(Intervista a cura di Carlangelo Mauro)
18 aprile 2025
alle 14:18
Circa un mese fa, come è noto, l’Ucraina ha accettato una tregua su proposta americana, Vladimir Putin no. E infatti continuano, con più intensità, i bombardamenti sui civili da parte dei russi che in questi tre anni, peraltro, non sono mai cessati. Fino al 30 novembre 2024, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha stimato 12.340 morti e 27.836 feriti tra i civili ucraini. Nel suo Il ritorno della storia. Il conflitto russo ucraino, Serhii Plokhy, storico di Harvard, parla (alle pp. 241-243) dei bombardamenti russi in Ucraina nel centro storico di Černihiv, città d’arte, fin “dal 25 febbraio, secondo giorno” dell’invasione. Černihiv è “una delle capitali principesche della Rus’ di Kyiv”, stato slavo medievale esaltato da scrittori e intellettuali russi (più volte richiamato anche dallo “storico” Putin nei suoi piani sull’Ucraina). Il 6 marzo 2022 i bombardamenti causarono “47 vittime civili”, oltre a colpire “i musei della letteratura delle belle arti. Il giorno successivo fu danneggiato il monastero di Elec del XII secolo”. Nel mese di marzo i bombardamenti, continua Plokhy, uccisero “centinaia di altre vittime civili” e danneggiarono lo stesso “edificio del patriarcato di Mosca”. Il metropolita Onufrij della Chiesa ortodossa del patriarcato di Mosca, allora, accusò Putin di essersi macchiato “del peccato di Caino”. Gli attacchi dei russi ai civili ucraini nella loro “invasione fraterna” sono crimini di guerra senza scusanti, così come in qualunque altro conflitto. Ne abbiamo parlato con il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa, membro dell’Istituto Affari Internazionali, in una intervista gentilmente concessaci a distanza, ma ci siamo dati appuntamento ad Anacapri, dove il generale parlerà il 16 maggio di sicurezza europea, nell’ambito di una serie di incontri, promossi da Mean (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta).
Generale Camporini, continuano gli attacchi russi ai civili: è stata bombardata Sumy il 13 aprile. Trump ha parlato di “errore”. Il Cremlino parla della morte di “più di 60 militari delle forze armate ucraine”, la cui presenza dunque implicitamente “giustificherebbe” la strage di civili. Artem Semenichin, sindaco della città di Konotop, come informa il giornale ucraino The Kyiv Independent, ha criticato il governatore regionale Volodymyr Artjuch ‒ poi licenziato da Zelens’kyj ‒ per aver organizzato una cerimonia di premiazione di militari a Sumy quello stesso 13 aprile. La cosa avrebbe fornito ai russi una giustificazione al loro “attacco terroristico”. Quali le sue considerazioni al riguardo?
Le immagini che ci sono giunte da Sumy ci dicono in modo eloquente che, se l’obiettivo era una pretesa cerimonia militare, il target è stato platealmente mancato, il che qualche dubbio circa le reali intenzioni russe lo può far venire, visto che il missile balistico Iskander, nelle sue varie versioni, è accreditato di una precisione tra i 5 e i 7 metri. In realtà questo tipo di attacchi risponde ad una ben precisa dottrina, quella di fiaccare la volontà di resistenza della popolazione del paese avversario, secondo dettami che risalgono ad uno stratega italiano, Giulio Douhet, poi seguito da Mitchell e da Harris. In realtà la storia insegna che si tratta di un calcolo sbagliato, come dimostrato durante la Seconda guerra mondiale dal fallimento della offensiva nazista sulla Gran Bretagna e dalla resistenza del popolo tedesco ai massicci e devastanti bombardamenti alleati. Politicamente l’azione russa, che si è poi ripetuta a Dnipro due giorni dopo, dimostra al di là di ogni possibile dubbio, la volontà russa di procedere nell’offensiva per conseguire almeno il risultato di impossessarsi completamente del territorio dei quattro oblast– che ha “trionfalmente” annesso sulla carta. Che Trump non voglia prendere atto dell’atteggiamento di Putin e continui a scaricare le responsabilità su Zelens’kyj e Biden, anche dopo questi fatti, è francamente sconcertante.
Zelens’kyj ha affermato che l’Ucraina è pronta ad acquistare 10 sistemi missili di difesa antiaerea Patriot per 15 miliardi di dollari, per proteggere le città dai bombardamenti russi. Trump, d’altro canto, ha dichiarato alla Casa Bianca: “Non si inizia una guerra contro un Paese che è 20 volte più forte di te sperando che qualcun altro ti regali i missili”… Vorrei un suo commento.
Innanzitutto osservo che la guerra non è stata scatenata dall’Ucraina, che invece ha subito un’aggressione dalla quale si sta difendendo con grande coraggio. Osservo anche che in questa specifica circostanza Zelens’kyj vuole comperare e pagare i sistemi che servono a proteggere il suo paese dai quotidiani bombardamenti cui è sottoposto. Il problema sta nel fatto che qualsiasi vendita all’estero di sistemi d’arma da parte di un produttore statunitense (come in qualsiasi altro paese) è soggetto ad una specifica approvazione governativa, che viene concessa in base a valutazioni di natura squisitamente politica e, visti gli attuali atteggiamenti dell’amministrazione Trump, non è affatto scontato che venga approvata l’esportazione in Ucraina delle batterie di missili antiaerei Patriot: se questa venisse negata ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore evidenza del voltafaccia degli Stati Uniti e della loro sostanziale inaffidabilità come membri dell’Alleanza Atlantica.
Gli attacchi sui civili ‒ nel momento in cui discutiamo leggo ancora di bombardamenti con altre vittime a Dnipro ‒ appaiono aumentati proprio dopo l’iniziativa dello stesso Trump per arrivare ad una pace (dalle sue 24 ore ne sono passate tante). Sul piano strettamente militare le fonti di informazione parlano di una offensiva russa proprio su Sumy e nel nordest dell’Ucraina, già in corso. Al TG1 di oggi, 17 aprile, l’inviato Enrico Bona dà notizia di un possibile sfondamento nella zona a sud di Zaporižžja.… Qual è la situazione?
Le vicende relative alle politiche commerciali adottate dall’amministrazione Trump hanno offuscato sui media le notizie relative alle crisi internazionali, in particolare quella in Medio Oriente e quella in Ucraina: è difficile trovare, anche sui social, informazioni sulla evoluzione della situazione tattica sul fronte del Donbas. È comunque evidente che la pressione russa continua, con le truppe di Mosca che mantengono l’iniziativa, anche se a caro prezzo, rosicchiando ogni giorno qualche porzione del territorio ucraino. Le ingenti perdite subite vengono prontamente colmate grazie a una martellante campagna di arruolamenti, sostenuta da incentivi economici che per le regioni più povere del paese possono costituire la soluzione per tutta la vita. La capacità di resistere da parte delle forze ucraine dipende dalla continuità delle forniture di tutto il munizionamento necessario, il che, tenuto conto delle incertezze relative all’atteggiamento degli Stati Uniti, deve costituire per tutti i paesi europei un’assoluta priorità.
Il 17 aprile si sono svolti a Parigi, da Emmanuel Macron, incontri sul conflitto con l’inviato Usa, Steve Witkoff, e il segretario di Stato, Marco Rubio, ma è nota la richiesta russa: le quattro regioni ucraine Donec’k, Luhans’k, Cherson e Zaporižžja, parzialmente occupate, devono essere riconosciute interamente come russe (una quinta regione, la Crimea, è stata già occupata dai russi fin dal 2014). In una intervista su Fox News, Witkoff ha parlato del suo incontro con Putin riguardo anche ai “cosiddetti cinque territori ucraini”. Zelens’kyj ha risposto che “solo il popolo ucraino può parlare dei territori del nostro Stato” e che è “una linea rossa riconoscere qualsiasi territorio temporaneamente occupato come russo”. La matassa mi sembra molto intricata: quali possibili sviluppi lei intravede?
Partiamo da una irrinunciabile questione di principio: non è accettabile che conquiste territoriali conseguite con l’uso della forza militare vengano riconosciute dalla comunità internazionale; chiunque faccia simili affermazioni si pone al di fuori del complesso di regole incarnato nella carta delle Nazioni Unite. Se si accettasse il principio che ciò che conta è il rapporto di forza, le conseguenze sarebbero disastrose su base planetaria, aprendo la stura a rivendicazioni che credevamo ormai affidate ai libri di storia. Il pretesto delle rivendicazioni sulla base delle comunità linguistiche verrebbe immediatamente accampato anche all’interno dell’Europa, basti pensare alla situazione nei Balcani Occidentali o alle minoranze di lingua ungherese presenti in Transilvania in Romania e nella Rutenia Transcarpatica in Ucraina. Chi si sente più a rischio sono le repubbliche baltiche, dove esistono consistenti minoranze di russofoni, che effettivamente in qualche caso sono stati oggetto di discriminazioni: ottimo pretesto per una dirigenza russa ringalluzzita da quanto eventualmente ottenuto in Ucraina e con la convinzione che da parte statunitense non ci sarebbe una reazione se non simbolica, per lanciarsi in una nuova avventura militare. Ma apparentemente questi principi e queste considerazioni non fanno parte del patrimonio concettuale di un diplomatico improvvisato quale è Witkoff, con il quale Putin sembra trovarsi a proprio agio proprio perché questi sta facendo proprie tutte le pretese di Mosca. Tutto ciò dovrebbe rafforzare la volontà europea di continuare a sostenere in tutti i modi ragionevolmente possibili l’Ucraina, per consentirle di sedere ad un futuro tavolo negoziale non da sconfitta, ma con piena dignità.