Voci dalla guerra: Ol'ha Leus

Il gruppo per i diritti umani di Charkiv sta registrando una serie di testimonianze dei crimini di guerra compiuti dalla Federazione russa, in particolare a Mariupol’. Ol’ha Leus abitava a cinque minuti dal Teatro Drammatico della città. La sua casa è stata bombardata, e suo marito ucciso da un cecchino. Abbiamo parlato con lei presso il centro ‘JaMariupol’’ (Io sono Mariupol’) di Leopoli, dove il gruppo per i diritti umani di Charkiv si è recato per aiutare i cittadini di Mariupol’ che, dopo aver lasciato la propria città natale, vivono nel capoluogo della Galizia ucraina.

Voci dalla guerra. Ol’ha Leus, abitante di Mariupol’: “Mio marito è stato ucciso da un cecchino a Mariupol’”.

Il marito di Ol’ha Leus era sceso in strada per rendersi conto dello stato dell’abitazione, per capire come mettere al sicuro la sua famiglia, e un cecchino russo lo ha ucciso. Andrij Didenko ha raccolto la testimonianza della moglie, che sottolinea più volte l’incredulità per questa sorte così atroce, frutto delle azioni di coloro che si definivano “liberatori”.

L’intervista è stata realizzata per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).

Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.

Le traduzioni italiane sono a cura di Francesca Lazzarin, Giulia Sorrentino e altri collaboratori di Memorial Italia.

Andrij Didenko

18.05.2023

Ol’ha Leus: “Mio marito è stato ucciso da un cecchino a Mariupol’’

Il gruppo per i diritti umani di Charkiv sta registrando una serie di testimonianze dei crimini di guerra compiuti dalla Federazione russa, in particolare a Mariupol’. Ol’ha Leus abitava a cinque minuti dal Teatro Drammatico della città. La sua casa è stata bombardata, e suo marito ucciso da un cecchino. Abbiamo parlato con lei presso il centro ‘JaMariupol’’ (Io sono Mariupol’) di Leopoli, dove il gruppo per i diritti umani di Charkiv si è recato per aiutare i cittadini di Mariupol’ che, dopo aver lasciato la propria città natale, vivono nel capoluogo della Galizia ucraina.

Credevamo, e lo credevamo con tutti noi stessi, che non sarebbe successo ciò che è successo. Hanno bombardato il mio appartamento. Mio marito Volodymyr è sceso in cortile per vedere in che condizioni era l’edificio, perché forse bisognava già fare i bagagli e scappare da qualche altra parte. E in quel momento lo sparo di un cecchino gli ha strappato la vita.

Mi chiamo Ol’ha Leus. Il primo giorno di guerra è stato relativamente normale, perché vivevo e lavoravo nel centro della città, mentre la guerra è cominciata nelle periferie. E fino alla fine della giornata non è stato chiaro che stava accadendo qualcosa di molto, molto serio.

E dove viveva? In che parte della città?

Proprio in pieno centro, a cinque minuti a piedi dal Teatro Drammatico.

A Mariupol’?

Sì, a Mariupol’.

È iniziato un normale giorno lavorativo. Verso l’ora di pranzo si iniziava già a percepire il panico. Si sono formate code davanti alle farmacie, ai negozi, ai bancomat. I negozi hanno iniziato ad accettare solo i pagamenti in contanti, e non più con carta. I combattimenti erano in corso da qualche parte in periferia, nel quartiere del fiume Kal’mius, sulla riva sinistra. Credevamo, e lo credevamo con tutti noi stessi, che non sarebbe successo ciò che è successo. E che la guerra sarebbe finita lì. Ma la situazione peggiorava di ora in ora. Le esplosioni si sentivano sempre più vicino. Ci sono stati dei bombardamenti contro degli edifici nei paraggi, come il cinema ‘Vittoria’, colpito da un proiettile. All’inizio siamo rimasti chiusi in casa, perché lì ci sentivamo relativamente al sicuro.

Il 20 marzo è stato bombardato il mio appartamento. La stanza colpita aveva delle trapunte appese dappertutto, perché faceva molto freddo. Il proiettile è finito nell’appartamento, e quella camera è stata distrutta.

Ol'ha Leus, Mariupol'

Quel giorno a rimetterci è stato il mio figlio più piccolo: allora aveva otto anni ed è rimasto ferito ad una gamba. I combattimenti si stavano svolgendo ormai nel centro della città, e gli occupanti ci hanno tolto la possibilità di avere assistenza medica. Abbiamo saputo da alcune persone che nel “Centro culturale della gioventù” (che era davanti a casa nostra, dall’altra parte della strada) era stato allestito un ospedale da campo dove portavano i feriti. Ci siamo andati, ma senza portare con noi il bambino. Ci siamo andati solo per avere una consulenza, ricevere dei medicinali o delle bende. Lì abbiamo parlato con una ragazza che ci ha dato dei consigli su come comportarci. Il giorno dopo (o due giorni dopo) il Centro ha preso fuoco. Non so nemmeno cosa sia successo alle persone che erano lì, spero tanto che siano riuscite ad abbandonare l’edificio in tempo.

Ci sono stati dei bombardamenti molto forti nel nostro quartiere. Qualcosa è piombato sul nostro palazzo. L’abbiamo sentito tremare tutto. Ed è un edificio solido, d’epoca staliniana. Ma a un certo punto abbiamo pensato che, ormai, bisognava abbandonarlo. Perché avevamo paura che i piani superiori ci cadessero in testa.

Mio marito Volodymyr è sceso in cortile per vedere in che condizioni era l’edificio, perché forse bisognava già fare i bagagli e scappare da qualche altra parte. E in quel momento lo sparo di un cecchino gli ha strappato la vita.

Abbiamo sentito questo sparo. Ce n’è stato uno, oppure due. Quando poi ho richiamato alla mente questi fatti, mi è sembrato di aver perfino sentito il suo grido. Mi è parso di sentire “Mi hanno preso” con tono stupito. Più tardi (quello stesso giorno, verso il primo pomeriggio) la guerriglia urbana era ormai in corso nel nostro quartiere. Non sparavano dall’artiglieria a lungo raggio: i combattimenti erano ravvicinati, usavano dei mitra, o qualcosa del genere. Abbiamo sentito delle voci, visto della gente che correva. Abbiamo visto i nostri soldati aiutare un commilitone ferito. A lungo ho sperato di aver sentito il grido proprio di quel soldato. E poi abbiamo visto che lo portavano via.

Il giorno dopo, quando la situazione si è fatta più tranquilla, sua mamma Nina, che abitava con noi, è uscita, ha sentito dei passi, voleva chiedere a qualcuno di mio marito… Ci credevamo ancora, non volevamo accettare il solo pensiero che fosse potuto morire. Credevamo che, magari, fosse riuscito con un balzo a ripararsi nell’androne, o nel rifugio antiaereo, o che si fosse nascosto da qualche parte. Sua mamma ha trovato il proprio unico figlio morto, a pochi passi dall’ingresso del nostro palazzo. Dopo, ancora per molto (una settimana, credo), non siamo potuti uscire di casa: preparavamo da mangiare su un grill nell’androne. Grazie a Dio, avevamo del cibo, scatolame vario. I bambini non hanno patito la fame.

Era davvero terribile, volavano aerei militari tutto il tempo. A volte più distante, a volte molto, ma molto vicino. Si sentivano i rumori delle bombe, e noi ormai avevamo imparato a distinguere il suono di un colpo di mortaio da quello di una bomba.

Soltanto sei giorni dopo, con l’aiuto di alcuni ragazzi che vivevano nel rifugio antiaereo del nostro palazzo, abbiamo potuto seppellire mio marito. Lo abbiamo sepolto nel cortile, piantando per terra una croce ortodossa. Gli abbiamo reso gli ultimi onori come potevamo.

Mariupol', il “Centro culturale della gioventù” distrutto. Foto tratta dal canale Telegram del Consiglio comunale di Mariupol'

Ci può dire se ha avuto modo di parlare con le truppe di occupazione?

Molto poco. Una volta sono entrati nel nostro cortile. Delle persone sono uscite, hanno iniziato a fargli domande, perché le comunicazioni erano completamente interrotte, non avevamo nessuna informazione, nessuna notizia. Ci siamo avvicinati, non è che ci fosse una folla di gente. Attorno a loro si erano raggruppate, direi, 10-15 persone. Loro ci hanno detto tutti contenti che ci avevano liberati. Che ora tutto sarebbe andato bene.

 

 

 

 

 

 

Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Trento, 2 aprile 2025. Ucraina: le antiche radici della guerra attuale.

‘Le storie di Kyiv, la città in cui sono nata, sono storie drammatiche. Se guardo all’indietro per collegare la situazione odierna con il passato, sulla base di libri e documenti, usando le storie della mia famiglia, mi rendo conto che il passaggio da un’epoca all’altra può essere rappresentato in alcuni luoghi di Kyiv come su un palcoscenico teatrale. Sarà sempre illuminato da luci grandiose e fatali. Racconteremo di una zarina che scendeva la scala del suo palazzo, situato su un’alta collina, per organizzare il salvataggio dell’impero russo. Parleremo del geniale scrittore che immaginò di far esplodere una bomba proprio sul belvedere da cui scendeva la zarina. Seguiremo la coraggiosa missione di un’eroina che penetra nel bunker di Putin per convincerlo a fare harakiri’. Kyiv. Una fortezza sopra l’abisso di Elena Kostioukovitch è un viaggio nell’anima della capitale ucraina, che intreccia la storia della città, incastonata nel cuore d’Europa, e quella dell’autrice, partita da Kyiv seguendo la passione per la letteratura. Le pagine di Gogol’ e Bulgakov si mescolano ai ricordi di famiglia, i boulevard di Kyiv attraversano i secoli, le guerre di ieri e quella di oggi, le piazze brillano di vita e bruciano sotto le bombe, come a espiare la condanna di una città eternamente assediata. Elena Kostioukovitch firma un libro prezioso che ci pone davanti alla complessità di un paese, alle sue luci come alle sue ombre, alle diverse voci che da secoli ne animano la cultura, alla forza di un popolo che non si è mai arreso. Mercoledì 2 aprile 2025 alle 17:30 la Biblioteca-Archivio del CSSEO, Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale di Levico Terme, in collaborazione con la casa editrice La nave di Teseo, organizza nella Sala conferenze della Fondazione Caritro di Trento (via Calepina 1) l’incontro Ucraina. Le antiche radici della guerra attuale in occasione della pubblicazione del volume Kyiv. Una fortezza sopra l’abisso della nostra Elena Kostioukovitch. Massimo Libardi e Fernando Orlandi discutono con l’autrice. È possibile seguire l’incontro on line tramite piattaforma Zoom: https://us02web.zoom.us/j/83908786033.

Leggi

Firenze e Roma. Presentazioni del volume “La mia vita nel Gulag” di Anna Szyszko-Grzywacz.

Quando Stalin morì, nel 1953, la gente piangeva e noi, invece, cammi­nando ci davamo delle belle gomitate, ridendo sotto i baffi, in silenzio. Le russe facevano dei gran lamenti, soprattutto le nostre conoscenti di Leningrado. Dopo la morte di Stalin, quando Chruščëv andò al potere, si tenne una riunione in una grande sala a Vorkuta. Erano presenti anche dei polacchi. Ci raccontarono l’andamento della ceri­monia: prese la parola il locale segretario del partito, lesse una lettera su Stalin e tutta la perorazione di Chruščëv. Nella sala era appeso un grande ritratto di Stalin. Quando ebbero finito tutto quel leggere, uno degli ex prigionieri si era alzato e aveva gridato «Doloj svoloč!» («Abbasso la carogna!») e quello accanto gli fa: «Durak, eščë ne izvest­no, čto budet» («Stupido, ancora non sappiamo che cosa avverrà»). Firenze e Roma ospitano all’inizio di aprile due presentazioni del volume La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz, ultima pubblicazione della collana Narrare la memoria, curata da Memorial Italia per Edizioni Guerini. A Firenze mercoledì 2 aprile 2025 alle 17:00 presso l’hotel Indigo Florence (via Jacopo da Diacceto 16/20). Introduce Stefano Barlacchi e intervengono la nostra Barbara Grzywacz con Luca Bernardini e Giovanna Tomassucci. A Roma giovedì 3 aprile 2025 alle 18:00 presso la Casa Internazionale delle donne (via della Lungara 19). Introduce Stefano Barlacchi e intervengono la nostra Barbara Grzywacz con Luca Bernardini e Paolo Morawski.

Leggi

28 marzo 2025. Irina Ščerbakova inserita nel registro degli agenti stranieri.

Oggi, 28 marzo 2025, è stata dichiarata agente straniera la nostra collega Irina Ščerbakova, storica e attivista, tra le fondatrici di Memorial e attualmente membro del direttivo dell’Associazione internazionale Memorial (MAM). “Si tratta, ovviamente, di una brutta notizia, ma non mi aspettavo nulla di diverso. È arrivato ufficialmente il mio turno, ma siccome Memorial era da tempo ‘agente straniero’, pensavo addirittura di rientrare già da un pezzo nella categoria” ha commentato Irina Lazarevna. Dalla fine degli anni Settanta Irina Šerbakova ha raccolto e catalogato le memorie degli ex prigionieri dei campi e per molti anni si è impegnata nelle attività divulgative e scolastiche di Memorial, uno su tutti il Concorso per le scuole (Škol’nyj konkurs), che le hanno portato numerosi premi internazionali. Nella motivazione il Ministero della Giustizia ha dichiarato che “Irina Ščerbakova ha collaborato alla creazione e alla diffusione di messaggi e materiali appartenenti ad agenti stranieri verso un numero sterminato di destinatari. Ha diffuso informazioni non veritiere sulle decisioni prese da esponenti della Federazione Russa e sulla politica da essa perseguita, opponendosi all’operazione militare speciale in Ucraina. Collabora costantemente con organizzazioni straniere”. Irina Ščerbakova è l’ultima di un lunghissimo elenco di persone — tra cui figurano anche diversi altri membri di Memorial — finite nel mirino di una legge ingiusta e persecutoria, ideata dal governo russo con l’intento di limitare e reprimere ogni voce contraria. Immagine in copertina: Dar’ja Krotova.

Leggi