(di Marco Buttino, storico, membro fondatore di Memorial Italia, e Francesco Vietti, antropologo; foto di Vlad Gregurco su Unsplash)
07 ottobre 2023
alle 12:42
Guardare alla guerra in corso in Ucraina significa anche interessarsi dell’impatto del conflitto sui paesi vicini. Francesco Vietti, antropologo, è ricercatore all’Università di Torino e si occupa di Moldova dal 2005 con particolare attenzione alla migrazione femminile per il lavoro di cura in Italia. Nel corso degli anni si è interessato del ruolo politico delle associazioni della diaspora in relazione alla posizione geopolitica della Moldavia come area di tensione tra UE e Russia. Ora viene pubblicato dalla casa editrice People il suo libro “Mir. Dialoghi sulla pace al confine della guerra in Ucraina”, frutto di una ricerca etnografica condotta in Moldova tra agosto e settembre del 2022. Un libro che osserva la guerra dai suoi margini, basato sull’ascolto delle voci di chi si trova ad avere a che fare col conflitto, pur senza esservi direttamente coinvolto. Il libro offre un punto di osservazione particolare sulla guerra, sui profughi e sull’accoglienza. Lo storico Marco Buttino, tra i fondatori di Memorial Italia, ne discute con l’autore.

Marco Buttino: Francesco Vietti, da cosa nasce questo tuo nuovo libro?
Francesco Vietti: La Moldavia è un paese che ho avuto modo di conoscere nel corso degli anni soprattutto in relazione all’emigrazione, dunque mi sembrava importante andare a vedere cosa vi accadeva oggi di fronte al nutrito flusso di persone in arrivo dall’Ucraina, come veniva gestita l’accoglienza di chi fugge dalla guerra. La mia prima idea è stata di seguire le questioni migratorie e di vedere come si fossero articolati in questi mesi i diversi livelli di risposta all’arrivo dei profughi, da quello informale a quello istituzionale. Quello che sapevo prima della partenza era che il numero di ingressi dall’Ucraina era stato molto alto dopo l’invasione russa, ma anche che moltissimi ucraini erano solo transitati per la Moldavia, proseguendo poi verso altri paesi europei. Secondo i dati dell’UNHCR, dal 24 febbraio 2022 ad oggi 900mila persone si sono spostate dall’Ucraina alla Moldavia. Di queste, circa 580 mila sono successivamente rientrate in Ucraina e oltre 200mila hanno proseguito il loro viaggio in direzione della Romania e degli altri Paesi europei. Di conseguenza, i cittadini ucraini ora accolti in Moldavia sono circa 110mila. Se guardiamo alla composizione di questo gruppo in base all’età e al genere, vediamo che più o meno il 15 per cento è composto da uomini, il 35 per cento da donne e il restante 50 per cento da minori, egualmente distribuiti tra maschi e femmine. Circa 15mila sono anziani con 65 anni o più. Al gruppo dei migranti di nazionalità ucraina bisogna poi aggiungere anche un gruppo più piccolo di profughi arrivati dall’Ucraina ma di altra nazionalità, 8 mila persone, per lo più migranti extraeuropei che si trovavano nel Paese allo scoppio del conflitto. Nella mia ricerca, dunque, mi sono voluto concentrare su quel 10-15 per cento di ucraini che, una volta entrati in territorio moldavo, hanno deciso di restarci, o per qualche ragione sono stati costretti a farlo. Volevo capire chi è che era rimasto, come e dove viveva, e come questo stava cambiando la società moldava.
Hai voluto osservare gli effetti della guerra dai suoi confini, in Moldavia. Qui però hai fatto ulteriori scelte per definire i tuoi punti di osservazione. Ci spieghi?
Il mio primo intento è stato di parlare con le persone che oggi in Moldavia stanno lavorando con i migranti ucraini, con chi è in transito o si è stabilito nel paese, e anche di vedere concretamente i posti dove questo sta avvenendo in modo più significativo. I miei canali di accesso sono stati i volontari e gli operatori impegnati nei posti di confine dove viene organizzata la prima accoglienza e nei vari centri di aggregazione sparsi nel paese. Occorre tenere conto che la Moldavia ha un territorio fortemente disomogeneo con regioni autonome o separatiste, come la Gagauzia e la Transnistria, e dunque una questione importante è anche vedere se e come l’accoglienza dei profughi abbia funzionato in modo diverso nei vari territori.
Hai trovato ovunque una volontà di accoglienza, accompagnata da soggetti e da pratiche differenti?
Un primo aspetto che mi ha molto colpito è che, nonostante le differenze e le tensioni tra il governo di Chișinău, oggi molto vicino ai paesi Ue, e le aree separatiste maggiormente legate alla Russia a livello politico ed economico, nella realtà quotidiana dei territori e nelle relazioni con le comunità locali l’arrivo dei migranti ucraini è stato ovunque benefico. Nel senso che l’arrivo di queste persone è stata sia un’occasione per ottenere risorse economiche che altrimenti non sarebbero mai arrivate in quei territori, sia un’opportunità di cambiamento sociale e culturale molto forte in aree altrimenti marginali. Penso ad esempio al villaggio di Palanca, dove ho condotto una parte della mia ricerca: molte persone del posto oggi lavorano direttamente o indirettamente nell’accoglienza di chi attraversa il vicino posto di confine. Per le comunità locali che si sono impegnate in questo, ciò ha innescato un meccanismo di reperimento di risorse che finiscono per essere usate anche per fasce di popolazione moldava. Questo, secondo me, è molto interessante: finalmente sono arrivate le risorse necessarie ad attivare tutta una serie di servizi. Il secondo aspetto interessante rilevato è che si sta cercando di far sì che i servizi attivati per i migranti ucraini, ad esempio i centri comunitari della rete di Moldova4Peace, siano utili e aperti a tutti i cittadini moldavi. Oltre a creare occasioni di incontro e scambio, si risponde così anche alla cronica insufficienza di opportunità e servizi per la gente del posto.
Da una parte c’è la pressione di gente che scappa dalla guerra e, dall’altra, c’è una popolazione mediamente accogliente. Nel mezzo ci sono finanziamenti internazionali di sostegno ai profughi: hanno davvero permesso di rendere l’accoglienza possibile e di evitare tensioni tra chi arriva e la popolazione locale?
Il rapporto tra gli attori locali e i donatori internazionali non è sempre semplice e lineare. Diversi attivisti moldavi che si erano impegnati nella primissima fase di emergenza, ad esempio, mi hanno detto di essersi sentiti scavalcati e messi da parte quando sono arrivate sul campo le grandi agenzie internazionali come OIM e UNHCR. Una dinamica molto interessante che ho notato è stata, però, il ruolo di ponte, di cerniera che in qualche modo hanno svolto i giovani della diaspora che hanno studiato all’estero e che per la prima volta hanno avuto una forte motivazione e una concreta occasione di lavoro per tornare in Moldavia. In uno dei capitoli del libro mi soffermo ad esempio sull’esperienza di Tanja, una giovane italo-moldava (nata in Moldavia ed emigrata adolescente in Italia al seguito della famiglia) che dopo essersi laureata nel nostro paese oggi è tornata in Moldavia e svolge un importante ruolo di mediazione tra gli esperti delle organizzazioni internazionali e il personale reclutato a livello locale. Questo rientro dei giovani cresciuti all’estero è un altro degli effetti positivi dell’arrivo dei migranti ucraini e della conseguente ricerca di risorse e competenze per gestire la situazione. Nel medio-lungo periodo, questo fatto potrà portare dei benefici duraturi al paese. In qualche modo – finalmente! – i riflettori si sono accesi su un paese rimasto troppo a lungo ai confini d’Europa.
Facciamo ora un passo indietro. La guerra provoca un cambiamento non soltanto nelle condizioni materiali di vita, ma anche nelle relazioni tra le persone e nei modi di pensare. Il tuo libro è fatto seguendo storie individuali e soggetti collettivi ( i profughi in quanto gruppo), i russi come gli ucraini, ecc. Partiamo dalle persone, poi guardiamo se, e come, incontriamo entità collettive, come quelle “nazionali”.
La mia ricerca e il libro sono basati sull’ascolto e la restituzione di storie personali. Le storie raccolte in Moldavia ci dicono che le vite e le opinioni delle persone che fuggono dalla guerra sono complesse, così come le loro esperienze del conflitto. La violenza della guerra costringe queste persone a fare delle scelte che non vogliono e non possono fare, le lascia senza via di uscita. Mi sono ritrovato spesso ad ascoltare le vicende di famiglie miste ucraino-russe, quando non ucraino-moldave-russe, i cui membri sono stati costretti a fuggire e hanno perso le loro case o i loro beni, smarrendo nel contempo anche i propri punti di riferimento perché in rotta con una parte della parentela. È un trauma terribile, feroce, che in parte spiega perché una parte di queste persone ha scelto di fermarsi proprio in Moldova.
La Moldova è un paese al momento sicuro, e speriamo che lo resti, visto che il rischio di essere trascinata dentro il conflitto non è escluso. Ma è anche un luogo dove una parte di quella esperienza di molteplicità di appartenenze, di lingue, di relazioni che la guerra al di là del confine ha cancellato è ancora possibile e può essere tenuta viva.
In qualche modo, fermarsi in Moldova per queste persone significa anche rimanere vicino a casa, pensare il ritorno come possibile. Non dimentichiamo, inoltre, che una parte importante della popolazione moldava è di origini ucraine e che la Moldova meridionale in particolare aveva prima della guerra forti legami anche commerciali ed economici con la regione di Odessa.
Le appartenenze nazionali servono a stabilire distinzioni e confini, in qualche modo creano o sono il prodotto di conflitti, ma le persone concrete che tu incontri hanno un rapporto difficile, doloroso con queste categorie collettive.
BiProvo a rispondere citando un passo della storia che apre il libro, che le fa da prologo. Si tratta della storia di Larisa, una donna originaria di Donec’k, oggi settantenne, che ormai vive da molti anni in Italia lavorando come badante. Larisa mi ha raccontato che quando sua figlia, che oggi abita in Svizzera, qualche mese fa si è ritrovata a dover rinnovare il passaporto, è andata sia al consolato ucraino sia a quello russo, ed entrambi, a quanto pare, si sono rifiutati di rinnovarle il documento e le hanno detto che non era affar loro, scaricando il barile agli altri. È poco più di un aneddoto, ma questa storia ci dice, secondo me, che la faccenda delle categorie e delle appartenenze nazionali va letta soprattutto come un’opportunità per diritti che o abbiamo o ci vengono negati, indipendentemente da come ci sentiamo o ci auto-definiamo. Certo, la guerra produce forti sentimenti di appartenenza e rafforza l’identità collettiva. Per qualcuno questa cosa funziona, non c’è dubbio. Ma per altre persone, al contrario, la guerra significa non sapere più chi si è, perdere legami, relazioni sociali, non sapere più come definirsi. Ho ascoltato testimonianze di persone davvero disperate, per le quali la guerra è stata una profonda violenza psicologica, una perdita di orientamento culturale. Le città rase al suolo in Ucraina ci dicono anche questo della guerra, secondo me: si sta producendo una totale cancellazione di quello che era il modo in cui le persone vivevano, delle mescolanze, della convivenza. La violenza sembra intesa a escludere qualsiasi forma di riconciliazione futura.
Quando si creano delle appartenenze forti si approda spesso a forme di razzismo. Hai incontrato qualcosa del genere?
Nel libro uso la categoria “razzismo” per indicare due questioni apparentemente diverse, ma a mio avviso connesse. La prima: come sono trattati alcuni gruppi di migranti ucraini in Moldavia e in altri paesi di prima accoglienza, come la Polonia o l’Ungheria. Mi riferisco soprattutto a gruppi di minoranze, e in modo particolare alle persone rom, che sono state e vengono discriminate sia nei punti di confine sia nei centri di accoglienza. La pratica più comune è quella della segregazione e della negazione di diritti accordati invece agli altri migranti ucraini non rom. La seconda, su cui tutti noi in Italia siamo chiamati a ragionare seriamente, è che il razzismo è l’unica spiegazione plausibile al trattamento ben diverso che i migranti provenienti dall’Africa, dal Mediterraneo e dall’Asia continuano a ricevere a fronte di quanto l’Europa ha giustamente garantito a chi fugge dall’Ucraina.
Il tuo libro ha la Moldavia e l’arrivo dei profughi al centro dell’osservazione. Molti dei profughi dall’Ucraina, però, continuano il viaggio, e una parte di loro arriva in Italia dove, fortunatamente, vengono accolti. Persone che fuggono da altre guerre sono però considerate in modo molto diverso.
Dal 24 febbraio 2022 ad oggi circa 22 milioni di ucraini hanno attraverso il confine del proprio Paese per raggiungere uno degli Stati confinanti. Si tratta, senza ombra di dubbio, del più grande spostamento di popolazione in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Tra coloro che sono usciti dall’Ucraina, circa la metà (ossia oltre 12 milioni) è entrata in Polonia; poco meno di 3 milioni si sono diretti verso la Federazione Russa e altrettanti verso l’Ungheria; 2 milioni e mezzo sono entrati in Romania, 1 milione e mezzo in Slovacchia e, come abbiamo visto, circa 900mila in Moldavia. Una parte significativa delle persone che hanno lasciato temporaneamente l’Ucraina a causa della guerra sono nel frattempo rientrate. I dati dell’UNHCR mostrano ad esempio come poco meno di 10 milioni di ucraini siano rientrati dalla Polonia, 2 milioni dalla Romania, e così via, per un totale di circa 15 milioni di persone. Pur tenendo conto di questo significativo movimento di rientro, il numero dei rifugiati ucraini in Europa si assesta attorno ai 6 milioni. Con “rifugiati”, i dati UNHCR identificano in realtà genericamente tutti i cittadini ucraini che hanno fatto richiesta di asilo o di protezione temporanea: 1 milione e 600mila in Polonia, 1 milione in Germania, alcune centinaia o decine di migliaia negli altri Paesi europei, tra cui l’Italia, dove sono state presentate e accolte circa 187mila domande. Il tipo di protezione umanitaria che è stata accordata dall’Unione Europea in relazione alla guerra in Ucraina si basa su due principi semplicissimi che in tutti gli altri casi vengono, però, ignorati e che invece dovrebbero essere l’unico criterio da seguire per pensare e gestire le migrazioni verso l’Europa. La guerra non insegna mai niente, ma questa cosa dovrebbe invece insegnarcela: se evitiamo di creare complicazioni inutili o di frapporre ostacoli che impediscono ai migranti di fare le loro scelte, una buona parte dei rischi possono essere evitati. Per i profughi ucraini è stato chiaramente indicato a livello giuridico-amministrativo che le persone hanno il diritto di seguire le proprie reti, usando le risorse a disposizione per muoversi liberamente tra i paesi europei per raggiungere il luogo in cui sanno di avere più risorse e possibilità a disposizione. Per chi è scappato dalla guerra, questo ha voluto dire essenzialmente poter raggiungere amici e parenti già emigrati all’estero, che hanno fornito loro aiuto, informazioni, accoglienza. E ha voluto dire viaggiare autonomamente con i propri mezzi, senza pagare i trafficanti e senza corrompere la polizia di frontiera, usando così i propri risparmi per sistemarsi e poter poi ricominciare a lavorare. C’è poi un secondo fattore essenziale, ossia la costruzione di un discorso pubblico e mediatico favorevole all’arrivo dei rifugiati ucraini, una rappresentazione pubblica seria e credibile delle ragioni della loro migrazione, del ruolo che queste persone potevano avere nei contesti di arrivo, il tutto all’insegna dell’empatia e del rifiuto di ogni stigmatizzazione, il che ha reso anche i contesti sociali di accoglienza ben disposti nei confronti delle relazioni che si andavano a costruire con chi arrivava. Esattamente l’opposto di quanto avviene quotidianamente e da anni con i migranti che arrivano a Lampedusa o da qualunque altra via, ai quali tutto ciò è negato. I due discorsi possono sembrare separati, ma è evidente che così non è.
L’auspicio è che quanto sperimentato con i migranti ucraini possa aiutare a cambiare radicalmente le prassi che ormai da anni adottiamo con chi giunge in Italia e in Europa in cerca di protezione e di una vita migliore.
Francesco Vietti