(di Simone Zoppellaro; foto di Kyivcity.gov.ua, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons, con modifiche)
25 luglio 2024
alle 13:59
KYIV, 18 luglio 2024 – Continuano a suonare le sirene. Allarmi antiaerei. Ne conto sette in trentasei ore: il primo passando in treno per Leopoli arrivando dalla Polonia, gli altri nel centro di Kyiv, dove risediamo. Ma non ci sono solo gli allarmi consueti: suonano di continuo anche i cellulari, grazie ad app che si possono scaricare e che si attivano, per la città o regione selezionata, su indicazione della Protezione civile ucraina. Attorno a noi, gli ucraini sembrano non badarci: il primo allarme a Kyiv arriva mentre sto ultimando un articolo in un caffè. Nessuno batte ciglio, come se non esistesse. Eppure solo tre giorni prima, non lontano da qui, un missile russo ha colpito il più grande ospedale pediatrico del paese, facendo morti e feriti. E poi ci sono i blackout, prolungati e continui: in abitazioni private, negozi, hotel e ristoranti l’elettricità va e viene, con disagi e danni economici enormi per un Paese che sta già soffrendo, da due anni a questa parte, più di quanto sia lecito sopportare.
Non è un caso: come spiegano Claudia Bettiol e Francesco Brusa, i continui attacchi alle infrastrutture energetiche del Paese, sempre più frequenti, sono parte di una strategia russa che mira a piegare tanto l’economia che il morale della popolazione. Mancano i sistemi antimissilistici, d’altronde, che se forniti dai Paesi europei potrebbero in futuro contribuire a salvare moltissime vite.
In questo quadro, arrivo l’11 luglio a Kyiv – su invito dell’amica Giovanna Grenga – nel contesto dell’undicesima missione del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (MEAN), sigla che racchiude oltre una trentina di organizzazioni italiane accomunate da un sostegno fattivo all’Ucraina. Parto con alcune perplessità, che presto vanno scemando: certo, la compagine si presenta varia e a tratti contraddittoria, ma la solidarietà concreta che ho visto all’opera, lontana dai vacui compiacimenti di tanto pacifismo nostrano, non può che destare ammirazione.
Le figure tutelari che ricorrono di più nelle parole dei partecipanti sono quelle di Alexander Langer, Giorgio La Pira e Tonino Bello – e non è difficile intravedere, in filigrana, la Marcia dei 500 del 1992 nella Sarajevo sotto assedio come ispirazione dell’iniziativa odierna. Che – ed è ciò che più conta – ha già portato buoni frutti: donazioni per gli ospedali (anche quello colpito, cui il MEAN aveva donato lo scorso anno un pulmino), scuole, raccolte di beni, progetti di economia verde, supporto alla società civile ucraina.
Con una presenza prevalente di cattolici di diversa estrazione, ma anche con laici, ebrei e libertari, partendo dalle origini geografiche più varie e comprendo diverse generazioni, il MEAN – come afferma l’amico Joshua Evangelista, anche lui dei nostri – riesce a far tesoro, paradossalmente, di un vulnus tutto italico: l’incapacità di elaborare, se non in termini narcisistici o nichilisti, una reazione comune, a partire dalla società civile, a questa guerra che ha cambiato per sempre il volto del nostro continente.
Senza gerarchie interne o veti, scevro di imposizioni o dogmi, il MEAN – anche grazie alle notevoli capacità del suo portavoce, Angelo Moretti – riesce così nel piccolo miracolo di tenere insieme scout e giornalisti, accademici e sindacalisti, sacerdoti e psichiatri, membri dell’Azione Cattolica e rappresentanti di organizzazioni laiche come la Fondazione GARIWO. Tutti legati dal bisogno e dalla voglia di fare qualcosa di concreto per l’Ucraina, di provare (anche fallendo) a dare un piccolo contributo alla pace, non di starsene in pace.
Se al centro della prima giornata è una preghiera ecumenica – cui si è liberi di non partecipare – a piazza Sofia, dove intervengono cristiani di diverse confessioni, musulmani e ebrei, in collegamento con 24 città italiane, la seconda è invece scandita da tavoli di lavoro dove agli oltre settanta partecipanti arrivati dall’Italia si affiancano figure di rilievo della società civile ucraina. Un work in progress che parte e non si ferma a Kyiv, e che a obiettivi umanitari più immediati coniuga strategie di ampio respiro come un rilancio dei Corpi Civili di Pace Europei. Un’idea, quella avanzata dal politico e attivista sudtirolese Alexander Langer nel contesto delle guerre balcaniche, che integra e non sostituisce (ieri come oggi) un supporto militare a un paese vittima di aggressione.
Dalla voce di Serhii Černov, presidente del Congresso dell’Autogoverno in Ucraina, originario di Charkiv, apprendiamo come una delle priorità assolute – partendo proprio dalla tragica esperienza della sua città – sia quella del supporto psicologico a una popolazione stremata dalle violenze. Un problema, afferma, che durerà ben oltre il conflitto, anche qualora dovesse – ed è improbabile, purtroppo – concludersi a breve. Ne parlo anche con Francesco Colizzi, psichiatra e psicoterapeuta, già direttore del Centro di Salute Mentale di Brindisi, che è parte del nostro gruppo insieme alla figlia Ivana, sua collega, che confermano quanto sia prioritario questo punto, e quanto ci sia da fare anche per formare del personale medico locale che possa ovviare, almeno in parte, a tale sofferenza. Anche in questo, con l’impegno del MEAN, sarà fondamentale intervenire con un impegno qualificato dall’Italia e, se possibile, dall’Europa.
La scena più spaventosa ce la troviamo davanti all’inizio del viaggio: un ospedale pediatrico abbattuto da un missile russo nel centro di Kyiv. Macerie, giocattoli, lettini e barelle che, nella polvere, sono ineffabile testimonianza di uno dei più gravi crimini che un uomo possa compiere. Il tutto mentre in Russia, per l’8 luglio, si festeggiano i santi Pietro e Fevronia, patroni del matrimonio, dell’amore e della famiglia.
“I medici hanno salvato tutti i bambini, facendo anche da scudi umani per proteggerli”, ci ha raccontato Sergii Černyšuk, direttore sanitario dell’ospedale, “soprattutto dopo che un secondo missile è precipitato su un edificio più recente, inaugurato solo due anni fa. Persino i medici feriti si sono precipitati per salvare i bambini”. Tra i morti, c’è anche una dottoressa. Nel viso stravolto e insieme determinato del giovane dottore si legge il coraggio di una nazione che, neppure di fronte a un simile orrore, è disposta a arrendersi.
Incontriamo all’hotel Ucraina, elegante edificio sovietico in pieno centro a Kyiv, la poetessa Oksana Stomina, tradotta in italiano da Andrea Garbin e da Marina Sorina, che è parte del nostro gruppo e fa da interprete per l’occasione. Originaria di Mariupol’, l’autrice ci racconta in tutta la sua crudezza il dramma della sua città, protagonista di un’eroica quanto sanguinosa resistenza all’invasione russa. “Tutte le notizie che vi arrivano filtrate dai mass media” riferisce “potete tranquillamente moltiplicarle per dieci; nel caso di Mariupol’, anche per cento, per avere un quadro”.
Tanti i racconti terribili che ci delinea, che riguardano anche la sua famiglia. La nonna di sua cognata bruciata viva di fronte a sua figlia, nella sua casa; i soldati ceceni che, a un posto di blocco, prendevano il mitra e facevano come un arco in aria, sparando e ridendo, per vedere chi verrà colpito. Una scena a cui Oksana ha assistito chiusa nella propria macchina.
“Che cosa hanno portato i russi nella città appena occupata? Due cose: megaschermi su delle piattaforme – il tutto mentre la gente era affamata e senz’acqua. E la seconda era forni crematori mobili su ruote. Da un lato loro passavano raccogliendo i cadaveri e facendoli scomparire senza alcuna documentazione, e dall’altro c’era un bello schermo dove si proiettavano i video roboanti della propaganda russa arrivata lì a “liberare” la popolazione di Mariupol'”.
A Kyiv c’è anche una delle più grandi fotografe russe, Victoria Ivleva, che dopo l’aggressione del 2022 ha deciso che non poteva più vivere a sotto il regime di Putin. La incontriamo in un caffè dove tutti la conoscono. Ha una voce e un corpicino esili come quelli di un canarino e, insieme, una forza interiore che ti inchioda subito, mettendoti in soggezione. Dopo aver testimoniato con il suo lavoro il disastro di Čornobyl’ e il genocidio del Ruanda, spingendosi all’estremo e rischiando più volte la vita, avrebbe potuto dire – a se stessa e al mondo – che arrivata oggi quasi a settant’anni semplicemente le mancavano le forze per un’ulteriore battaglia, forse impossibile.
No, invece. Victoria ha un moto d’orgoglio e decide che non può lasciar passare: non può assistere impotente allo scempio dell’Ucraina compiuto dalla sua stessa gente. E questo ben prima del 2022: protesta per il rilascio del regista ucraino Oleg Sentsov, arrestato nel 2014. Passa un anno davanti agli edifici dell’amministrazione presidenziale per chiedere uno scambio di prigionieri. E quando nel 2018 dei marinai ucraini vengono arrestati, per i nove mesi in cui rimangono nella prigione di Lefortovo a Mosca, porta loro dei cibo due volte al mese: quindici chili di alimenti a ciascuno di loro.
Non solo: Victoria viene detenuta e multata per aver protestato, sola contro tutti, a sostegno dell’organizzazione per i diritti umani Memorial, a piazza Puškin a Mosca. Questo nel 2021. “Menzogne, tutto quello che il nostro governo ci racconta sono menzogne”, ci spiega Victoria a Kyiv; che, come i Giusti del passato, è qui a testimoniare che la pietà non è morta, che un riscatto è sempre possibile, per ogni individuo, anche quando una nazione si è macchiata dei più orrendi crimini.
Potenti sono anche le parole di Iryna Govorukha, romanziera ucraina di Kyiv che, dopo il 2022, ha deciso di abbandonare la lingua russa che l’aveva consacrata al successo sia in patria che in Russia. Ci racconta:
“La guerra è un inferno. È un gigantesco dolore, disperazione, paura. Ogni ucraino ha la sua guerra e il suo dramma insopportabile. Mia figlia di sei anni”, aggiunge Iryna, “urla quando sente il suono di un allarme antiaereo. Non entra più nei grandi magazzini perché teme di non avere il tempo di uscirne”.
A mezzanotte, come sempre, arriva il coprifuoco. I locali iniziano a chiudere ancor prima, le luci a spegnersi, le auto a farsi più rade. Alcune decine di ragazze e ragazzi si radunano al buio a Majdan Nezaležnosti, la celebre piazza al centro della Rivoluzione del 2014. Uno di loro ha una chitarra, un microfono e un piccolo amplificatore: improvvisa un concerto, mentre suona la sirena. Alcuni si siedono a terra, altri ballano sparsi in piccoli gruppi ai piedi della piazza. Fra le canzoni, anche una versione ucraina di Bella ciao.
E, mi capita di pensare, non può che passare per Kyiv chi voglia sapere che cosa sono davvero coraggio e bellezza.