Presentiamo la traduzione in italiano dell’articolo Что вы плачете, Ниночка?, pubblicato da Cholod, piattaforma on line indipendente russa, e dedicato alla figura di Nina Gnevkovskaja. Il materiale è stato raccolto ed elaborato nell’ambito della campagna #MyMemorial promossa da Memorial in Russia nel novembre del 2021. Le autrici del testo sono Irina Ščerbakova e Anastasija Jasenickaja. L’editor è Aleksandr Gorbačëv. Le illustrazioni sono di Vladimir Averin.
La traduzione nasce dal lavoro collaborativo del gruppo di studentesse del corso Translation for Publishing – Russian (2024-25) della Laurea Magistrale in Specialized Translation (Dipartimento di Interpretazione e Traduzione dell’Università di Bologna) costituito da Agnese Chierici, Caterina Frascella, Alice Lupo, Elena Masiero, Giulia Rossi, Claudia Sala, Maura Volpe e coordinato dalla professoressa Francesca Biagini.
Perché piange, Ninočka?
Pur essendo l’amante di Lavrentij Berija, Nina Gnevkovskaja venne incarcerata. Eppure il peggio iniziò quando fu rilasciata.

Secondo un noto detto sul periodo staliniano, durante gli anni della repressione, metà del Paese incarcerava e l’altra metà veniva incarcerata. Questa frase, solitamente, viene usata per supportare la tesi che i discendenti degli inquirenti e dei carcerieri non possono capire i discendenti dei detenuti e viceversa. In realtà, non di rado a incarcerare e a essere incarcerate potevano essere le stesse persone e se i casi in cui gli ex-dipendenti degli organi di sicurezza divenivano vittime delle purghe sono ben documentati, gli esempi di persone che, dopo essere state detenute, passarono dalla parte dei persecutori, sono molto più rari. Le inviate speciali di Cholod Irina Ščerbakova e Anastasija Jasenickaja raccontano una di queste storie.
Un giorno del 1947 Nina Gnevkovskaja si trovava all’angolo tra via Petrovka e il vicolo Stolešnikov, presso il caffè alla moda Krasnyj Mak, dove stava chiacchierando con due amici. Il primo, Veniamin Gel’fman, soprannominato Vit’ka “Naso”, non lavorava, si guadagnava da vivere con il mercato nero e frequentava molte donne. Aveva anche provato a conquistare Gnevkovskaja, affascinante biondina dal viso ovale, ma senza ottenere successo. La seconda persona che stava conversando con la ragazza era Lev Rinkman, amico di Gel’fman.
Nina, studentessa non frequentante di Giurisprudenza, aveva da poco compiuto vent’anni. L’avvenente ragazza di buona famiglia, che amava le feste e i ristoranti, stringeva con facilità nuove amicizie, anche con persone importanti. Conosceva, per esempio, il figlio del Presidente della Jugoslavia Josip Broz Tito, Žargo, che negli anni della guerra studiava a Mosca, e il campione di nuoto sovietico Semën Bojčenko. I suoi amici condividevano la stessa cerchia di conoscenze, ma ciò che successe quella sera sorprese anche loro.
A un certo punto vicino alla compagnia si fermò un’automobile governativa nera che stava percorrendo la Petrovka. Dal finestrino spuntò la testa calva di Lavrentij Berija, vice Primo Ministro, il più potente tra i funzionari sovietici per la Sicurezza di Stato e braccio destro di Stalin.
– Salve, Ninočka – disse Berija. E se ne andò.
Così Vit’ka “Naso” e Lev Rinkman scoprirono che la loro amica conosceva personalmente uno degli uomini più importanti del Paese e, benché Nina lo negasse, quella scena lo aveva reso evidente.
A distanza di qualche anno tutti e tre gli amici finirono nei campi di lavoro forzato. Evidentemente il rapporto con Berija ebbe nel destino di Nina Gnevkovskaja un ruolo fatale.
L’incontro durante la Giornata della Vittoria
La madre di Nina lavorava come tagliatrice di tessuti in un atelier di moda, mentre il padre era Capitano presso il Ministero della Sicurezza di Stato (in russo Ministerstvo Gosudarstvennoj Bezopasnosti, MGB). Poco dopo l’inizio della guerra era stato inviato in missione come capo di una divisione speciale del 3° Corpo corazzato dell’Armata Rossa. Vladimir Gnevkovskij e i suoi sottoposti avevano l’incarico di vigilare sul morale e sul clima politico all’interno dell’unità, allo scopo di individuare spie e oppositori del regime sovietico. Durante il periodo trascorso in servizio, venne ferito alla testa e rimase invalido. La figlia in quel momento aveva 17 anni. Come affermò in seguito, la sua infanzia trascorse sotto la sorveglianza degli ufficiali del MGB.
In quel periodo, in Unione Sovietica le famiglie degli ufficiali della Sicurezza di Stato godevano di una posizione privilegiata. Nina Gnevkovskaja amava la bella vita e soprattutto poteva permettersela, persino nei duri anni della guerra e del dopoguerra. Trascorreva molto tempo nel centro di Mosca, nei principali luoghi della vita mondana dell’epoca, come il Giardino Hermitage, l’Hotel Lux al numero 10 di via Gor’kij (l’attuale Tverskaja), i ristoranti National e Cocktail Hall e anche nel vicolo Stolešnikov, che in quegli anni veniva chiamato “Spekulešnikov”, alludendo agli speculatori del mercato nero. Come ricorda lo scrittore Èduard Chruckij, infatti, non era una semplice strada, ma rappresentava “una particolare visione della vita, un orientamento ideologico”. Oltre al lussuoso caffè Krasnyj mak, qui si trovava la miglior rivendita di tabacchi di Mosca, due negozi di pellicce Mecha, una gioielleria e altre oasi del lusso all’interno dell’Unione Sovietica.
Ad ogni modo, la storia del primo incontro di Nina Gnevkovskaja con Lavrentij Berija non iniziò qui, ma qualche isolato più avanti lungo la via Gorkij, in piazza Majakovskij. Era il 9 maggio 1945: nelle strade di Mosca folle di persone festeggiavano la vittoria sui nazisti. Gnevkovskaja si era data appuntamento con l’amica Lida Uler’janova vicino all’edificio della Sala da Concerti Čajkovskij. Il tempo passava ma di Lida neanche l’ombra. Gnevkovskaja tentò di chiamare l’amica da un telefono pubblico: all’inizio non rispondeva nessuno, poi finirono le monetine da 10 copechi.
In quel momento si avvicinò a Nina un uomo in uniforme militare che la stava osservando già da un po’. Si presentò come Pavel Semënovič, le offrì una moneta per fare un’altra telefonata e, quando dagli Uler’janov per l’ennesima volta non ci fu risposta, le propose un passaggio con la sua macchina fino a casa dell’amica. Lida non c’era, ma nella vita delle due giovani aveva fatto il suo ingresso una nuova conoscenza: da allora Pavel Semënovič avrebbe portato in giro molte volte Gnevkovskaja e Uler’janova con la sua auto e regalato loro biglietti per il teatro, i concerti al Conservatorio e le partite allo stadio Dinamo. Gnevkovskaja non si faceva molte domande: era abituata agli ammiratori, spesso attirava l’attenzione dei militari e in generale amava la compagnia degli uomini.
Una volta dopo un concerto Pavel Semënovič portò Gnevkovskaja “nella sua dacia”, dicendole che presto li avrebbe raggiunti un amico. La condusse a una grande casa di pietra a Odincovo che assomigliava a una usad’ba, un’abitazione nobiliare di campagna. “L’amico” non tardò ad arrivare e si rivelò essere Lavrentij Berija, il vero proprietario della dacia. Pavel Semënovič in realtà si chiamava Rafaèl’ Semënovič Sarkisov ed era il capo della scorta di Berija, che gli procurava regolarmente ragazze e stilava addirittura delle liste di nomi su richiesta del suo superiore.
Alla vista di Berija, Nina Gnevkovskaja scoppiò a piangere. Aveva sentito da alcune compagne di corso che il vice Primo Ministro andava in giro per Mosca alla ricerca di belle ragazze “per approfittarsi di loro”.
– Ma perché piange, Ninočka? – chiese Berija, – Al mio assistente ufficiale è toccato darle la caccia per otto mesi.
– Il suo assistente avrà pure un titolo importante, ma correre dietro alle ragazze per strada non è un incarico invidiabile – rispose lei.
Questa conversazione, come anche altri particolari della relazione della giovane con Berija, sono stati ricostruiti da Cholod secondo le testimonianze dei fascicoli giudiziari su Gnevkovskaja. A questi documenti bisogna fare riferimento con cautela: gli inquirenti spesso manipolavano ciò che veniva detto dagli imputati e spesso lo inventavano loro stessi. Tuttavia, nel suo insieme il racconto di Gnevkovskaja sui suoi rapporti con Berija è simile ad altre testimonianze riguardanti gli atteggiamenti tenuti verso le donne dal vicepresidente del Sovnarkom (il Consiglio dei Commissari del Popolo).
Berija invitò Gnevkovskaja a sedersi a tavola, offrendole “dell’orso arrosto”, e poi le propose di giocare a biliardo. Durante tutta la partita tentò di sedurre la giovane: “Se metto la palla in buca, la bacerò”. Tuttavia, secondo i racconti di Gnevkovskaja, alla fine la ragazza se ne andò a dormire nella stanza degli ospiti da sola. In seguito, passò molte volte la notte a casa di Berija e nella dacia (a volte in compagnia di Uler’janova), senza mai cedere alle sue avances e chiedendo ripetutamente al vicepresidente del Sovnarkom di lasciarla in pace. “Le sue intenzioni andavano oltre i pranzi e le cene”, scriveva Gnevkovskaja qualche anno dopo, “ma non ho mai accettato i suoi regali o le sue proposte”. La ragazza affermava di non aver mai avuto rapporti sessuali con Berija.
Gli uomini di Berija seguivano regolarmente Gnevkovskaja. Durante uno degli interrogatori, Nina ricordò un episodio: una volta, mentre stava per entrare in un negozio, notò lì accanto un’automobile governativa al cui interno c’era Berija. Le disse che si annoiava a pranzare da solo e la invitò da lui. Dopo pranzo si presentò davanti alla ragazza “con un abbigliamento assolutamente indecente, indossando soltanto la maglia del pigiama e le pantofole” e iniziò a “comportarsi in modo inappropriato”.
– Lo sa, lei sembra quasi uno sciocco! – disse Gnevkovskaja.
– Pensi che non me l’aveva mai detto nessuno – rispose Berija continuando a “infastidirla”.
Mentre rifiutava le sue avances, Gnevkovskaja intraprese delle relazioni con degli uomini che le piacevano veramente, tra i quali uno che definiva persino “suo marito”, Aleksandr Berman. Esattamente tre anni dopo l’incontro con Berija, Gnevkovskaja cominciò ad avere problemi.
Nel maggio del 1948 Gel’fman e Rinkman, i due amici che si trovavano con lei al caffè Krasnyj mak, furono arrestati. Vennero accusati di tradimento verso la Patria, in particolare di aver progettato una presunta fuga dall’Unione Sovietica.
Dopo qualche mese fu sottoposta a carcerazione preventiva Lida Uler’janova; non molto tempo prima il suo fidanzato, il campione di nuoto Semёn Bojčenko, era stato condannato a dieci anni in un campo di lavoro per “propaganda antisovietica”. La ragazza disse alle compagne di cella che conosceva Berija e che, non appena lui avesse saputo del suo arresto, sarebbe stata subito rilasciata. E così successe: la ragazza fu presto rimessa in libertà.
Nel luglio del 1949 fu arrestato il compagno di Gnevkovskaja, Aleksandr Berman. Venne accusato di un furto di tessuti presso un’azienda per la vendita al mercato nero. Nina Gnevkovskaja fu costretta a presenziare agli interrogatori e a testimoniare. In tutto quel periodo, continuò a frequentare Berija. Non è noto se, durante quegli incontri, tentasse di parlargli degli arresti delle persone a lei vicine. In base alle sue dichiarazioni, Gnevkovskaja si accorgeva costantemente di essere pedinata e a qualsiasi domanda Berija rispondeva dicendo che si trattava di questioni “di lavoro”.
Il Capodanno del 1950 Nina e Lida dovevano festeggiarlo a casa di Berija, anche se nessuna delle due lo avrebbe in alcun modo desiderato. Secondo quanto raccontato da Gnevkovskaja, le due ragazze si nascosero in una stanza del Grand Hotel, un vecchio albergo di epoca prerivoluzionaria, non molto lontano dalla Piazza Rossa. Dalla finestra si scorgeva Pavel Semënovič che vagava per Piazza della Rivoluzione cercandole invano.
Fu l’ultima volta che le ragazze videro l’assistente ufficiale di Berija. Il braccio destro di Stalin non mandò mai più nessuno a cercarle. Aleksandr Berman fu condannato a diciotto anni di prigione e poco dopo Lida Uler’janova sposò un autista. Quando l’amica diede alla luce la prima figlia, Nina Gnevkovskaja già da tre anni si trovava in un lager.
Sognando Broadway
Nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1950, l’appartamento nel quartiere Taganka dove Nina Gnevkovskaja viveva con i genitori e la sorella minore venne perquisito dagli agenti della Sicurezza di Stato. Tra le varie cose, furono confiscate una rivista chiamata America, ritagli di pubblicazioni straniere e un quaderno di poesie scritto a mano: la giovane venne arrestata per atti di propaganda antisovietica e tradimento della Patria. Il motivo della perquisizione e dell’arresto risiedeva nelle deposizioni di Gel’fman e Rinkman, che avevano riferito ai čekisti come Gnevkovskaja raccontasse barzellette antisovietiche e sostenesse i loro progetti di emigrazione. Inoltre, Gnevkovskaja aveva regalato a Vit’ka “Naso” una foto in cui indossava un vestito colorato. Sul retro c’era scritto: “Possa il tuo sogno di una finestra lucente in un grattacielo all’angolo di Broadway diventare realtà”.
L’inchiesta inizialmente fu condotta dal capitano del Ministero per la Sicurezza di Stato Kovolëv, che, stando alle parole di Gnevkovskaja, dopo tre o quattro interrogatori si rifiutò di seguire il caso, “non essendo convinto della [sua] colpevolezza”. Successivamente per oltre un mese la ragazza non venne più interrogata, finché le indagini non furono affidate al sottotenente Ivanov.
La giovane era accusata di propaganda antisovietica e di aver avuto contatti con stranieri a fini sovversivi. Si faceva riferimento in particolar modo al figlio di Tito (proprio pochi mesi prima dell’arresto di Gnevkovskaja i rapporti tra URSS e Jugoslavia si erano deteriorati e dai giornali sovietici Tito veniva definito fascista) e al figlio di uno dei dirigenti del Partito Comunista ungherese. La ragazza rispose che ciò che la legava a queste persone era esclusivamente il “desiderio di divertirsi” e che non aveva un rapporto stretto con nessuno dei due: semplicemente si incontravano alle feste, bevendo vino e mangiando gelato. Gnevkovskaja affermò anche che non aveva mai parlato di politica con Gel’fman e Rinkman perché li reputava troppo limitati, infatti “erano interessati unicamente a procurarsi articoli alla moda”.
Un giorno le chiesero se avesse riferito dei suoi contatti con persone straniere a qualche ufficiale sovietico di sua conoscenza. Rispose che non ne aveva mai parlato perché non vi vedeva nulla di riprovevole. In risposta, almeno secondo il verbale dell’interrogatorio, l’inquirente Ivanov esclamò: “Non è vero! Lei sapeva che tutti i suddetti ufficiali dell’esercito sovietico avrebbero interrotto qualsiasi rapporto con lei se fossero venuti a conoscenza dei suoi contatti con persone straniere. Dica la verità, perché ha nascosto questi legami agli ufficiali dell’esercito sovietico di sua conoscenza?”.
Nell’inchiesta su Gnevkovskaja venne accuratamente creato il ritratto di una ragazza dalla condotta priva dei valori morali promossi dalla retorica ufficiale dell’epoca sovietica. Ivanov interrogò a lungo i giovani che avevano avuto relazioni o anche solo rapporti sessuali con lei e costrinse Gnevkovskaja a raccontare della sua vita privata e di una malattia venerea che aveva contratto. Una delle domande era: “Da quanto emerso durante l’indagine, si conclude che lei ha condotto una vita dissoluta. Dica, perché ha deciso di intraprendere la strada della prostituzione?”.
Inoltre, il discorso ritornava spesso alla fotografia con la scritta su Broadway, che l’inquirente considerava un augurio da parte di Gnevkovskaja a sostegno del desiderio di fuggire dall’URSS manifestato da Gel’fman. La ragazza affermava che la scritta non si riferiva affatto a New York: in quegli anni i giovani chiamavano Broadway la stessa via Gor’kij, nei dintorni della quale Gnevkovskaja e i suoi amici erano soliti passeggiare.
Qualche anno dopo, cercando di ottenere la grazia, Veniamin Gel’fman ammise che parte della sua confessione era stata rilasciata sotto coercizione, ad esempio, era stato frustato con una cinghia militare di tela gommata. Gnevkovskaja non parlò mai di torture fisiche, ma raccontò che gli inquirenti cercavano di estorcere la sua testimonianza urlando e minacciandola. Stando alle sue parole, un giorno si presentò per interrogarla un colonnello del MGB, la Sicurezza di Stato.
– Siamo in Unione Sovietica, sono certa che otterrò giustizia – dichiarò la ragazza. L’uomo rispose:
– Sono tanti gli sciocchi che hanno creduto di riuscirci, ma le pareti del Ministero della Sicurezza di Stato sono in piedi da 33 anni e, anche se molti di questi cocciuti ci hanno sbattuto la testa contro, i nostri muri sono tuttora integri.
Il giorno successivo il colonnello si presentò nuovamente all’interrogatorio di Nina e, stando ai ricordi della ragazza, chiese all’inquirente:
– Allora, sta ancora cercando di distruggere le nostre pareti a testate?
Dopodiché si rivolse a Gnevkovskaja:
– Non c’è problema, – disse il colonnello indicando un armadio blindato nella stanza, – le abbiamo portato questo, non sia mai che sfondi il muro. La cassaforte è più resistente, è più adatta per sbatterci la testa contro.
Nina Gnevkovskaja non ammise comunque la sua colpevolezza, ma questo non impedì al tribunale di condannarla a sette anni di lager per dichiarazioni diffamatorie contro le autorità sovietiche. Non è noto se durante gli interrogatori abbia cercato di appellarsi a Berija, così come non è chiaro se il suo arresto potesse essere legato alla rivalità segreta che all’inizio degli anni Cinquanta caratterizzava i rapporti tra quest’ultimo, ex capo dell’NKVD, e il nuovo Ministro della Sicurezza di Stato, Viktor Abakumov. Nei documenti dell’inchiesta viene menzionato il fatto che già alla fine degli anni Quaranta i funzionari del MGB avevano proposto a Gnevkovskaja di diventare una loro informatrice, ma lei aveva rifiutato, mentre il nome di Berija nei documenti non figura affatto: solo una volta Gnevkovskaja nomina un “Pavel Semënovič” che le procurava i biglietti per il teatro.
Quindi te la sei cercata
Nina Gnevkovskaja fu mandata a scontare la sua condanna nella taiga, nel nord della Regione di Kirov, dove si trovava il Vjatlag, uno dei più grandi campi di lavoro forzato sovietici. Nel 1948 qui si trovavano circa 25.000 detenuti, tra i quali le donne costituivano una minoranza pari al 22%. Il lavoro principale dei prigionieri consisteva nella raccolta e lavorazione del legname.
Dapprima il campo era stato costruito intorno a un villaggio, ma all’inizio degli anni Cinquanta si era già espanso notevolmente. Gli stessi detenuti avevano realizzato un sistema di irrigazione progettato per prosciugare la zona paludosa e poter così installare le baracche e le altre infrastrutture. Nel campo c’erano infatti una banja e una biblioteca, e fu proprio al Vjatlag che nacque la “moda” dei teatri dei lager, diffusasi nel Gulag dopo la guerra.
Tuttavia, in prima istanza il Vjatlag restava un comune campo di lavoro sovietico, con tutte le sue dure prerogative. Il filo spinato era ovunque e le zone abitate erano circondate da un recinto di legno alto tre metri. Le baracche pullulavano di cimici, topi, ratti, scarafaggi e pidocchi. L’ex-detenuta Vera Isajkina nelle sue memorie racconta che generalmente ai detenuti venivano fatte indossare le uniformi dismesse dell’Armata Rossa, talvolta macchiate di sangue e lacerate dai proiettili (probabilmente quegli indumenti appartenevano ai soldati morti o feriti durante la guerra).
Il lavoro era pesante: i detenuti abbattevano gli alberi, preparavano le traverse di legno per realizzare le ferrovie, piallavano il legno nelle falegnamerie. Alcuni si mozzavano le dita per finire in infermeria dove ci si poteva distendere, riposare e in qualche modo rifocillarsi: come negli altri campi di lavoro, nel Vjatlag il cibo scarseggiava. Isajkina ricorda che per la fame una volta una detenuta, una ex-maestra, aveva fatto a pezzi un cavallo da soma e aveva cominciato a mangiarne la carne cruda.
Fu proprio qui che Nina Gnevkovskaja trascorse quasi quattro anni. Durante tutto quel periodo la giovane stessa, sua madre e la zia di Leningrado Marija Beresneva presentarono più volte delle istanze per ottenere un riesame del caso presso altri organi. “Mi addolora dover subire un’accusa così grave che non merito”, scriveva Gnevkovskaja “soffro per essere stata strappata dal Komsomol (l’Unione della Gioventù Comunista Leninista, N.d.T.), dall’università, dalla famiglia e dalla mia vita. Però sono comunque determinata a scoprire la verità, non ho perso la fiducia di poterci riuscire”. La risposta, tuttavia, era sempre la stessa: non ci sono elementi che giustifichino un riesame del caso.
Alle sue compagne di lager Gnevkovskaja raccontò minuziosamente la storia della sua vita ma cambiando alcuni dettagli. Il padre-capitano del MGB fu trasformato in un generale, forse per proteggersi: verificare l’informazione sul grado di Vladimir Gnevkovskij nell’ambiente del lager era impossibile e i detenuti del campo non avrebbero osato prendersi gioco della figlia di un generale. Inoltre, la pittrice e traduttrice Natal’ja Semper-Sokolova, che si trovava nel Vjatlag insieme a Gnevkovskaja, raccontava che quest’ultima soffriva molto per l’indifferenza con la quale il padre aveva reagito al suo arresto. Nelle sue memorie, Semper-Sokolova riporta questa affermazione di Nina: “Immaginate la situazione, sono vicino alla porta, in stato di arresto, mamma singhiozzando implora di avere pietà, mentre lui è seduto al tavolo, legge un giornale e, senza neppure degnarmi di uno sguardo, dice: ‘Noi non sbagliamo mai, ricordatelo, quindi te la sei cercata’”.
Gnevkovskaja a quel tempo collegava direttamente l’inchiesta a suo carico ai suoi rapporti con Berija, la cui storia si era ormai trasformata in una specie di racconto dell’orrore. Secondo quanto riportato da Semper-Sokolova, Nina riferì la vicenda in questi termini: “A un banchetto mi è stato offerto del vino con dentro un sonnifero. Non ricordo nulla di quanto è accaduto dopo, so solo che quando mi sono svegliata ero su un divano in una stanza che non conoscevo, svestita e avvolta solo da una coperta di seta. La porta si è aperta ed è entrato Berija in giacca e cravatta, con la camicia ma… senza i pantaloni. Ha iniziato a infastidirmi, io mi sono difesa graffiando, mordendo e urlando e lui, non riuscendo ad averla vinta, si è innervosito ed è andato via. I miei vestiti e la pelliccia erano appoggiati su una poltrona lì accanto; tremavo per la tensione, sono riuscita a rivestirmi con fatica, qualcuno mi ha fatto uscire e sono tornata a casa. Una settimana dopo sono venuti a prendermi”.
All’età di appena 26 anni la salute di Nina Gnevkovskaja fu compromessa dal lavoro forzato: come scrisse la madre in una delle sue dichiarazioni, riportò un’invalidità di secondo grado. Nell’estate del 1953 fu messa a capo della cucina di un’azienda agricola di sussistenza. Nei lager, questi ruoli erano solitamente affidati ai cosiddetti pridurki, letteralmente “gli idioti”, coloro che collaboravano con l’amministrazione. Il lavoro le garantiva una vita migliore ma la reputazione di pridurok non le stava bene. “Cercò di rifiutare con tutte le sue forze quell’incarico, pianse persino, ma fu costretta ad accettare e allora incominciò a servire a tutti i detenuti la massima razione possibile, senza mai sottrarre una briciola né per se stessa, né per gli altri”, scrive Semper-Sokolova. “Alla mensa accadevano dei miracoli: focaccine farcite, patate, insalate e pesce pregiato! Nina si occupava personalmente della contabilità e gestiva la cucina con l’aiuto della cuoca e della lavapiatti”.
Tornata in libertà, Gnevkovskaja era determinata a concludere gli studi all’università e a ottenere giustizia: “Andrò a vivere nello studentato e finirò l’università, per diventare avvocato e fare emergere la verità!”.
Il 26 giugno 1953 Lavrentij Berija fu arrestato con l’accusa di tradimento della Patria. Successivamente Gnevkovskaja, che non aveva beneficiato dall’amnistia concessa da Berja quella primavera, fu spostata dal Vjatlag a Mosca per essere interrogata. A ottobre fornì nuovamente una deposizione nella quale raccontava in modo dettagliato come e quando aveva incontrato l’ex-commissario della Sicurezza di Stato. Il 23 dicembre Berija venne fucilato. Meno di un mese dopo, la Corte Suprema dell’URSS assolse Nina Gnevkovskaja per “mancanza di reato”.
Gnevkovskaja rientrò a Mosca. Non è chiaro se perdonò il padre e tornò a vivere con i genitori, ma è certo che si dedicò alla giurisprudenza.
Una donna dall’aspetto insignificante
Nel maggio del 1970 a Mosca nell’appartamento di Ljudmila Alekseeva, dipendente dell’Istituto di Informazione Scientifica dell’Accademia delle Scienze venne effettuata una perquisizione. Alekseeva conservava copie di pubblicazioni clandestine (il cosiddetto samizdat), trascriveva a macchina la Cronaca degli avvenimenti correnti (Chronika tekuščich sobytij), un bollettino dattiloscritto che riportava fatti legati alle persecuzioni politiche e a chi ne era vittima, e non di rado organizzava a casa sua incontri con i dissidenti. Inoltre, raccoglieva donazioni per aiutare i prigionieri politici e durante la perquisizione gli agenti del KGB trovarono un portafoglio contenente circa 300 rubli: una somma paragonabile a due o tre volte lo stipendio medio di un cittadino sovietico.
– Ljudmila Michajlovna! Ma dove ha preso tutti questi soldi? – chiese una funzionaria ad Alekseeva. L’attraente donna di mezza età che stava effettuando la perquisizione era vestita come se fosse appena uscita da teatro: indossava scarpe alla moda importate dall’estero, un vestito in lurex ed era accuratamente truccata.
Alekseeva rispose, sforzandosi di mantenere la voce salda:
– Vuole dirmi che un cittadino sovietico non può mettere da parte 320 rubli con il proprio lavoro?
Stranamente, dopo questa conversazione il portafogli non le venne confiscato.
Qualche mese più tardi un conoscente di Alekseeva incontrò a casa di amici quella stessa inquirente che, ricordando la perquisizione, esclamò con disprezzo: “Si definiscono intellighenzia e poi nell’armadio hanno soltanto un completo”. Un po’ alticcia, confessò: “Io ho scontato la mia pena e ho imparato la lezione: è meglio mandare gli altri al Gulag, piuttosto che finirci”.
L’inquirente si chiamava Nina Gnevkovskaja.
Nel corso dell’inchiesta realizzata da Cholod non è stato possibile chiarire come un’ex-prigioniera del Vjatlag fosse potuta diventare una funzionaria della Procura di Mosca. Si può ipotizzare che fosse stata aiutata dal padre, ma non ci sono prove. Inoltre, negli anni Cinquanta, alla vigilia del disgelo e sull’ondata delle scarcerazioni di massa che seguirono la morte di Stalin, Gnevkovskaja potrebbe essere riuscita a cavarsela anche senza il suo aiuto. Ad ogni modo, dopo essere stata arrestata con l’accusa di propaganda antisovietica per aver letto le riviste sbagliate e aver frequentato le persone sbagliate, la stessa Gnevkovskaja iniziò a incarcerare i dissidenti.
Alla fine degli anni Sessanta, man mano che il regime sovietico si ripiegava nella politica conservatrice di Brežnev e il movimento dissidente cresceva, le perquisizioni e gli arresti divennero una realtà quotidiana per le persone che lottavano per i diritti umani. Come scrisse Vladimir Bukovskij, uno dei più noti dissidenti, se ne parlava “come le persone comuni parlano di matrimoni, battesimi e vestiti nuovi”. Molte di queste perquisizioni vennero condotte proprio da Gnevkovskaja.
Per la prima volta negli archivi di Memorial il nome dell’ex-prigioniera appare in un contesto nuovo in relazione alla manifestazione in Piazza Puškin del 22 gennaio 1967. Quel giorno si riunirono alcune decine di dimostranti che protestavano per l’arresto di quattro persone dichiarate colpevoli di aver diffuso il cosiddetto “Libro bianco”, una raccolta di documenti sul processo аgli scrittori Andrej Sinjavskij e Julij Danièl’. Non appena i partecipanti alla protesta ebbero dispiegato gli striscioni, che invocavano la liberazione dei prigionieri e l’abolizione dal Codice Penale di due nuovi articoli sulla dissidenza, da tutte le direzioni accorsero agenti in borghese che glieli strapparono di mano. Alcuni manifestanti vennero trattenuti e cinque uomini, Vladimir Bukovskij, Il’ja Gabaj, Vadim Delone, Evgenij Kušev e Viktor Chaustov, furono accusati di aver organizzato azioni collettive che violavano l’ordine pubblico: si trattava proprio di uno dei nuovi articoli che i dimostranti volevano abolire. Nina Gnevkovskaja faceva parte del gruppo di inquirenti e condusse gli interrogatori degli imputati.
Anche questa volta, durante i colloqui si parlò della condotta sessuale e dello stile di vita amorale degli accusati, soltanto che ora era Gnevkovskaja a porre le domande e a esigere risposte. Il dissidente Pavel Litvinov scrisse di questa indagine: “Si discuteva ampiamente di fatti sia reali sia fittizi riguardanti la vita privata degli imputati, dei testimoni e di altre persone. Nei confronti di uno degli accusati vennero poste domande provocatorie, al fine di creare l’impressione che avesse perversioni sessuali”.
In qualità di testimone, Gnevkovskaja convocò l’insegnante di letteratura Leonid Ziman, amico di Gabaj dai tempi dell’università. Era il primo interrogatorio della sua vita. L’ottantatreenne Leonid ha raccontato a Cholod: “Certo che mi sono spaventato. Il fatto che non l’ho dato a vedere è un altro discorso. Gli inquirenti avrebbero voluto tanto sentirmi parlare male di Gabaj e invece io ho detto che era l’uomo migliore che avessi mai incontrato nella mia vita”. Stando ai racconti del dissidente questa risposta non piacque a Gnevkovskaja, che minacciò più volte di arrestarlo. Cinquant’anni dopo Ziman descriverà l’inquisitrice come “una donna dall’aspetto insignificante”, e dirà che Gnevkovskaja “incarnava perfettamente lo stereotipo dell’agente delle forze dell’ordine sovietiche”.
Alla fine, Il’ja Gabaj fu rilasciato ancora prima del processo. Ma gli altri imputati furono meno fortunati. Chaustov e Bukovskij vennero condannati a tre anni di colonia penale, Kušev e Delone ottennero un anno di libertà vigilata. Questa è la prima ma non l’ultima delle indagini a noi note condotte da Nina Gnevkovskaja contro i dissidenti.
Il 21 agosto 1968 nella capitale della Cecoslovacchia fecero irruzione i carrarmati sovietici con l’obiettivo di reprimere la “Primavera di Praga”, un tentativo di liberalizzazione del regime comunista attraverso una serie di riforme. Quattro giorni dopo a Mosca sette persone si sedettero sul selciato della Piazza Rossa mostrando dei manifesti a sostegno dei cechi; uno di questi recitava: “Per la vostra e la nostra libertà”. I dimostranti non riuscirono a trattenersi a lungo, ben presto dei poliziotti e degli agenti in borghese li percossero e li caricarono nelle camionette.
Per le indagini, alla Procura di Mosca fu creata una squadra di cui faceva parte Nina Gnevkovskaja. Nello specifico, si occupava di Vadim Delone, che conosceva già per la vicenda della manifestazione in piazza Puškin. Fu proprio Gnevskovskaja a firmare la disposizione che citava Delone in giudizio in qualità di imputato e a interrogarlo insieme ai suoi parenti. Sempre Gnevkovskaja richiese per il giovane ventenne una perizia psichiatrica, cercando, secondo l’opinione di altri dissidenti, di intimorirlo con la prospettiva del manicomio. La commissione dichiarò Delone capace di intendere e di volere (mentre non accadde lo stesso per altri due manifestanti che furono internati). Fu condannato a due anni e dieci mesi in un campo di lavoro.
A un anno di distanza Gnevkovskaja si occupò del caso di Vladimir Geršuni, un dissidente che, come la sua inquirente, aveva già scontato una pena sotto Stalin. Questa volta l’impiego della psichiatria a scopi repressivi funzionò: una settimana dopo l’arresto con l’accusa di diffamazione nei confronti del regime sovietico, la commissione dell’istituto Serbskij reputò Geršuni incapace di intendere e di volere. Il poeta trascorse i successivi quattro anni in ospedali psichiatrici, dove gli vennero praticate iniezioni di aminazina e aloperidolo.
Nel 1969 Gnevkovskaja perquisì l’appartamento di Julius Telesin, matematico, scacchista e traduttore. Vennero confiscati libri, articoli, manoscritti, raccolte di poesie – da Sergej Smirnov fino a Cvetaeva – e bozze di lettere. L’inquirente non rimase impressa nella memoria di Telesin, che, nel corso della nostra intervista, l’ha descritta utilizzando le stesse parole di Leonid Ziman: “Assolutamente insignificante”.
Un’Inquirente con la I maiuscola
Di cosa si sia occupata Gnevkovskaja negli anni Settanta non è noto: in questo periodo il suo nome non viene menzionato in relazione ai processi politici. Tuttavia, sappiamo che continuò a lavorare in Procura e nel 1980 dispose un mandato di perquisizione nei confronti di Irina Grivnina, membro di un’organizzazione per la difesa dei diritti umani che lottava contro l’impiego della psichiatria a scopi repressivi.
Grivnina sentì suonare il campanello intorno alle sette del mattino. Attraverso il vetro opaco dello spioncino riuscì a distinguere la sagoma di una signora con un ampio basco di buona fattura, che pronunciò la frase: “Vengo da Leningrado”. Grivnina pensò che si fossero nuovamente recati da lei i parenti di uno storico leningradese internato in un ospedale psichiatrico per un trattamento sanitario coatto e aprì la porta. Nell’appartamento irruppero otto agenti della polizia guidati da Gnevkovskaja.
“Quando entrò e vidi quel grugno davanti a me, non più attraverso lo spioncino, mi si gelò il sangue”, racconta Grivnina durante l’intervista rilasciata a Cholod. “Una iena. Non che io abbia qualcosa contro le iene, ma l’espressione della sua faccia era esattamente come quella di una iena che sta divorando una carogna”. Grivnina fu giudicata colpevole di diffamazione contro il sistema sovietico e venne condannata a cinque anni di lavori forzati in Kazakistan.
Sempre nel 1980, Gnevkovskaja condusse una perquisizione presso l’abitazione della dissidente Natal’ja Kravčenko, una delle redattrici della Cronaca degli avvenimenti correnti, il bollettino che registrava fatti legati alla violazione dei diritti umani. Si tratta dell’ultima volta in cui il suo nome viene menzionato in un contesto di persecuzione politica. Gli agenti della polizia investigativa di Mosca hanno raccontato che, un anno dopo i casi di Kravčenko e Grivnina, Gnevkoskaja si era occupata dell’omicidio e dello stupro di una bambina di undici anni e l’hanno definita “una professionista di altissimo livello”. Nel 2020 Vjačeslav Lichačëv, ex-vicedirettore della squadra omicidi della polizia investigativa di Mosca, il Moskovskij Ugolovnyj Rozysk (MUR) ha affermato: “Era un’investigatrice con la I maiuscola. Purtroppo è venuta a mancare. Al MUR era considerata una figura leggendaria”.
Il 29 maggio 2001 andò in onda il programma televisivo Kak èto bylo (Come è andata veramente), dedicato alla manifestazione avvenuta nella Piazza Rossa il 25 agosto 1968. Nella trasmissione Nina Gnevkovskaja, ormai settantacinquenne, rilasciò un’intervista ad alcuni giornalisti nel suo appartamento. Si tratta dell’unica sua testimonianza video che la rivista Cholod è riuscita a reperire. Sullo sfondo di un tappeto appeso alle pareti, tipico dell’arredamento sovietico, l’investigatrice ormai a riposo con indosso una giacca grigio chiaro inveisce contro i dissidenti con voce bassa e roca. “Era gente che non aveva voglia né di studiare né di lavorare, volevano vivere servendosi dei fondi inviati dalle organizzazioni antisovietiche estere con sede in Italia o in Israele”, afferma Gnevkovskaja molti anni dopo il tramonto del regime sotto il quale aveva avuto il ruolo di perseguitata e di persecutrice.
Secondo i racconti degli amici, Nina Gnevkovskaja è morta nel 2009. Dall’inchiesta di Cholod non è emerso se avesse una famiglia. I dissidenti affermano che non ha mai menzionato dei parenti.
La vostra associazione
Nel 2010 lo storico del movimento dissidente Aleksej Makarov ha intervistato Ada Sluckaja, che, nei primi anni Cinquanta, aveva scontato un periodo di prigionia nel campo di lavoro Vjatlag. Come è emerso dal colloquio, una delle persone del lager che l’intervistata ricordava più nitidamente era proprio Nina Gnevkovskaja. Quest’ultima l’aveva aiutata molte volte, tanto che avevano continuato a frequentarsi anche dopo il periodo di detenzione, fino alla morte di Gnevkovskaja.
A Makarov è rimasto impresso il cognome inusuale, che aveva visto più volte nella Cronaca degli avvenimenti correnti. Controllando gli archivi di Memorial, ha trovato un foglio ingiallito, datato giugno 1990: una richiesta indirizzata all’Associazione moscovita delle vittime della repressione. Nina Gnevkovskaja scriveva: “Chiedo di essere accolta come membro della vostra associazione. Allego il certificato di riabilitazione e due fototessere”.
Nella fotografia appariva il volto di una donna sulla cinquantina con i capelli accuratamente raccolti. Aveva gli occhi stanchi.
Gli autori desiderano ringraziare Sergej Bondarenko, Marija Dubovskaja, Ksenija Uriašzon, Elena Aleksandrova e Lilija Zajnetdinova per l’aiuto fornito nella preparazione del materiale.
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