucraina “non sia tutto così chiaro”: alcuni sostengono che il problema siano gli ucraini che si rifiutano di negoziare, altri che la colpa di questa guerra sia della NATO e degli americani. Non nego che i potenti della Terra influiscano significativamente sul corso degli eventi e, va da sé, che ogni paese cerchi un tornaconto innanzitutto per sé. Ma non è stata la NATO ad attaccare l’Ucraina, non sono gli americani a bombardare i civili ucraini e non è la Cina a portare forzatamente in Russia i cittadini ucraini. La colpa di questi crimini e di queste morti è solo di Putin e dei vertici russi. Quando la nostra posizione è sulla falsariga del “la NATO/gli americani dovevano fermare tutto questo, ma non l’hanno fatto”, affranchiamo Putin e il ministro della difesa russo Šojgu dalle loro responsabilità. La guerra è scoppiata non perché qualcuno non ha fatto qualcosa, ma perché Putin l’ha iniziata. Inoltre, è sorprendente il fatto che sia ancora vivo il mito sui nazisti ucraini, sul fatto che in Ucraina ti perseguitano se parli russo. La verità è che in Ucraina c’è una sola lingua di Stato, e i documenti amministrativi, l’istruzione, la televisione ecc. sono in ucraino, ma nessuno perseguita i cittadini se parlano russo. Lo posso confermare come russofona che quasi non parla l’ucraino. Un’altra opinione corrente che mi ha sorpreso è quella secondo cui bisognerebbe fermare la guerra a ogni costo ora, bloccare il conflitto nei confini entro cui si trovano, adesso, le truppe ucraine e russe. Come ho già detto, se lasciamo tutto così com’è, daremo a Putin la possibilità di riprendere forza e, tra cinque anni, tentare nuovamente di conquistare Kyїv. Ma il problema non è solo questo: che fare, infatti, con i cittadini ucraini che l’esercito russo ha conquistato insieme ai territori occupati? Forse l’Ucraina può permettersi di voltargli le spalle, di non lottare per la loro vita, le loro case e il loro futuro? Inoltre, se le cose andassero così, significherebbe che il mondo intero ha chiuso gli occhi davanti a palesi crimini di guerra. Migliaia di civili uccisi, fosse comuni, stupri di donne e bambini: tutto ciò resterebbe impunito, e sarebbe inammissibile. Dobbiamo aiutare l’Ucraina a riavere i suoi cittadini, i suoi territori e un po’ di giustizia.


Purtroppo in Italia la cultura, la letteratura e il cinema bielorussi sono poco noti: forse qualcuno conosce Svjatlana Aleksievič (Premio Nobel per la letteratura 2015), il poeta Dmitrij Strocev (Premio Ciampi Valigie Rosse 2021), mentre ultimamente è stato tradotto anche lo scrittore quarantenne Saša Filipenko. Quali scrittori e registi del tuo Paese ti senti di consigliare ad un pubblico italiano?


Per quanto riguarda film e libri contemporanei, purtroppo è difficile che qualcosa sia stato tradotto in italiano. I nostri rapporti culturali per ora sono poco sviluppati, a mio parere. Nondimeno, sono sicura che il pubblico italiano potrà trovare in traduzione le opere di Vasil’ Bykaŭ. Lui stesso ha combattuto durante la seconda guerra mondiale e ha scritto appunto sulla guerra, sui momenti in cui una persona si trova in una situazione liminare. I suoi libri sono incentrati sulla difficoltà della scelta, e non forniscono risposte alle domande che pongono, al contrario: mettono davanti al lettore questioni su cui egli, forse, non aveva mai riflettuto. A proposito, Bykaŭ è anche autore di un racconto intitolato Ballata alpina, ambientato in Italia [di Bykaŭ sono usciti in italiano Gli ultimi tre giorni (1974), Ballata alpina e altri racconti (1987), La cava (1989), Caccia all’uomo (1992), La disfatta (2000), N.d.R.]. Anche tra i film consiglierei di vedere un classico, uno dei film antibellici più potenti di sempre: Va’ e vedi di Ėlem Klimov, girato sulla base dei testi scritti dal bielorusso Ales’ Adamovič.

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