(Oleg Orlov. Foto: Aleksandra Astachova / Mediazona)
(Intervista a cura di Kristina Safonova – Redazione di Julija Leonkina – Traduzione a cura di Memorial Italia)
6 agosto 2024
alle 12:09
Orlov, nato nel 1953 e di formazione biologo, è uno dei più autorevoli attivisti per i diritti umani in Russia ed è stato uno dei cofondatori di Memorial alla fine degli anni Ottanta. Era stato condannato il 27 febbraio di quest’anno a 2 anni e mezzo di reclusione in una colonia penale per aver pubblicato nel novembre 2022 un articolo contro la guerra di aggressione russa contro l’Ucraina, in cui sosteneva che la Russia è oggi governata da un regime di tipo fascista (formalmente, in base all’articolo 280.3 del Codice penale della Federazione Russa che punisce il “vilipendio reiterato delle Forze armate”). Poco prima, il 2 febbraio, Orlov era stato inserito nell’elenco degli “agenti stranieri” da parte del Ministero della giustizia russo. Durante la sua prigionia, nel marzo di quest’anno l’amministrazione penitenziaria, seguendo una prassi divenuta comune per tutti i prigionieri, aveva proposto al settantunenne Orlov di firmare un documento in cui accettava di essere mandato a combattere al fronte in Ucraina.

“Da quanto tempo non camminavo sotto la pioggia”, dice l’attivista per i diritti umani e cofondatore di Memorial Oleg Orlov, alzando gli occhi al cielo. L’acquazzone è iniziato pochi minuti dopo che Orlov ha varcato l’uscita dell’ospedale militare della città tedesca di Coblenza, dove è stato portato la notte del primo agosto insieme alle altre persone rilasciate dalle colonie penali e dai centri di detenzione russi. Orlov ha in spalla un grande zaino strappato e rattoppato alla meno peggio. Contiene quanto ha preso con sé dal carcere di Syzran’, dove era detenuto dall’aprile scorso. Alla fine di luglio il personale del carcere gli aveva detto che lo attendeva un trasferimento.
“Passerà di sicuro”, così recita la scritta bianca sul braccialetto nero di Orlov, che ha detto di averlo indossato anche in prigione. Quel verso di una canzone del gruppo Pornofil’my lo ha aiutato ad andare avanti, ha raccontato a Meduza.

Kristina Safonova: Come è iniziato, tutto quanto?
Oleg Orlov: Il 23 luglio si sono presentati nella mia cella alcuni funzionari del carcere di Syzran’. “Per favore, venga, andiamo a parlare” hanno detto, stranamente. Per favore. Un modo del tutto inconsueto di rivolgersi a me. Siamo andati in un ufficio, dove altrettanto stranamente il direttore mi ha stretto la mano. A un prigioniero? Non si era mai visto. “Oleg Petrovič…” esordisce. Attenzione: non “Orlov”, ma Oleg Petrovič! “Di lei sappiamo molte cose” ha continuato. “E avremmo una proposta”. “Non ci credo” ho pensato lì per lì, “Incredibile, hanno deciso di reclutarmi. Ma gli ha dato di volta il cervello?”. Mi allungano un formulario, il solito – cognome, nome, patronimico, dove ho vissuto, articolo della condanna, onorificenze e via dicendo – e un foglio bianco. “Per favore, scriva una domanda di grazia in forma libera al presidente”. “Cosa le fa credere che voglia scriverla?” ribatto io. Mi dicono di pensarci su: “Non la si offre a chiunque, questa possibilità. Qui da noi, a lei soltanto. E, detto tra noi, l’idea viene da Mosca”. Francamente, ero sbalestrato. Non me l’aspettavo. Ho compilato il modulo, ma mi sono rifiutato di chiedere la grazia. Mi hanno riportato in cella: “Ha 20 minuti per cambiare idea”.
K. S.: Era da solo in cella?
O. O.: No, con un altro compagno. Due soltanto, detenuti speciali. Sono tornati dopo venti minuti e ho mostrato loro il foglio bianco: “Non scriverò nessuna domanda di grazia”. Dieci minuti dopo la porta si è riaperta: “Venga, parliamo”. Erano in tre: “Perché non vuole?” insistevano. “Intende scontare tutta la pena?”.
K. S.: Cos’ha risposto?
O. O.: Che era ovvio. Non ritenendomi colpevole, essendo stato incarcerato per avere esercitato il mio sacrosanto e legale diritto alla libertà di parola, perché avrei dovuto chiedere la grazia al presidente? E ho anche aggiunto: “Lo capite, no, che fra qualche tempo verrò riabilitato?”. Il più giovane, che era in piedi accanto alla finestra, è scoppiato a ridere: “Beato lei che ci crede! Alle favole sulla libertà di parola, e la sua futura riabilitazione, dico”. Ho risposto che sì, ci credevo eccome, e che la libertà di parola è un diritto. Lì è intervenuto il direttore, che ha chiesto agli altri di uscire. Quando siamo rimasti soli, abbiamo parlato a cuore aperto della libertà di parola, della Costituzione, dei diritti umani da difendere. Di quello che facevo quando ero un uomo libero. Della Commissione civile per i diritti umani che tiene d’occhio i luoghi di detenzione.
K. S.: Come ha reagito alle sue parole? Ha obiettato, come il giovane agente?
O. O.: Perché avrebbe dovuto? Ha ascoltato. È il suo lavoro: deve ascoltarmi per ottenere informazioni. Ci siamo fatti una bella chiacchierata. Abbiamo parlato delle condizioni del carcere, ed è stato importante e utile, per lui. Alla fine mi ha detto: “Ha fatto la sua scelta, torni in cella”. Ho pensato che fosse finita lì. Mi ero rifiutato, basta. Passa il tempo, e una mattina presto la cella si apre scatenacciando, svegliandomi. Entrano molti secondini e ci dicono, a me e al mio compagno di cella Taras, che ci spostano altrove. Abbiamo cinque minuti per prepararci. Perché tanta fretta? Arrotolo il materasso. Metto nella borsa tutto quello che posso: il caffè fa comodo e il tè pure, dunque raccolgo su tutto.
Mi portano fuori dal braccio speciale. Mi dicono di posare il materasso. E lì capisco tutto: non mi trasferiscono in un’altra cella, ma altrove. “Dove, però?” mi chiedo. “Non ho ancora ‘il foglio’, la decisione del tribunale non è ancora arrivata. E senza non ti possono trasferire!”. Invece mi portano nella stanza delle perquisizioni, all’uscita. Niente, mi trasferiscono. Lì mi dicono che posso portare solo lo zaino o una borsa: trenta chili massimo. “Andiamo in aereo?”. “No, ti trasferiamo”. “In colonia?”. “Sì”. Ho preso un bel po’ di roba, ho riempito lo zaino. Quando sono salito sul cellulare, ho visto che ero l’unico. “Ma dove stiamo andando?” ho chiesto alle guardie. “A Samara o in una colonia penale?”. Perché, se stavamo andando a Samara, ho pensato, significava che mentre ero in prigione qualcuno aveva fatto la spia e mi avevano aggiunto qualcos’altro: “giustificazione del terrorismo”, magari. Non mi rispondono. Il viaggio continua per un po’. Non stiamo andando a Samara. Quando arriviamo, la portiera si apre, scendo e rimango senza parole. Ho davanti un edificio che sembra un aeroporto.
K.S.: Era ammanettato?
O. O.: Di solito sul cellulare te le mettono sempre, le manette. Questa volta no. Sono arrivati in quattro, mi hanno circondato e mi hanno portato via. “Dove siamo?” ho chiesto. “In aeroporto. Si parte” – hanno risposto. Ho pensato che mi portassero a Krasnojarsk. “Più vicino” mi hanno detto loro “e meno esotico”. Allora ho pensato a Mosca. Solo in quel momento ho davvero cominciato a pensare a cosa c’era dietro quel volo. O uno scambio – ma non ci ho creduto fino all’ultimo – o, più probabilmente, un nuovo processo penale. Arriviamo a Šeremet’evo. Altro cellulare. Scendo, non capisco dove sono, mi guardo intorno. “Guarda davanti! Svelto!”. “Lefortovo?” chiedo. “Bravo!” rispondono. Va bene, mi sono detto, ho capito… Quarantena! Si ricomincia.
Non ero mai stato a Lefortovo. E come hanno detto tutti i miei compagni di scambio, è stato un po’ uno shock. Una scatola di pietra. Senza le nostre cose, soli, niente interrogatori. Solo lo sportellino per il cibo, nella porta, che aprivano ogni tanto per passarci qualcosa da mangiare. Cinque giorni così. Onestamente, pensavo che non avrei retto. Che mi avrebbero di nuovo offerto di chiedere la grazia o, in alternativa, avrebbero aperto un nuovo procedimento penale. Se avessi firmato la grazia, forse mi sarebbe toccato uno scambio, o forse no, mi avrebbero ingannato e basta. Comunque non l’avrei mai chiesta, la grazia.
A un certo punto la porta della cella si apre, entra un uomo e mi mostra un foglio: “Questo è il foglio di scarcerazione: è stato graziato per decreto presidenziale”. Ero sorpreso: “Ma io non ho chiesto nulla!” dico. E lui: “Non sono affari nostri, firmi qui”. Rifiuto. Mi promette una copia del foglio. Falso: nessuno di noi l’ha avuta. Poi mi dicono di preparare le mie cose e di indossare abiti civili: avevo quelli di Lefortovo, una specie di tuta. Esco e mi trovo davanti le truppe speciali. Niente, ancora non capisco dove mi stanno portando. Solo quando vedo l’autobus capisco che si tratta di uno scambio. Salgo su e ci trovo Andrej Pivovarov e Saša Skočilenko: stringo la mano a entrambi. Gli agenti strillano di mettermi seduto, ma a quel punto, francamente, li ho mandati a quel paese! Poi arriva un tizio, dice di essere dell’FSB e ci spiega che ci stanno portando via per uno scambio di prigionieri. Strada facendo ci siamo chiesti chi avrebbe fatto parte del gruppo e chi no. Il nome che facevamo tutti era lo stesso: Aleksej Gorinov. Dov’è Gorinov? Gorinov non c’è.
K. S.: Si è chiesto perché hanno scelto proprio lei?
O. O.: È una domanda che mi faccio ancora. E non solo io. Non lo capiamo. Perché io? Di Aleksej Gorinov si è parlato all’infinito, si è sempre detto che il candidato numero uno per un eventuale scambio era lui, e invece hanno preso me. Che, rispetto agli altri, ho una pena minima. Una condanna “da lattante”, con solo altri due anni da scontare.
K. S.: Sua moglie Tat’jana Ivanovna ci ha detto che prima dell’apertura del procedimento penale avevate preso in considerazione l’eventualità di lasciare la Russia, decidendo però di restare, nonostante i rischi. Alla conferenza stampa di ieri, Il’ja Jašin ha esplicitamente definito quanto accaduto non uno scambio, ma un’espulsione. Lei cosa ne pensa?
O. O.: Io voglio stare in Russia. E sì, la nostra è sicuramente un’espulsione. Le sensazioni che provo sono doppie. Non mento se dico che oggi, camminando sul prato verde dell’ospedale, guardando il sole, non era felicità quella che sentivo. Eppure è fantastico avere sopra il cielo! Erano mesi che non lo vedevo.
K. S.: Il cortile per l’ora d’aria era coperto?
O. O.: Sì, e avere il cielo sopra la testa è una benedizione.
Ma la domanda è inevitabile: “Perché io? Perché non qualcun altro?”. Se mi avessero spiegato, se avessi saputo che avrebbero scambiato un numero così esiguo di persone e che tra loro non figuravano quelli che io ritengo necessari, avrei rifiutato. Però nessuno me l’ha chiesto. Nessuno mi ha chiesto nulla.
K. S.: e hanno restituito altri documenti, oltre al passaporto russo?
O. O.: Solo il passaporto. Sull’aereo gli ufficiali dell’FSB ci hanno detto che, poi, avremmo avuto anche i documenti del rilascio, ma così non è stato. Mentono sempre, ingannano sempre.
K. S.: Capisco che siete liberi da poco tempo. Ma ha già pensato a cosa farà?
O. O.: Non il pensionato ozioso, poco ma sicuro. Continuerò a fare quello che ho fatto finora. Come e dove, staremo a vedere. Lo decideremo. Ma, naturalmente, non abbandonerò quello che facevo.
K. S.: Un’altra domanda piacevole. Quando ha parlato per la prima volta con sua moglie, dopo il rilascio?
O. O.: Ad Ankara. Quando siamo arrivati ci hanno dato un telefono, l’ho chiamata e le ho detto che ero ad Ankara e che mi stavano portando altrove.
K. S.: Cosa le ha risposto?
O. O.: Ha detto: “Accidenti, quanto dovevo ancora aspettare! Ero così preoccupata!”.
K. S.: Vi vedrete presto?
O. O.: Lo spero.
K. S.: Lo spero anch’io. Mi ha detto quante cose fate insieme. Mi prometta che alla prima occasione andrà in palestra, a fare qualche gita e anche a pescare!
O. O.: Andrò in palestra, a fare gite e a pescare: lo prometto! La domanda, però, è: che tipo di pesca fanno, qui in Europa? Perché la vera pesca è quella del nostro Nord russo… Davvero, vorrei tanto tornare a pescare in Russia, al Nord. Perché qui la pesca seria non sanno cos’è.

