(di F. Dzjadko)
6 giugno 2024
Aggiornato 07 giugno 2024 alle 17:44
Il copresidente di Memorial: “Non incoraggio nessuno a scendere in strada adesso. Ma prima o poi si metterà per forza in moto il cambiamento, è inevitabile dopo la caduta di qualsiasi dittatore e la disgregazione dell’élite. A quel punto è importantissimo che la società si faccia avanti, che dimostri di esistere”.
Alla fine dello scorso febbraio il tribunale distrettuale Golovinskij di Mosca ha convertito la multa comminata a Oleg Orlov, copresidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, in una condanna a due anni e mezzo di reclusione. Il settantunenne attivista per i diritti umani è accusato di “vilipendio reiterato dell’esercito”. A metà aprile, senza preavviso, Orlov è stato trasferito dall’istituto di detenzione preventiva SIZO-5 (Vodnik) di Mosca dapprima in un carcere di Samara e poi nel SIZO-2 della città di Syzran’ nella regione di Samara. Mediazona pubblica un’ampia intervista a Orlov raccolta dal giornalista e scrittore Filipp Dzjadko (Memorial Zukunft) prima della sentenza definitiva.
Oleg Petrovič, qual è stato il pesce più grande che ha pescato nella sua vita?
Il più grande è stato un luccio che presi in Carelia, sul fiume Pon’goma. Non avevo niente per pesarlo, quella volta, ma sarà stato sugli undici chili. Tra l’altro, la storia di Putin che sostiene di averne pescato uno di ventuno chili è una bugia plateale. Qualsiasi pescatore si farebbe una risata: ci avrebbe messo molto di più a tirarlo fuori, rispetto a come l’ha raccontato, e avrebbe dovuto farlo diversamente.
La pesca è un suo hobby di vecchia data?
Mio padre mi ha sempre portato in canoa fin da bambino, e quando andavamo pescavamo sempre. Lui era anche cacciatore, mentre io non lo sono mai diventato. Pescare, invece, pesco da allora.
Ci parli del suo primo ricordo.
Uno dei primissimi ricordi sono io, piccolissimo, che mi sveglio nel lettino della nostra prima casa. Mani di donna che mi sollevano e poi mi vestono, e io che vedo la stufa, la legna che ci buttano dentro, l’odore del fumo. Una sensazione bella, di calore, di casa. Dovevo avere sui tre anni, credo.
Ci racconta qualcosa di più sulla sua “origine”, come si diceva una volta?
I miei parenti da parte di madre e di padre vengono da ambienti molto diversi. Gli Orlov sono originari del Sud della Russia. Il mio bisnonno, un socialdemocratico menscevico, finì esiliato in Siberia. Ho anche una sua foto, laggiù, con mio nonno Michail Prokof’evič ancora bambino. Poi, a ridosso della rivoluzione, mise da parte la politica attiva, e forse per questo sopravvisse al regime sovietico senza conseguenze, senza repressioni. Anzi, a un certo punto lo accettò persino. Quanto a mio nonno Michail Prokof’evič, prese il diploma da agronomo ed è stato un grande esperto di barbabietole da zucchero. Con la guerra in corso, la sua famiglia fu sfollata in Asia centrale, dove iniziò a coltivarle per fornire zucchero all’URSS. Si diede molto da fare e si meritò diverse onorificenze. All’inizio degli anni Cinquanta fu trasferito a Mosca, al ministero dell’agricoltura. Ricordo l’appartamento – se così si può chiamare, minuscolo com’era – che gli assegnarono a Mosca, a lui che era uno specialista pluridecorato. Di fatto era una stanza lungo un corridoio, con bagno e cucina in comune. Un dormitorio, in sostanza. Una ricompensa sui generis per anni e anni di formidabile lavoro. In quella stanzetta visse con mia nonna Tosja e due figli: mio zio Volodja e mio padre, Pëtr Michailovič Orlov. Mio padre fece il servizio militare e durante la guerra fu arruolato come comandante addetto ai cannoni semoventi. Il suo reggimento fu mandato al fronte, ma proprio mentre stavano passando il confine con la Germania la guerra finì e il treno tornò indietro. Da bambino fu un gran dispiacere, per me: mio padre non aveva combattuto, altrimenti sai che storie avrebbe avuto da raccontare! Se fosse partito prima, però, avrebbe partecipato alle ultime battaglie e, verosimilmente, io non sarei qui.
Cosa le diceva di quello scherzo del destino?
“È andata così, figliolo”… Da un certo punto in poi non ne parlammo più, era tutto chiaro comunque. Mio nonno era un comunista convinto e, com’è ovvio, quand’era soldato mio padre prese subito la tessera del partito, senza la minima esitazione. E dall’esercito tornò comunista convinto anche lui. Come mi spiegò in seguito, la svolta furono il XX e il XXII congresso. Poi con Chruščëv, lui e un gruppo di altri ingegneri elettronici furono mandati in Inghilterra per uno scambio. E com’è ovvio, quel viaggio ebbe un impatto ancora maggiore sulla sua visione del mondo, sul suo modo di intendere cosa stava accadendo. Lui e mio nonno ne parlavano – ne discutevano – molto seriamente. Mio nonno mi voleva molto bene, eravamo legati, ma non abbiamo mai parlato di politica: ero un ragazzino. È morto che avevo dodici anni, ed è stato comunista fino alla fine dei suoi giorni.
So che il ricordo di suo zio è una cosa molto importante, per lei.
Lo zio di cui parla era il fratello di mia madre, Oleg Radčenko. Morì da eroe durante la battaglia di Vyborg, grazie alla quale la Finlandia fu costretta a lasciare la coalizione guidata da Hitler, capitolò e, infine, dichiarò guerra alla Germania. L’assalto si svolse sull’istmo di Carelia, annesso durante la Guerra d’inverno. Mentre passava un fiume per assicurare una testa di ponte, mio zio venne ferito gravemente da un cecchino. Lo portarono in un ospedale da campo, dove morì il giorno dopo. Sono rimaste alcune lettere di un suo amico. In una scrive alla nonna che mio zio sarebbe guarito, e nell’altra: “Dio, sono distrutto, speravamo che tutto si sarebbe sistemato e invece è morto. Aveva una brutta ferita allo stomaco, è andata in peritonite”.
Io e mia madre abbiamo pubblicato le sue lettere dal fronte. Era molto giovane quando le scrisse, ma aveva già una personalità incredibilmente profonda, a tutto tondo, era molto colto. È sempre presente nella mia vita, nei racconti di mia madre e di mia nonna.”
Quando mi sono iscritto a biologia, ho conosciuto i suoi compagni di corso. A decenni dalla laurea tutti lo ricordavano come una persona straordinaria. Si occupava di invertebrati ed era riuscito a lavorare in un istituto tropicale. Il nonno gli aveva detto: “Oleg, scordati la milizia volontaria. Se ti chiamano nell’esercito, farai il tuo dovere e andrai in guerra. Ma volontario no. Non ti mando al massacro”. Lui aspettò la leva e partì.
Lei si chiama Oleg in suo onore?
Sì, mi chiamo così per lui.
Ci racconta come si è sviluppato e come è cambiato il suo atteggiamento nei confronti del regime sovietico?
È una storia sintomatica: è cambiato per influenza di mio padre che, come ho già detto, da principio era un comunista convinto. Era un ingegnere, un ingegnere elettronico che lavorava a progetti spaziali, dirigeva un laboratorio e, com’è ovvio, non poteva lasciare il Partito Comunista. Ma poi cambiò opinione e del partito prese a pensare solo il peggio. Anche mia nonna e mia madre erano piuttosto scettiche, se non altro per le loro origini. Di mio nonno per parte di madre, che non ho mai conosciuto, cercarono di fare un delatore. Era ingegnere in un’azienda sovietica e non fu mai comunista (era di fatto impossibile, dato il suo passato). Iniziarono a convocarlo all’NKVD: “Facciamo due chiacchiere, no? Lei è comunque dei nostri, è dalla parte del potere sovietico… Per noi è molto importante conoscere gli umori della gente, e lei ce li potrà riferire”. Come può immaginare, non accettò, ma nemmeno poteva rifiutarsi apertamente. Capiva bene che avrebbe condannato la sua famiglia e tutti i parenti. Aveva molti fratelli, e tutti se la stavano più o meno cavando nascondendo le proprie origini nobili. Quindi mio nonno si inventò un gioco. “Ci ho pensato” disse “ma non posso rispondervi ora, ho bisogno di guardarmi intorno”. E non diceva mai né sì né no. La conseguenza fu un esaurimento nervoso: finì in un ospedale psichiatrico e ne uscì invalido.
Che anno era?
Il 1934. Non era il 1937, no: se lo fosse stato, sarebbe andata diversamente.
Quindi le repressioni di Stalin hanno solo sfiorato la sua famiglia? O c’è stato altro?
Se parliamo della mia famiglia e dei miei amici, è stato solo questo, sì. Intorno a noi le vittime furono tante: conoscenti, amici. La mia famiglia no. Tornando a mio padre. Ricordo quando mi presero tra i pionieri: fu il giorno più bello della mia vita. Sono nel Museo Lenin, vicino all’auto di Lenin, e una vecchia bolscevica mi annoda il cravattino rosso. Rincaso felicissimo e lo dico a tutti, entusiasta. E noto un certo scetticismo. Nessuno mi dice che sbaglio, ma non condividono il mio entusiasmo. In seguito ne avremmo parlato a lungo, con mio padre. Non ha mai cercato di farmi cambiare idea o di farmi pressioni. Mi ha parlato, mi ha spiegato. E pian piano – non subito, pian piano, verso i miei quindici anni – sono diventato antisovietico. Com’è ovvio, i miei genitori mi hanno insegnato il “doppio binario”: capisci sempre dove sei, quando devi nascondere ciò che pensi e quando, invece, puoi parlare.
Un po’ quello che sta accadendo a Mosca in questo momento.
Certo. Me lo dicono in molti, fra chi ha figli a scuola.
Come funziona, può spiegarcelo?
A un certo punto ti rendi conto di vivere in un mondo in cui se parli liberamente rischi grosso e coinvolgi anche la tua famiglia. Così agli amici dici una cosa e a scuola ne dici un’altra. A scuola non ho mai detto nulla di apertamente antisovietico, ma capitava che tirassi scema la mia insegnante di storia a furia di domande. Le faccio un esempio: avevo già capito tutto sull’entrata in guerra dell’Unione Sovietica nella Seconda guerra mondiale e su come avessero fatto le truppe tedesche ad arrivare fino a Mosca. E quindi cominciai: “Come si fa a dire che hanno attaccato a tradimento? Possibile che Stalin e i vertici non sapessero nulla? Dov’era lo spionaggio?”. Ricordo di essere arrivato a scuola dopo l’estate del 1968, in nona classe, con i miei compagni che approvavano con grande trasporto quanto accaduto in Cecoslovacchia. E che raccontavano storie assurde di come a Praga avevano iniziato a sparare ai nostri carri armati e, solo di conseguenza, loro avessero aperto il fuoco (bravi!) distruggendo le case. Di nuovo, però, tu dovevi star buono e zitto. Ne parlavi solo a ricreazione con gli amici (e ne avevo, di amici che la pensavano come me) e con loro commentavi: che idioti, che stupidi.
Di cosa parlava con suo padre negli anni in cui cercava di “forgiarla”?
Di tutto, dalla Grande Rivoluzione d’Ottobre alla persecuzione dei dissidenti ai tempi di Brežnev. E soprattutto in casa nostra arrivavano sempre più pubblicazioni di samizdat e tamizdat. All’inizio i miei genitori mi tenevano nascosto tutto. Ed è comprensibile, no? Quello è un ragazzino, va a scuola e spiffera tutto. Poi hanno smesso e ho potuto leggere Solženicyn e altre cose. Eravamo la tipica famiglia di intellettuali russi che discuteva in cucina, con i genitori che stavano svegli tutta la notte a leggere. Ricordo che per due giorni ebbero Il dottor Živago. La sera andavo a dormire che leggevano, seduti vicini. La mattina mi svegliavo ed erano ancora lì, seduti a leggere.
All’inizio era contento del cravattino rosso, poi ha cambiato idea. In realtà lei dà l’impressione di qualcuno difficile da influenzare.
No, no, tutt’altro, e credo che sia una mia virtù. Sono sempre pronto ad ascoltare opinioni diverse dalle mie. Tra l’altro, non fu una cosa soltanto, una in particolare a farmi cambiare radicalmente. È stato un lungo dialogo in famiglia, è stata la lettura del samizdat e del tamizdat, è stata la radio con Voice of America e la BBC. Ho cominciato che ero ancora a scuola. È stato un percorso graduale.
Lo ha saputo dalla radio dei fatti del 1968?
Sì, sì, certo. Era difficile, disturbavano sempre le trasmissioni, ma in un modo o nell’altro ci si riusciva. Avevamo una radiolina: la ascoltava mio padre, quando era a casa, e anche io.
Tornando a suo zio: la guerra e i suoi orrori erano sempre vicini, magari anche solo per una fotografia sulla mensola?
Sì, era così. Cos’era la vittoria, per me scolaretto? Qualcosa di sacro, qualcosa che non si poteva mettere in discussione. E della cui importanza non dubito nemmeno oggi. Per mia madre e mia nonna la festa della vittoria non è mai stata una bella festa. E mi hanno sempre raccontato quant’era stata dura, nel 1945. Avevano vinto, era stata una grande vittoria, però quel giorno si chiudevano in casa, si abbracciavano e piangevano. Il 9 maggio 1945 si abbracciarono e piansero in un appartamento inchiavardato.
Mi dica: cosa voleva fare da grande? Cos’ha fatto per diventarlo e com’è andata?
Volevo fare l’astronauta, il marinaio, l’investigatore, e anche qualcos’altro. Un sacco di cose. E anche in questo caso quello zio che non avevo mai conosciuto è sempre stato presente. Lui, com’è ovvio, non andò mai ai tropici, ma sognava di andarci da esperto di invertebrati. E i viaggi, il romanticismo del viaggiare erano anche cosa mia. Farò il biologo e viaggerò: i tropici, il Nord, la giungla! Allo stesso tempo mi interessavano molto anche gli studi umanistici, la storia. Nella nostra biblioteca, a casa, c’erano molti libri di prima della rivoluzione. Quando si trattò di scegliere un percorso di studi, con mio padre parlavamo spesso di dove andare e cosa fare. Lui mi spiegò che le materie umanistiche non potevano essere libere in una società totalitaria, e che avrei dovuto sacrificare la verità e mentire. Alle scienze naturali, invece, non era necessario immolare le proprie convinzioni. A un certo punto avevo deciso di diventare geologo perché ogni estate con i miei genitori andavamo in campeggio. “La geologia non è viaggiare o andare in campeggio: è una scienza, il resto è un’appendice. Leggi i manuali, prima, e poi decidi”. Li lessi e decisi: la geologia non mi interessava molto, la biologia sì. E decisi di diventare biologo.
Come fa una persona che voleva studiare biologia a trasformarsi in una persona che, nel 1981, di notte, attacca volantini contro la guerra alle fermate dell’autobus?
Niente di più semplice. Scusi, ma un biologo non può anche pensare di fare dell’altro? Penso che sia fisiologico. È successo dopo l’invio e l’ingresso delle nostre truppe in Afghanistan. Allora pensavo che saremmo entrati anche in Polonia. Non è successo. Le ho già detto cosa pensavo. Avevo amici molto diversi tra loro, ma non credo che ci fossero comunisti convinti: la maggioranza era molto critica nei confronti della realtà di allora, però non riuscivo a trovare una persona con cui poter fare qualcosa: non parlare, proprio fare qualcosa. E per quanto i gradi di separazione dall’ambiente della dissidenza erano uno al massimo, non mi decidevo a fare quel passo. Pensavo che fosse il modo più breve per farsi arrestare, senza alcun riscontro pratico e senza utilità. Ora mi rendo conto che fu un errore: era l’unica strada giusta. I dissidenti che avrei poi incontrato in Memorial sono stati dei compagni più grandi, dei maestri. Avevano ragione loro, mentre io pensavo che ci volessero la clandestinità e il volantinaggio…
Quindi a un certo punto si dice che quanto sta accadendo è sbagliato e va cambiato, ma la dissidenza non è la via giusta e bisogna trovarne un’altra?
Bravissimo. Ragion per cui comincio a cercare persone con cui fare qualcosa di diverso, ma non le trovo. Lì mi venne l’idea un po’ stupida, secondo me, di fare qualcosa da solo pensando che servisse. Magari è stato giusto così: lo fai per te, per non perdere la tua dignità di persona. Ti rendi conto di essere complice di un crimine e non puoi stare con le mani in mano. Non fare niente è sempre peggio che fare qualcosa. Così ho messo insieme un ciclostile e ho iniziato a stampare volantini. Avevo una paura tremenda, forse la più tremenda della mia vita. Poi è andata calando.
Perché?
Non lo so. La prima volta che lo fai senti di essere da solo contro una macchina enorme, davvero enorme, e che in più sa e vede tutto. Lo capisco ora che non era vero, che il KGB sapesse e vedesse tutto. Ma allora sembrava che sapessero tutto quello che succedeva e che avessero tutto sotto controllo.
Ora non ha la sensazione di essere solo contro la stessa macchina?
No, che non ce l’ho: ora non sono più solo.
Può darmi un’idea di cosa fece allora?
Ho stampato dei volantini. Ci ho messo un po’, un paio di sere. Anche perché dovevo fare in modo che mia madre non capisse cosa stessi combinando, o si sarebbe preoccupata. Poi sceglievo il posto dove affiggerli. Nella nostra era digitale ci sono telecamere ovunque e c’è il riconoscimento facciale. Allora non c’erano telecamere e gli androni non erano mai chiusi: entravi dove ti pareva, la notte potevi stare al caldo. Scelsi dove e come: ne attaccavo uno, proseguivo, poi mi fermavo da qualche parte per il resto della notte e al mattino prendevo la metropolitana e tornavo a casa. Più o meno così. Dicevo a mia madre che passavo la notte dagli amici – sono un gruppo fantastico, mamma! – lei pensava che avessi la ragazza e dormissi da lei. E io invece uscivo ad attaccare volantini. Lo facevo, rincasavo, e poi dovevo pure andare a lavorare. E ci andavo senza avere chiuso occhio. La paura ti prendeva non quando attaccavi i volantini, ma quando tornavi e pensavi che ti avrebbero cercato.
Ci sono state conseguenze? Reazioni?
Non ci furono conseguenze, non credo, se non che un qualche agente del KGB sarà stato incaricato di cercare il responsabile e, brontolando, ci si sarà messo d’impegno. Qualcuno avrà ripercorso i miei passi la mattina presto, avrà visto la fermata e il volantino incollato al vetro con la colla ai silicati: vandali, non si può togliere! Ma la gente, poi, leggeva o no? Mi sarebbe piaciuto saperlo, ma non mi sono arrischiato a verificare, per cui non ne ho idea. Di fatto è stato un piccolo episodio senza conseguenze per nessuno, se non per me stesso.
Ecco: “se non per me stesso”. Come si è sentito, passata la prima paura? Cosa ha significato quell’episodio per lei e per la sua storia?
Forse la parola “autostima” è importante qui, è importante sentirsi un essere umano. Ma la paura era tanta, tantissima. Sei a casa tua e pensi: adesso arrivano. Però l’ho fatto. E questo è un bene.
Voleva che la gente sapesse?
Non mi sono firmato col mio nome, Oleg Orlov. Ci ho pensato molto a come firmarmi, a nome di chi. E ho scritto “Azione”. Siamo in tanti e agiamo, facciamo.
Pazzesco. Ho scritto un romanzo in cui tutti pensano che il gruppo di dissidenti che ne è protagonista sia un’organizzazione enorme, mentre invece sono cinque amici un po’ strani. Per mia vergogna, quando l’ho scritto non avevo idea di quanto aveva fatto lei. Glielo manderò.
Oh, sarebbe bellissimo. È stato pubblicato?
Sì, si intitola Radio Martyn. L’ho scritto pensando a un futuro prossimo, e invece assomiglia molto al presente. Secondo lei, si può pensare di spiegare qualcosa alla gente, e si può sperare in un cambiamento?
Guardi, se non l’avessi visto con questi occhi le avrei detto che no, non si può. Invece ne sono stato testimone: le cose si possono spiegare e cambiare si può. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, nel nostro paese e nel mondo ci sono stati cambiamenti enormi. Non credo che sia stato qualcosa di specifico a far cambiare le persone (anche se, magari, invece, così è stato), ma chi aveva dei dubbi ha avuto molte occasioni di capire. La glasnost’, nuovi fatti che venivano alla luce e che la maggioranza non conosceva, l’idea stessa che si poteva parlare e, magari, venire ascoltati, quella specie di nostra Hyde Park nel centro di Mosca, in Piazza Puškin: tutte cose che, ovvio, hanno influenzato le persone. Certo che possiamo agire sulle persone, che possiamo spiegare loro le cose: basta che non siano già completamente chiuse, mentalmente…
Se pensa che sono passati quarant’anni e sta facendo di nuovo la stessa cosa, in senso figurato, affiggendo volantini e opponendosi alla guerra, non le viene la disperazione?
Nessuna disperazione, no. La disperazione mi è venuta allo scoppio della guerra in Ucraina, e lo stesso per un po’ è successo a molte, moltissime altre persone. Ma la disperazione mi era venuta anche durante la prima guerra cecena e all’inizio della seconda. Noi di Memorial abbiamo dimestichezza con questo stato d’animo. Ma adesso non sono più solo. Siamo in tanti, e sono in tanti a pensarla come noi. Certo, chi è pronto a parlarne apertamente è una minoranza, ma la solitudine no, non la provo. Di conseguenza, nemmeno la disperazione. Vede, è molto importante fare, da soli o in compagnia. È il miglior rimedio alla depressione e alla disperazione. E forse quei miei volantini erano anche un modo per combatterla, la disperazione.
C’è qualche frase dei tempi della dissidenza che la fa andare avanti? “Fai ciò devi, accada ciò che può.”
Be’, sì, e ho citato questa stessa frase proprio nella mia dichiarazione in aula. Sergej Adamovič Kovalëv l’ha ripetuta chissà quante volte, era la sua frase preferita.
Quali sono, secondo lei, le analogie e le differenze tra la fine dell’era sovietica e la situazione attuale?
Le analogie sono molte. La gente che è costretta a scegliere di conformarsi, per esempio. Il conformismo come metodo di sopravvivenza sociale imposto con la forza. La negazione del conformismo che si fa minaccia, nel tardo periodo sovietico e anche oggi. Ai tempi di Stalin era diverso, lo so: quello non era conformismo, ma obbligo di condividere l’estasi con il regime per sopravvivere. Ora, però, si sta facendo la stessa, identica cosa. Negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, ovviamente, era tutto più smussato. La Russia di oggi non è ancora la Cecenia di Kadyrov, dove sei sempre tenuto a esprimere il tuo sostegno al regime. La Russia di Putin non ha ancora raggiunto questo stadio, è più simile alla situazione in epoca tardo-sovietica. Le differenze… A mio avviso, probabilmente ora è peggio. Vede, ai tempi dell’Unione Sovietica le regole del gioco erano chiare, le conoscevamo. Sapevi che l’indomani non ti avrebbero chiesto nulla di più del giorno prima. Ora le regole cambiano, sono mutevoli, e la situazione sta precipitando. Il picco, il crollo drastico, l’abbiamo avuto dopo l’inizio della guerra in Ucraina, ora è meno netto, ma la caduta è continua. Dopo una relativa, pur minima libertà, il potere deve inevitabilmente reprimere per scoraggiare la popolazione dall’aprire bocca. Da questo punto di vista la situazione è molto diversa da quella della fine dell’epoca sovietica. Ora, però, siamo molti di più a opporci. Noi siamo di più rispetto alla comunità dei dissidenti. Quanto a samizdat e tamizdat, oggi non è più necessario passarseli di mano in mano di nascosto per non finire in galera. Ora c’è il VPN, e grazie al VPN molti leggono, osservano e simpatizzano, anche se non scenderanno mai in piazza né diranno mai nulla pubblicamente. C’è chi si oppone attivamente e chi lo fa passivamente: è comunque meglio di una volta. Tra l’altro, il livello di opposizione tra i giovani è molto più alto rispetto alla fine dell’epoca sovietica.
Come mai, alla fine degli anni Ottanta, dopo la sua azione contro la guerra in Afghanistan, si è ritrovato pian piano in Memorial ed è diventato quello che è diventato oggi?
Non mi ci sono ritrovato pian piano: c’è stata la perestrojka. All’inizio ero estremamente scettico al riguardo e dicevo a tutti che era solo una passata di vernice sulla realtà. All’epoca cantavamo un po’ tutti. C’era un gruppo meraviglioso, gli Ivasi, ora si possono ascoltare apertamente e si può andare ai loro concerti. Uno dei miei amici dell’epoca mi disse: crederò che qualcosa stia cambiando solo quando usciranno i loro dischi. Pensai che avesse ragione. Non passò molto tempo, e vedemmo uscire non solo i dischi ufficiali degli Ivasi, ma persino i libri di Solženicyn. E lì mi dissi che sì, era tutto vero. Cercai qualcosa dove impiegare le mie forze, e cominciai a leggere di ogni sorta di iniziativa ecologista. Con i miei amici e la mia attuale moglie, Tat’jana Kasatkina, frequentavo i “sabati ambientalisti” e ci interessavamo anche della conservazione dei monumenti. Poi sapemmo di un altro gruppo di iniziativa, Memorial, che trovai subito molto interessante. Il grado di separazione era uno soltanto: uno dei miei capi-dipartimento aveva dei conoscenti lì dentro, e le riunioni di Memorial si tenevano a casa loro. Ci andammo, per capire che gente fosse. E lì conobbi Lena Žemkova, Dima Leonov e Nina Braginskaja, che per anni sono poi stati miei sodali. Mi piacquero molto e, una parola dopo l’altra, un’azione dopo l’altra, iniziai a partecipare attivamente. Nella primavera del 1988 fui formalmente accettato (tramite votazione) nel gruppo originario di Memorial. A quel tempo eravamo quindici. Per dire, Arsenij Roginskij arrivò dopo di me. Buffo, no? Quando Memorial fu fondato ufficialmente, ero già uno dei suoi attivisti imprescindibili.
Cos’è per lei il 1991?
Il 1991 è stato una rivoluzione e una vittoria. E la felicità. Sinceramente, non credevo che ce l’avremmo fatta. Non pensavo che avremmo vinto. All’epoca lavoravo per il Soviet Supremo della Repubblica Federale Russa. Sono andato in ufficio, ho finito la mia relazione, non ho chiuso occhio tutta la notte: la mattina con Tanja e Jan Račinskij saremmo dovuti andare fuori città. A raccogliere funghi e pescare. Di fatto per tutta la durata del putsch mi sono ritrovato o dentro la Casa bianca o vicino, sulle barricate. Ho passato una notte sotto assedio, le ho costruite anche io, le barricate, e ho anche requisito veicoli e camion per la causa.
Come ha fatto?
Come? “Hai sentito cos’ha detto il presidente El’cin?”. “No”, mi fa l’autista. “Sono del Soviet Supremo, questa è la tessera. Mi serve il tuo camion per costruire una barricata proprio qui. Scendi!”. La solidarietà, l’unità con le persone era straordinaria, e anche la felicità di vedere una folla simile venuta a proteggere la Casa bianca. E poi, il momento in cui la colonna di carri armati guidati dal maggiore Evdokimov passò tra la folla, che si aprì per farli passare. E i carri armati che se ne andavano. Fu vera, autentica felicità. Dopodiché ci siamo preparati e siamo andati per funghi. E fu una felicità vera anche passare per le varie cittadine, i paesi, e vedere su ogni municipio non la bandiera rossa, ma quella bianca, rossa e blu.
Oleg Petrovič, ma allora cosa è successo ai russi, perché è successo?
Se nel marzo del 2022 le autorità non avessero soffocato l’opposizione alla guerra, credo che avremmo avuto un movimento di massa di centinaia di migliaia di persone in Russia. Non credo che i russi siano cambiati e che quelli di oggi siano peggio di quelli di una volta. A essere cambiate, e molto, sono le circostanze. Pensa che allora tutti i moscoviti fossero saliti sulle barricate e che a difendere la Casa bianca ci fosse la maggioranza delle persone? Ma no! Bastava allontanarsi un po’ per vedere che la vita in città continuava come al solito e la gente non voleva saperne nulla. È sempre la minoranza a fare le cose. E a scrivere la storia.
Ci parli delle prime zone calde in cui si è trovato.
Il Nagorno-Karabach. Ci siamo stati nell’estate del 1990 insieme a Dmitrij Leonov, allora co-presidente del Gruppo per i diritti umani. È stato straordinario, interessantissimo finire lì, trovare persone consapevoli di cosa stava succedendo, che avevano imbracciato le armi o erano pronte a imbracciarle. Persone che si confrontavano con altre con una loro verità, diversa. E doversi raccapezzare e capire: è stato molto difficile e molto interessante. Era un lavoro complesso perché bisognava cercare fatti reali. Devo ammettere che abbiamo cominciato presto a capire che ci stavano ingannando e che la nostra versione dei fatti era errata. Era la prima volta che succedeva, la prima in cui avevamo abboccato all’amo. L’essenziale, però, è che riuscimmo comunque a non schierarci incondizionatamente da una parte o dall’altra: è stato davvero molto importante. Fu Dmitrij Leonov a insistere: ragazzi, le parti in causa sono due, ognuna ha la sua verità, che deve essere ascoltata. Poi arrivò anche Svetlana Gannuškina, anche lei convinta che non si potesse stare da una parte sola e che, come in ogni guerra, anche le vittime dell’aggressione avevano le loro colpe, i loro crimini. A quel tempo gli intellettuali moscoviti erano tutti a favore dell’Armenia e non sapevano e non volevano sentirsi dire che era in corso un esodo di massa, molto tragico, degli azeri. Ci fu anche chi non volle sentire ragioni, sbatté la porta e se ne andò, dicendo che no, a loro così non andava bene. Invece furono i primi passi di quello che poi è diventato il Centro per i diritti umani Memorial.
Si è reso conto di avere in mano una nuova professione, quella di “difensore dei diritti umani”?
Ma si figuri se ci pensavamo!
Lo scoppio della prima guerra cecena è stato qualcosa di inaspettato o sapeva che sarebbe successo?
Era sotto gli occhi di tutti. Strani aerei che bombardavano gli aeroporti sul territorio della Repubblica cecena e strani soldati (apparentemente estranei all’esercito russo) al comando dei carri armati che l’opposizione anti-Dudaev stava guidando verso Groznyj… Era palese che le forze armate russe stavano intervenendo. Noi in quel momento lavoravamo nel Caucaso settentrionale, nella zona del conflitto inguscio-osseto. Dopodiché con Sergej Adamovič Kovalëv, incaricato da El’cin di andare a capirci qualcosa, partimmo per Assinovskaja, in Cecenia. E trovammo un quadro spaventoso: la popolazione di lingua russa veniva in massa da noi a denunciare gli abusi. E smettemmo di vedere tutto rosa, nel regime di Dudaev. Di fatto, la violenza criminale contro la popolazione di lingua russa non era espressamente opera del regime di Dudaev, ma di un governo debole, incapace di garantire un ordine minimo e il rispetto dei diritti umani o di proteggere la popolazione dai banditi. Tutto ciò alzava ai massimi la possibilità di una guerra.
Lei si è offerto al posto degli ostaggi. Era pronto a morire, in quel momento?
Guardi, pathos e vanagloria non fanno per me. Lei prospetta un gesto quasi eroico, e non mi piace metterla su questo piano. A essere sincero, però, sì, ero pronto. Avevo paura? No. Se ho paura, lo dico tranquillamente: le ho già detto del timore, se non del terrore, di quando stampavo volantini. Lì no, era un’altra cosa.
Cos’era?
Primo: avevamo una squadra straordinaria, Sergej Kovalëv e il suo gruppo di deputati, e sapevamo di fare una cosa importante. Discutevamo molto tra di noi, io soprattutto con lui, con Sergej Adamovič: cosa potevamo fare e cosa no, come era meglio agire in un momento o nell’altro. Ma, ripeto, avevamo un compito superiore e la percezione di uno scopo preciso. Tutte cose che scacciavano la paura. Quando poi abbiamo visto che tutti i nostri tentativi, tutti i nostri sforzi andavano (o sarebbero andati) a vuoto, il sentimento fortissimo che abbiamo provato non è stato di paura, ma di rabbia violenta e delusione verso chi ci stava ostacolando. Ci sono persone che avevano bisogno di essere salvate e quei bastardi ci ostacolavano, mentendo e facendo il contrario di quanto serviva.
Era una situazione estrema, fra la vita e la morte, di fatto. Cosa vi ha spinto a non arrendervi, in quei giorni?
Che non avessimo paura, innanzitutto: non solo io, ma tutti i membri della squadra di Kovalëv. Era un sentimento che ci univa. Cos’altro ci ha aiutato? È difficile per me parlare a nome di tutti, ma l’impressione è che, quando si è in tanti, la squadra è coesa e c’è un leader come Sergej Adamovič Kovalëv, il resto – come la paura o la sensazione di solitudine, di andare contro un qualche colosso – svanisce.
Ci descriverebbe il momento dello scambio e cosa si prova a trovarsi dall’altra parte, con davanti l’ignoto?
No, è andata diversamente. Non starò a raccontare tutta la nostra epopea, che è già stata descritta e raccontata a sufficienza: i bastoni che ci hanno messo fra le ruote, i tanti inganni, l’irruzione dopo che ci avevano promesso che l’indomani avremmo partecipato ai negoziati… Il senso di ignoto lo provammo soprattutto andando all’ospedale di Budënnovsk dopo la fallita irruzione e dopo che Černomyrdin aveva incaricato Kovalëv di gestire i negoziati. Andammo all’ospedale senza sapere cosa avremmo trovato, cosa stesse succedendo agli ostaggi, che intenzioni avessero gli uomini di Basaev e come ci avrebbero accolto. Quando siamo arrivati, sono riuscito a parlare da solo a solo con gli ostaggi. Ai combattenti dicevo cose del tipo: “Lasciatemi parlare con loro. Lo so che me li portate qui e gli fate ripetere che li trattate bene. Con un uomo armato accanto. Fatemi parlare con loro da solo”. L’ho ottenuto, e così ho potuto capire meglio la situazione. E non ci sono state sorprese. Io e Kovalëv, ma anche gli altri, ci siamo subito offerti come ostaggi: per Basaev era molto importante avere tra le mani dei deputati. E l’incertezza, l’ignoto sono scomparsi: abbiamo capito che ci avrebbero messo insieme agli altri e che gli uomini di Basaev, i terroristi, non avrebbero più sparato a nessuno. Non erano interessati a farlo, non era ciò che serviva. Avevano già fatto fuori due gruppi di ostaggi dentro l’ospedale, altri morti c’erano stati in città: ora basta, serviva altro. C’era una logica e non c’era sadismo: era gente crudele, ma con una logica precisa. Basaev aveva imposto una disciplina molto rigida ai suoi, lo abbiamo visto coi nostri occhi. Chi maltrattava un ostaggio dentro l’ospedale o sugli autobus rischiava una punizione severa. Ogni autobus aveva il suo comandante, il mio era Aslanbek junior. Fu molto chiaro, e come lui gli altri: i primi a mangiare e bere devono essere gli ostaggi, gli scudi umani seduti accanto al finestrino, poi mangiate e bevete voi. Le istruzioni erano chiarissime: era auspicabile avere ostaggi calmi, senza rischiare improvvise crisi isteriche con finestrini spaccati, tentativi di fuga e via dicendo. Per questo non ci furono sorprese, in quel senso. Ce ne fu un’altra. Quando ci siamo offerti come ostaggi, il governatore ci convocò, me e Kovalëv, e ci disse di andarcene subito dalla regione di Stavropol’. E perché? Noi ci offrivamo come ostaggi e loro ci cacciavano con i nostri amici ancora dentro l’ospedale? Sembrerà che scappiamo come conigli, ci siamo detti, e poi vallo a dimostrare che era stato il governatore a mandarci via! È stato tutto molto complicato. Il giorno seguente, con gli autobus pronti, quell’uomo lucidissimo che era Basaev disse: “I deputati che fine hanno fatto? Dove avete nascosto Kovalëv? I patti erano altri”. A quel punto furono le autorità a cercare quel Kovalëv che loro stessi avevano cacciato. Io e Sergej Adamovič andammo al cordone delle forze dell’ordine. Io scesi dall’auto e spiegai ai poliziotti che avevo con me Kovalëv. Quelli non capivano: “Kovalëv chi? Di cosa t’immischi?”. In quel momento accade una cosa terribile. Intorno al cordone la folla era impazzita, con i provocatori che, in più, la sobillavano. All’improvviso uno di questi gridò: “In quella macchina c’è Kovalëv. Lo sapete chi è? Un amico dei ceceni”. La folla corse verso l’auto e provò a rovesciarla. L’avrebbero ammazzato, sa? Avrebbero ammazzato chi aveva appena salvato le loro famiglie e i loro cari dentro l’ospedale. Io mi precipitai dal poliziotto e gli dissi: “È una tua responsabilità. Se ammazzano Kovalëv andrà tutto a rotoli”. A quel punto lui disperse la folla, credo che abbia persino sparato qualche colpo di pistola in aria. Dopodiché sono intervenute le forze speciali, hanno fatto scendere Kovalëv dall’auto e lo hanno portato via. E io sono rimasto solo. Passano cinque minuti e tornano le forze speciali: “Dov’è Orlov?” gridano. “Senza Orlov, Kovalëv non alza un dito!”. Mi presero e mi portarono via.
Se sente dire la parola “Nazran’”, a che pensa?
È una cittadina, quasi tutta di edifici a un piano. A Nazran’ avevamo un ufficio.
A novembre del 2007 lei fu prelevato insieme ad altre persone in un albergo di Nazran’. I rapitori vi bendarono e misero sacchetti in testa, minacciavano di fucilarvi. Che cosa provò quella volta?
In realtà non fu bendato nessuno, ma ci misero in testa sacchetti di plastica nera. Gli altri erano inviati del canale televisivo Ren Tv. Avevamo tutti un sacchetto in testa e le mani dietro la schiena, ma non legate. Eravamo tutti in pigiama. I giornalisti erano completamente disorientati, mentre io capivo più o meno che cosa stesse succedendo. Pensavo che non ci avrebbero ammazzati ma che ci avrebbero trattenuti a lungo in qualche scantinato, magari ci avrebbero anche picchiati. Non andò per niente così. Prima di tutto ci portarono in un campo da qualche parte. Ci buttarono fuori dalla macchina con il sacchetto in testa, questo perché avevano l’ordine di ammazzarci con il silenziatore: così dicevano scherzando quelli delle forze speciali che ci avevano rapiti. Mi sa che non avevo ancora fatto in tempo a spaventarmi, ma la sensazione era proprio spiacevole. Comunque durò pochissimo, perché si misero a picchiarci, o meglio ci prendevano a calci. Io ero steso, mi proteggevo la testa con le braccia, il sacchetto si sfilò. I giornalisti cercarono di reagire e presero parecchie botte. Io no: stavo steso e basta. Ci ordinarono di rimanere stesi per un quarto d’ora senza alzare la testa: “Se vi vediamo ancora in giro da queste parti (probabilmente volevano dire: in Inguscezia), scordatevene di uscirne vivi. E ve la sarete voluta”. Poi se ne andarono. I giornalisti non capivano nulla: chi fossero i rapitori, che scopi avessero, se fossimo ancora in pericolo o no. A quel punto iniziai a spiegare che ci avevano sì picchiati, spaventati e abbandonati in mezzo al nulla, ma che non ci avrebbero ammazzati. E che nessuno ci avrebbe rapito di nuovo. Dovevamo arrivare da qualche parte dove saremmo sopravvissuti. Iniziammo ad attraversare il campo innevato, dirigendoci verso certe luci in lontananza. Alcuni di noi stavano a piedi nudi o in ciabatte. Quando arrivammo alla strada principale passò una volante, i giornalisti si buttarono a terra nella neve. Li rassicurai: “Lo so che sono poliziotti, ma bisogna che ci aiutino. Non sono stati loro a rapirci, non c’è nulla da temere”. Poi arrivammo a casa di un poveraccio che era scappato dalla Cecenia, probabilmente faceva la guardia in un cantiere. Quell’uomo corse alla stazione di polizia più vicina.
Come interpreta l’episodio?
Volevano spaventarci. Era la vigilia di una grossa manifestazione per protestare contro i rapimenti, le torture e gli omicidi. La popolazione si trovava tra due fuochi: gruppuscoli sotterranei di terroristi spietati e forze di sicurezza che cercavano di contrastarli. Queste, per combattere il terrorismo, si erano messe a rapire la gente, che fosse colpevole o no, coinvolta o passasse di lì per caso. Le persone sparivano dalla circolazione, venivano torturate e così via. Le forze di sicurezza avevano il grilletto sempre più facile, e il malcontento stava esplodendo tra la popolazione. La gente voleva organizzare una grossa manifestazione contro questi soprusi e contro Zjazikov, allora presidente dell’Inguscezia. Io ero arrivato il giorno prima ed era arrivata anche una troupe di Ren Tv, che faceva un servizio sul caso di un bambino piccolo ucciso per caso da forze di sicurezza che avevano fatto irruzione nella casa sbagliata. Insomma, bisognava spaventare sia me, difensore dei diritti umani noto per aver parlato con la famiglia di Makšarin Aušev, capo dell’opposizione, sia quella troupe, che ficcava il naso dove non doveva; lo scopo era far sì che non partecipassimo a quella manifestazione.
Domani sarà pronunciata la sentenza nel suo caso. Che cosa si aspetta?
Una condanna. Non può essere nient’altro: solo una condanna. Mi piacerebbe molto cavarmela senza reclusione. C’è qualche speranza, ma è piccolissima. Il ricorso della pubblica accusa, che chiede una condanna a tre anni di reclusione, non regge per niente dal punto di vista legale. Qualsiasi addetto ai lavori che lo legga si metterebbe le mani nei capelli. Infatti è stata la stessa pubblica accusa, nel processo di primo grado, a non trovare aggravanti come l’odio politico o ideologico. Forse la pubblica accusa di Mosca non si arrischierà ad approvare un documento del genere, ma le speranze sono poche, perché chiaramente c’è dietro un ordine venuto dall’alto.
Si sente pronto ad affrontare un periodo di reclusione? Sempre che si possa essere pronti per una cosa simile.
Mi spieghi lei che cosa significa essere pronti ad affrontare un periodo di reclusione! Dietro le sbarre ci si può rendere conto: ecco, avrei dovuto metter su più muscoli, oppure dovevo andare da una psicologa. Ma ora come faccio a sapere se sono pronto o no?
Mi scusi per queste domande. Sarebbe bello che non fossero applicabili alla realtà di questo mondo. Ma comunque: che cosa porterà con sé?
Oggi io e mia moglie abbiamo la cosa seguente da fare. Prendere la borsa preparata per l’udienza precedente, in cui me la sono cavata senza reclusione, e controllare, rinnovare, stabilire che cosa può servirmi proprio adesso e cosa invece potrò ricevere con la corrispondenza. Certo, abbiamo un elenco di cose.
Si porta qualche libro?
Sì, il Codice di procedura penale e due libri di Faulkner.
Ah, è il mio scrittore preferito. Ha preso Il borgo?
Sì, Il borgo e Assalonne, Assalonne!.
Non ha pensato di scappare?
Ci ho pensato sì, c’è stato chi me ne ha parlato. Ma sa, dopo tutto il polverone sollevato dal processo penale non c’era tanta scelta. Avrei dovuto scappare come un ladro, violando la legge e l’obbligo di residenza, con il grosso rischio di farmi beccare? E il problema principale non sarebbe stato quello, ma il fatto che per loro sarebbe stato un colpaccio beccarmi mentre cercavo di scappare. Prima avevo scelta, sì. All’epoca avevo deciso di rispettare qualunque scelta. Non è che pensassi: è giusto fare così oppure cosà, tutti dovrebbero scappare oppure rimanere. Dipende dalle circostanze, da che cosa prova la persona nell’intimo, da dove potrebbe trovare lavoro. Quando ho fatto la mia scelta, penso di essere stato influenzato dal fatto che è difficilissimo trovarsi in un ambiente di lingua straniera, cambiare drasticamente tutto nella propria vita. Per di più non mi era molto chiaro come avrei potuto lavorare all’estero, dove le mie attività sono molto meno efficaci che qui. Almeno, per quel che mi sembra, dal 24 febbraio [2022, il giorno dell’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, NdR] ciò che ho fatto qui è stato piuttosto efficace.
All’inizio della nostra conversazione ha detto che tempo fa “il modo più breve per farsi arrestare”, senza risultati pratici, non le sembrava una tattica utile. Adesso ha cambiato idea?
Sì, ho cambiato idea. Penso che anche all’epoca, al contrario delle mie esperienze personali, la dissidenza abbia influenzato davvero la situazione, in maniera ben concreta. È stata proprio la dissidenza a dare un notevole contributo a ciò che è successo tra gli anni Ottanta e Novanta. Quindi adesso mi sembra importantissimo ripercorrere le loro azioni.
Se la condannano al carcere, quale sarà il risultato concreto? Lei finirà dietro le sbarre.
Be’, si può sfruttare anche una condanna nella propaganda. “Hai sentito? Uno è finito in carcere per qualcosa che ha detto e perché si oppone alla guerra in Ucraina”. Ci sono tonnellate di episodi così, sono una forma di testimonianza. Tutto ciò fa parte del mio lavoro.
Che consiglio darebbe a una persona contraria alla guerra ma che non se la sentisse di sfidare apertamente il potere né di andare in carcere?
Qualcosa bisogna pur fare. Si può parlare con amici e parenti, discutere della situazione. Con calma, senza alzare la voce né sbattere il pugno sul tavolo. Si può semplicemente riflettere insieme su ciò che succede, parlare con chi ha opinioni diverse e sostiene la guerra, magari solo in parte. Si possono fare un sacco di cose. Per dire, si possono appendere nastri verdi in segno di protesta contro la guerra. Ci sarà gente che li vedrà, gente per cui sarà un conforto o un segnale che non siamo soli. E poi bisogna essere pronti a scendere in strada quando ci sarà un’opportunità concreta, come fu nel 1991… Non incoraggio nessuno a scendere in strada adesso. Ma prima o poi si metterà per forza in moto il cambiamento, è inevitabile dopo la caduta di qualsiasi dittatore e la disgregazione dell’élite. A quel punto è importantissimo che la società si faccia avanti, che dimostri di esistere, perché le riforme appena avviate non si riducano a una pura operazione di facciata. In quella fase è importante essere pronti e far sentire la propria voce.
Che cosa la aiuta a resistere?
Il fatto che non sono solo. Probabilmente una frase così basta a esaurire la questione. Ed è sotto vari punti di vista che non sono solo. È una cosa che aiuta moltissimo a resistere.
Grazie. Spero proprio che ci vedremo presto.
Eh, Filipp, dico sul serio, lo voglio davvero sperare.
Grazie a Irina Ščerbakova per l’aiuto nella preparazione dell’intervista.
Revisione: Dmitrij Tkačev, Mika Golubovskij. Traduzione in italiano a cura di Memorial Italia.