Le torture subite nelle prigioni russe, raccontate dall’anarchico Ruslan Sidiki

Conferma il suo coinvolgimento in azioni per danneggiare le infrastrutture militari, alla base aerea militare di Djagilevo e ai binari ferroviari nella regione di Rjazan’, ma altre confessioni gli sono state estorte in carcere.

(immagine di engin akyurt su Unsplash)


(di Pavel Vasil’ev, traduzione a cura di Memorial Italia)



15 ottobre 2024 
ore 08:17


L’anarchico Ruslan Sidiki è accusato di aver attaccato la base aerea militare di Djagilevo e di aver fatto deragliare un treno merci nella regione di Rjazan’. Sidiki non nega il suo coinvolgimento negli attentati e afferma che il suo obiettivo era danneggiare l’infrastruttura militare; altre confessioni, però, gli sarebbero state estorte con la tortura. L’anarchico ha riferito di essere stato picchiato e torturato con scosse elettriche dopo l’arresto, e di avere ricevuto minacce come “ti scuoiamo i genitali” e “ti violentiamo con vari oggetti”. Alla fine della scorsa settimana ha presentato una denuncia al Comitato investigativo per le torture subite. “Mediazona” pubblica integralmente la testimonianza di Ruslan Sidiki su quel che gli è successo dopo l’arresto.


Il 20 luglio 2023 la base aerea militare di Djagilevo a Rjazan’ è stata attaccata da droni. Le autorità hanno riferito che l’esplosione aveva formato una voragine, ma gli aerei non avevano subito danni. Alcuni mesi dopo, nella regione di Rjazan un’altra esplosione sulla linea ferroviaria hacausato il deragliamento di 19 vagoni di un treno merci. Secondo gli inquirenti, entrambe le azioni di sabotaggio sono opera dell’anarchico Ruslan Sidiki. Le forze di sicurezza hanno riferito del suo arresto il 1° dicembre.


Sidiki ha 36 anni e ha la doppia cittadinanza: russa e italiana. Ha trascorso l’infanzia in Europa con la madre e il patrigno; successivamente si è trasferito a Rjazan’, dove dal 2010 ha lavorato come elettricista. D’estate, da “survivalista” qual è, Sidiki lasciava spesso il lavoro per viaggiare in bicicletta o in autostop. I conoscenti lo ricordano per le frequenti incursioni nell’area di Chernobyl e lo definiscono un “grande anarchico consapevole” della comune agricola “Via nuova” nella regione di Leningrado.


L’accusa ritiene che nel febbraio 2023 Sidiki sia stato reclutato a Istanbul da agenti dell’intelligence militare ucraina, che abbia “ricevuto un addestramento per sabotaggi in Lettonia” e a marzo sia tornato a Rjazan’, dove ha pianificato l’attacco coi droni contro la base aerea e l’attentato sui binari ferroviari. Ha cinque capi d’accusa ai sensi del Codice penale, principalmente legati al terrorismo.


Ruslan Sidiki si assume la responsabilità delle esplosioni, ma rifiuta categoricamente di definirle “attacchi terroristici”. Sottolinea che il suo obiettivo era danneggiare obiettivi militari, ma non causare danni alle persone: “Era importante per me evitare vittime tra la popolazione civile, poiché il mio obiettivo sin dall’inizio era quello di danneggiare un’infrastruttura militare, ovvero un treno che trasportava materiale bellico”.


Sidiki insiste: sebbene abbia avuto contatti con rappresentanti dell’intelligence ucraina in un paio di occasioni, ha pianificato le sue azioni da solo. Inoltre, non ha ricevuto alcun addestramento, poiché da tempo era in grado di assemblare droni e fabbricare esplosivi da solo.


Pur non negando il suo coinvolgimento nell’attacco a Djagilevo e al treno merci, Sidiki sottolinea di non aver pianificato nuovi attentati. Le confessioni gli sono state estorte sotto tortura.


Dopo l’arresto, l’anarchico è stato picchiato e torturato con taser e scariche elettriche di un telefono da campo. L’hanno minacciato di “scuoiargli i genitali” con le pinze e di violentarlo con “vari oggetti”. Alla fine della scorsa settimana l’attivista ha presentato una denuncia per torture al capo del Comitato investigativo Aleksander Bastrykin. “Mediazona” pubblica integralmente il racconto di Ruslan Sidiki sulle torture subite durante la detenzione.




“Dopo alcune scosse elettriche, la mia mente si è offuscata, il dolore è insopportabile”.


Era la fine di novembre del 2023 e stavo tornando a casa quando, vicino al mio ingresso, un agente di polizia mi ha fermato e mi ha mostrato una mia foto, proveniente, così disse, da una telecamera di sorveglianza situata a pochi chilometri dal luogo dell’esplosione del treno (km 190, picchetto 8 della terza linea principale del tratto tra le stazioni di Rybnoe e il punto di controllo al km 204).


L’agente mi ha ordinato di accompagnarlo alla stazione di polizia n. 4 del quartiere Priokskij di Rjazan’ per fornire spiegazioni riguardo a cosa stessi facendo nella zona dell’esplosione sulla linea ferroviaria.


All’arrivo, mi hanno sequestrato il telefono e i documenti. Poi è arrivato un gruppo di persone in borghese. Mi hanno condotto in una stanza di cui non ricordo il numero (dall’ingresso si gira due volte a destra). In quella stanza, un uomo, apparentemente sulla cinquantina, in borghese, ha cominciato a dire che, se non confessavo spontaneamente di aver compiuto l’attentato, mi avrebbero portato fuori città e avrebbero inscenato un tentativo di fuga, così da avere una giustificazione legale per spararmi. Prima, però, mi avrebbero torturato.


Ho accettato di collaborare e di testimoniare, e subito mi è stato chiesto se avessi malattie croniche. Al mio no, uno di loro mi ha colpito alla testa e sono caduto a terra. 


Nella stanza c’erano almeno sei persone. Mentre ero a terra, mi hanno bloccato mani e piedi per impedirmi di muoverli, anche se non opponevo alcuna resistenza. Mi hanno denudato le caviglie e ho sentito che ci legavano qualcosa. All’inizio ho pensato che fossero manette, ma poi uno di loro ha detto a un altro: “Telefona!”.


Subito una scarica elettrica percorse il mio corpo, facendomi contrarre i muscoli fino a un dolore insopportabile. E mentre io urlavo e sbattevo la testa contro il pavimento, uno di loro davanti a me mi filmava col telefono. 


Poiché urlavo, mi hanno messo uno straccio in bocca. A sensazione, la scarica di quel loro apparecchio di tortura era paragonabile a quella di una presa da 220 volt: faccio l’elettricista, mi è capitato di prendere delle scosse e posso confrontarne l’effetto. 


Non posso dire con precisione quanto tempo siano durate le torture, perché dopo alcune scariche, la mia mente si è offuscata, ma posso senz’altro dire che il dolore era insopportabile.


Tra una scarica e l’altra, persone che non si sono identificate mi facevano delle domande, e quando la mia risposta non li soddisfaceva, le scariche riprendevano. Ad esempio, mi hanno chiesto cosa facessi in Turchia nell’agosto 2023. Ho risposto che ci ero in transito per andare a trovare mia madre in Gran Bretagna. Loro, invece, sostenevano che mi ero incontrato con agenti dell’intelligence ucraina o britannica, e perciò hanno continuato a torturarmi.


Mi hanno anche chiesto se stessi pianificando un’altra esplosione, e quando ho risposto di no, hanno continuato a torturarmi. Ero ormai al limite, e ho capito che per fermarli dovevo dire almeno qualcosa, dunque ho risposto che forse tra un paio di mesi l’avrei rifatto, ma la mia risposta non è stata di loro gradimento e hanno continuato a torturarmi e a urlare per farmi dire la data e il luogo. Ho indicato una data a caso, se non sbaglio, gennaio o febbraio 2024, e anche un posto nei dintorni di Rjazan’ dove non ero mai stato prima. 


Dopo di che le torture con quel dispositivo sono cessate. Ho potuto identificarlo grazie a elementi circostanziali, e credo che fosse un telefono da campo TA-57 o TP-57. L’ho capito anche grazie ai dialoghi tra quelle persone. All’inizio delle torture, uno di loro ha detto all’altro: “Telefona!” e ha poi ripetuto periodicamente questo comando. Inoltre, dava ordini del tipo: “Gira più lentamente” o “Gira più velocemente”.


Poiché colleziono oggetti di difesa civile d’epoca sovietica, avevo già trovato quel dispositivo in passato e una volta, mentre ne controllavo il funzionamento, mi sono accidentalmente dato la scossa, e siccome bisogna girare una piccola manopola, sono sicuro che per le torture utilizzassero un telefono da campo. 


Dopo le torture con il telefono da campo, quelle persone mi hanno messo un sacchetto in testa con un piccolo foro, mi hanno ammanettato le mani dietro la schiena e mi hanno sollevato per le manette. A quel punto le gambe non mi obbedivano più, penzolavano e basta, mentre le manette mi si sono conficcate nella pelle: mi tenevano con quelle, appeso, di fatto.


Oltre a ciò, chi mi torturava esercitava una pressione morale, minacciando di scuoiarmi i genitali con le pinze, e altre fantasie come lo stupro con vari oggetti.


A quel modo, tenendomi per i polsi, mi hanno trascinato in una macchina bianca, una UAZ “Patriot”, riverso sul pianale tra i sedili anteriori e posteriori. Mentre ero schiacciato a quel modo, alcuni individui mascherati seduti sul sedile posteriore hanno iniziato a picchiarmi. Mi pestavano i polpacci coi piedi e mi picchiavano sulla schiena nella zona della colonna vertebrale, dei reni e delle costole. A un certo punto, a causa dei colpi facevo fatica a respirare, anche perché avevo la busta sulla testa, ma tutte le mie richieste di toglierla venivano ignorate.


Siamo arrivati nel luogo del mio nascondiglio. Gliel’ho mostrato, hanno ricominciato a picchiarmi e mi hanno colpito più volte all’addome. Quando sono caduto, hanno iniziato a trascinarmi per le manette, che mi tagliavano le mani, incidendo la pelle e rendendo i polsi insensibili. In quel momento mi è caduto l’orologio, e uno dei picchiatori se l’è intascato.


Dopo il pestaggio in strada, sono stato messo di nuovo nella stessa posizione in macchina, hanno continuato a guidare e mi hanno picchiato fino al mattino, quando mi hanno caricato nel bagagliaio e portato in un comando vicino alla stazione ferroviaria di Rjazan’-2, dove sono rimasto fino a tarda sera, rilasciando testimonianze. Sono stato più di un giorno senza dormire, senza cibo né acqua, con dolori in tutto il corpo e facendo fatica a respirare.


Durante l’interrogatorio nell’ufficio dell’investigatore ero seduto accanto alle persone che mi avevano picchiato; quindi, per ovvie ragioni, non potevo dire di aver subito pressioni anche se era evidente dal mio aspetto.


Lì, prima dell’interrogatorio, sono stato anche sottoposto a pressioni psicologiche con minacce di spararmi alle dita e così via. Sempre lì, le persone che mi avevano torturato e picchiato hanno girato un video della mia “detenzione” nell’area dei garage e uno della mia “confessione” nello stesso comando.


Voglio anche aggiungere che, durante tutte le torture con scosse elettriche e le percosse le persone che mi torturavano e picchiavano insistevano nel chiedermi di rivelare i nomi dei miei “complici”, che in realtà non esistono. Ma siccome la risposta non li soddisfaceva e non credevano che fossi in grado di agire da solo, ogni volta che rispondevo che non esistevano complici, ricevevo o una scossa elettrica, o un colpo alla testa.


Dopo aver testimoniato, era già notte mi portarono in un centro di detenzione temporaneo. Lì riuscii a dormire un po’, dopo quasi un’intera giornata di torture e percosse ininterrotte dal momento dell’arresto. La mattina seguente vennero a prendermi: l’investigatore Osipov, l’avvocato d’ufficio e persone con il volto coperto.


Mi misero in una macchina in cui c’erano solo persone mascherate, credo che non fosse un caso, mentre l’investigatore e l’avvocato andarono in un’altra macchina. Mi volevano portare nei luoghi dei nascondigli e degli atti di sabotaggio. Appena usciti dal centro di detenzione, le persone mascherate iniziarono subito a picchiarmi sulla testa, sul petto e sull’addome.


Quelle persone avevano anche un taser a forma di manganello, e mi colpirono tutto il tempo con scariche elettriche, finché la carica non si esaurì. Il taser lascia segni di ustioni sul corpo e brucia anche i vestiti. Mi hanno colpito nella zona del braccio destro, dei glutei e della schiena. Quando la carica del taser si è esaurita, la persona mascherata che mi stava colpendo ha chiamato qualcuno per farsene portare un altro carico, ma sono stato salvato dal fatto che quella persona o se ne è dimenticata, o non è riuscita a trovarne uno.


Sono sicuro che le torture non fossero un’iniziativa delle persone mascherate perché, dopo i pestaggi avevo un occhio nero e altri segni evidenti sul viso, ma chi viaggiava nell’altra macchina, inclusi l’investigatore e l’avvocato, era a conoscenza dell’accaduto e ignorò consapevolmente i segni delle percosse e delle torture subite durante lo svolgimento degli atti investigativi da loro coordinati.


Quella sera mi riportarono di nuovo al centro di detenzione temporanea, dove il personale fece alcune annotazioni durante la visita corporale al momento del mio ingresso. Prima di portarmi in cella, una persona col volto coperto mi chiese da dove provenissero le ferite sul mio viso; quando gli risposi che era stato lui a causarle, mi colpì alla testa dicendo di non dirlo mai più. Poi mi chiese nuovamente da dove provenissero le ferite, e questa volta risposi che avevo sbattuto da qualche parte. 


Tutto questo mi ha fatto capire che i rappresentanti delle “forze dell’ordine” possono torturare le persone impunemente e che qualsiasi dichiarazione o denuncia avrebbe portato solo a torture ancora più crudeli. Per questo motivo, nelle varie sedi, non risposi più alle domande su come mi fossi procurato i lividi e gli altri segni evidenti sul corpo, sebbene l’aspetto di quelle lesioni escludesse la possibilità che fossero accidentali.


La mattina seguente, persone mascherate e in borghese mi portarono nuovamente fuori dal centro di detenzione temporanea, mi ammanettarono al pianale di un furgone e mi portarono a Mosca, al tribunale distrettuale di Dorogomilovo, dove mi fu comminata una pena detentiva e furono documentate le lesioni fisiche.


Dopo il processo, mi portarono nel carcere preventivo 7, dove le lesioni furono nuovamente documentate. In seguito, nel carcere vennero a interrogarmi le stesse persone che avevano assistito alle mie torture il giorno del mio arresto. Con loro c’era un avvocato d’ufficio di cognome Shchur; quando l’avvocato lasciò la stanza degli interrogatori, le altre persone mi minacciarono, dicendo che, se avessi creato problemi o se le mie dichiarazioni fossero state, a loro parere, insufficientemente “veritiere”, mi avrebbero trovato ovunque mi trovassi, e gli eventi dei primi giorni del mio arresto si sarebbero ripetuti. 


Queste loro parole influenzarono la mia decisione di allora di non denunciare le torture e, a dire il vero, temo ancora per la mia vita e la mia salute a causa di chi mi ha torturato e picchiato dopo l’arresto.


Aiutaci a crescere

Condividi su:

Per sostenere Memorial Italia

Leggi anche:

Torino, 16 maggio 2025. Memorial Italia al Salone internazionale del libro. “La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956” di Anna Szyszko-Grzywacz.

In occasione del Salone internazionale del libro di Torino venerdì 16 maggio alle 18:00 presso l’Auditorium Polo del ‘900 (via del Carmine 14) Memorial Italia in collaborazione con Comunità polacca di Torino, Consolato generale di Polonia in Milano, Consolato di Polonia in Torino, Fondazione di studi storici Gaetano Salvemini, Università di Torino, Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne dell’Università di Torino presenta il volume La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz, ultima pubblicazione della collana Narrare la memoria curata da Memorial Italia per Edizioni Guerini. La presentazione prevede i saluti istituzionali di Ulrico Leiss de Leimburg, console onorario di Polonia in Torino, e Caterina Simiand, direttrice della Fondazione Salvemini, l’introduzione di Victoria Musiolek-Romano della Fondazione Salvemini e gli interventi di Krystyna Jaworska dell’università di Torino, Luca Bernardini dell’università di Milano e curatore del volume, e Barbara Grzywacz, figlia dell’autrice. Per maggiori informazioni: Presentazione e lettura del volume “La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956” di Anna Szyszko-Grzywacz | Salone Internazionale del Libro di Torino. Una testimonianza al femminile sull’universo del Gulag e sugli orrori del totalitarismo sovietico. Arrestata nel 1945 a ventidue anni per la sua attività nell’AK (Armia Krajowa), l’organizzazione militare clandestina polacca, Anna Szyszko-Grzywacz viene internata nel lager di Vorkuta, nell’Estremo Nord della Siberia, dove trascorre undici anni. Nella ricostruzione dell’esperienza concentrazionaria, attraverso una descrizione vivida ed empatica delle dinamiche interpersonali tra le recluse e della drammatica quotidianità da loro vissuta, narra con semplicità e immediatezza la realtà estrema e disumanizzante del Gulag. Una realtà dove dominano brutalità e sopraffazione e dove la sopravvivenza per le donne, esposte di continuo alla minaccia della violenza maschile, è particolarmente difficile. Nell’orrore quotidiano raccontato da Anna Szyszko-Grzywacz trovano però spazio anche storie di amicizia e solidarietà femminile, istanti di spensieratezza ed emozioni condivise in una narrazione in cui alla paura e alla dolorosa consapevolezza della detenzione si alternano le aspettative e gli slanci di una giovane donna che non rinuncia a sperare, malgrado tutto, nel futuro. Anna Szyszko-Grzywacz nasce il 10 marzo 1923 nella parte orientale della Polonia, nella regione di Vilna (Vilnius). Entra nella resistenza nel settembre 1939 come staffetta di collegamento. Nel giugno 1941 subisce il primo arresto da parte dell’NKVD e viene rinchiusa nella prigione di Stara Wilejka. Nel luglio 1944 prende parte all’operazione “Burza” a Vilna come infermiera da campo. Dopo la presa di Vilna da parte dei sovietici i membri dell’AK, che rifiutano di arruolarsi nell’Armata Rossa, vengono arrestati e internati a Kaluga. Rilasciata, Anna Szyszko cambia identità, diventando Anna Norska, e si unisce a un’unità partigiana della foresta come tiratrice a cavallo in un gruppo di ricognizione. Arrestata dai servizi segreti sovietici nel febbraio 1945, viene reclusa dapprima a Vilna nel carcere di Łukiszki, e poi a Mosca alla Lubjanka e a Butyrka. In seguito alla condanna del tribunale militare a venti anni di lavori forzati, trascorre undici anni nei lager di Vorkuta. Fa ritorno in patria il 24 novembre 1956 e nel 1957 sposa Bernard Grzywacz, come lei membro della Resistenza polacca ed ex internato a Vorkuta, con cui aveva intrattenuto per anni all’interno del lager una corrispondenza clandestina. Muore a Varsavia il 2 agosto 2023, all’età di cento anni.

Leggi

Forlì, 16 maggio 2025. La russofonia in divenire: identità, cultura, storia attraverso la lente di Kyiv.

Venerdì 16 maggio dalle 13:00 alle 15:00 si svolge a Forlì presso il campus dell’università di Bologna (aula 1.4, padiglione Morgagni, via Della Torre 5) il seminario La russofonia in divenire: identità, cultura, storia attraverso la lente di Kyiv. Intervengono i nostri Elena Kostioukovitch, Marco Puleri e Sara Polidoro. La lingua e la cultura russa sono tra le principali protagoniste (e vittime) della drammatica guerra che ha avuto inizio in Ucraina nel 2014. La difesa della lingua e della cultura russa rivendicata dalle autorità russe, il genocidio dei russofoni nel Donbas denunciato dai gruppi separatisti nell’Ucraina orientale, l’identificazione della lingua e della cultura russa quale lingua del nemico a difesa dell’integrità territoriale ucraina: narrazioni, queste, strumentalizzate nel discorso politico per inquadrare il ruolo e lo status delle prassi culturali in una vera e propria narrazione bellica. Marco Puleri (Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali) e Sara Polidoro (Dipartimento di Interpretazione e Traduzione) discuteranno delle diverse sfaccettature della lingua e cultura russa in Ucraina con Elena Kostioukovitch, scrittrice ucraina di lingua russa, saggista e traduttrice residente in Italia, nota in particolare per avere tradotto le principali opere di Umberto Eco in russo e creato un ponte tra le culture italiana e russa. Nel suo libro Kyiv. Una fortezza sopra l’abisso (2025) Kostioukovitch ripercorre la storia moderna dell’Ucraina attraverso la lente della storia della sua famiglia e della sua città natale, Kyiv. Nel corso del dibattito si parlerà di come si sono sviluppate storicamente la lingua e la cultura russe in Ucraina, di cosa significa oggi parlare e praticare il russo nella vita quotidiana e dell’atteggiamento degli ucraini nei confronti dell’eredità della lingua e della cultura russa durante la guerra. L’evento si tiene in italiano con interpretazione simultanea in inglese. Per maggiori informazioni: Russophonia in-the-making: Identity, Culture, History through the lenses of Kyiv — East european and eurasian studies – Laurea Magistrale – Forlì.

Leggi

Trento, 14 maggio 2025. Vorkuta: una donna nel Gulag sovietico.

I blatnjaki avevano la loro casta e tra di loro c’era il blatnoj anziano, che gli altri ascoltavano, dal momento che la sua parola contava, in quel démi-monde malavitoso. Aveva la sua “moglie” nel campo, l’ucraina Zoja, credo orientale. Rivestita con un montone, sicuramen­te sottratto a qualcuno, se ne stava sempre seduta con lui accanto al focolare. Lui aveva del cibo e se lo mangiavano davanti al fuoco. Una volta, quando ero oramai davvero sfinita, mi recai da loro e gli dissi: “Ascoltami, devi far qualcosa per quel Semën. Perché mi rende la vita impossibile. Io non voglio niente da nessuno, non ho rapporti con nessuno, non c’è niente che mi leghi a nessun uomo. E lui mi perseguita, semplicemente. Non posso fare un passo. Ho paura. Mi picchia. Ma che vuole, da me? Ho o non ho il diritto di decidere con chi voglio vivere?” “A ty obeščala emu čto-to?” (“Ma tu gli hai pro­messo qualcosa?”) mi chiede. “Non gli ho promesso niente!” “Hai accettato qualcosa, da lui?” “No.” “Ma che dura, stupida, che sei! Con lui avresti potuto vivere come un topo nel formaggio. Te ne staresti seduta al kostër (fuoco) come Zoja. Non faresti un bel nulla e avresti tutto fino al gorlo, al collo. Staresti al calduccio e sarebbe tutto così piacevole…”, mi dice. E non aggiunse altro. Signore! Per poco non venni meno. Mercoledì 14 maggio alle 17:30 a Trento (sala conferenze della Fondazione Caritro, via Calepina 1) la Biblioteca Archivio del CSSEO, in collaborazione con Memorial Italia, Edizioni Guerini e il Consolato generale della Repubblica di Polonia in Milano, ospita la presentazione del volume La mia vita nel Gulag. Memorie da Vorkuta 1945-1956 di Anna Szyszko-Grzywacz, ultima pubblicazione della collana Narrare la memoria, curata da Memorial Italia. Intervengono le nostre Francesca Gori e Barbara Grzywacz, figlia dell’autrice. Introduce Fernando Orlandi. È possibile seguire l’incontro anche on line tramite piattaforma Zoom, utilizzando il link us02web.zoom.us/j/83008261955.

Leggi