(Monumento a Lenin abbattuto a Stanycja Luhans’ka;
foto: Yozh, CC BY-SA 4.0)
(di Alessandro Achilli e Marco Puleri, Memorial Italia)
17 giugno 2025
alle 11:36
All’inizio del 2023, neanche un anno dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, la Association for Slavic, East European, and Eurasian Studies, la più importante associazione statunitense di studi sull’Est Europa, ha diffuso la call for papers del suo congresso annuale. Il tema del congresso di Filadelfia era decisamente in sintonia con i dibattiti al centro degli studi sull’Europa orientale e l’universo post- sovietico in quei mesi, in particolare nelle università nordamericane e britanniche: la decolonizzazione. La descrizione che segue apriva l’annuncio pubblicato dall’associazione: “La decolonizzazione è un atto profondamente politico di rivalutazione di gerarchie consolidate e spesso interiorizzate… L’invasione russa su vasta scala dell’Ucraina ha suscitato diffuse richieste di rivalutazione e trasformazione dei rapporti gerarchici e di potere russocentrici, sia all’interno della regione sia nel modo in cui la studiamo.”
Il fatto che un’associazione di studi ponesse la questione etica della necessità di una riflessione che riguardasse non solo quanto accadeva all’interno delle dinamiche politiche e sociali interne alla regione, ma anche — e soprattutto — all’interno delle dinamiche di produzione del sapere scientifico sulla regione, restituisce il senso di smarrimento di fronte alla guerra in corso in Ucraina in seno al dibattito accademico internazionale. La ‘decolonizzazione del sapere’ emergeva in particolare come un’urgenza non solo degli studiosi ucraini che si ritrovavano schiacciati all’interno di narrazioni politiche e storiche russo-centriche del proprio Paese ormai consolidate in Occidente, ma anche di studiosi internazionali sensibili alla necessità di una revisione del canone degli studi legati alla regione.
Dietro a questo termine, ormai parte integrante da decenni del lessico comunemente accettato e dello strumentario epistemologico nei dibattiti politici, culturali e accademici di molte realtà del mondo, si nascondeva un grande (e lungo) silenzio: quello della slavistica e delle discipline vicine a quest’ultima negli studi storici e politologici, almeno in molti contesti nazionali. Se tante domande restavano ancora inesplorate nel dibattito accademico, ciò avveniva non soltanto come riflesso della varietà di interessi e temi di ricerca propri della riflessione accademica, ma anche come il risultato di una tacita accettazione di modelli interpretativi ereditati da conoscenze e rapporti istituzionali (principalmente, con Mosca e San Pietroburgo) in cui si riproduceva una conoscenza russo-centrica di realtà locali profondamente diverse tra loro. Ripensare il post-sovietico tanto come cesura temporale e prospettiva storica per guardare all’area est-europea ed eurasiatica, quanto come area geografica coesa, restava così ancora alla vigilia del conflitto un’istanza urgente, ma non largamente condivisa.
Tra le principali questioni che la decolonizzazione, qui intesa come pratica epistemica piuttosto che come un fenomeno politico o sociale, pone di fronte ad una vasta platea di studiosi sicuramente il lascito del rapporto tra il “centro” e le “periferie” di un vasto territorio come quello amministrato prima dall’Impero Russo e poi dall’Unione Sovietica diventa, a maggior ragione oggi in tempo di guerra, la questione più pressante.
Ovvero, se possiamo definire la storia russa come una storia in larga misura imperiale, come possiamo restituire la conoscenza della complessità delle relazioni tra il “centro” (Mosca) e le “periferie” dell’Impero, senza avere una conoscenza approfondita di voci e protagonisti di altre realtà locali nel vasto spazio eurasiatico?
Questa prima istanza emerge non tanto come un segno di un disinteresse nei confronti di realtà “non-russe” all’interno della regione, ma piuttosto come il risultato di una vera e propria disfunzionalità strutturale degli studi legati all’area: in molte realtà europee e occidentali, non è previsto (o vive una situazione particolarmente precaria, legata in molti casi a finanziamenti privati) l’insegnamento di lingue e culture nazionali come quelle ucraina, bielorussa e georgiana, attraverso le quali si può garantire l’accesso diretto alle voci, alle narrazioni, ai documenti prodotti dai protagonisti (e da chi li studia in primo luogo nei diversi contesti accademici locali). Questa disfunzionalità strutturale ha così prodotto generazioni di studiosi che hanno prima approcciato la storia e la cultura del “centro” dell’Impero per descriverne le dinamiche interne, affidando poi alle specifiche sensibilità ed esperienze di ricerca del singolo l’eventuale scoperta di contesti politici e sociali le cui storie avevano dinamiche e traiettorie intellettuali e politiche molto diverse da quelle di Mosca — e che non sempre venivano veicolate nella lingua franca imperiale, ovvero il russo. Questa dinamica è risultata particolarmente evidente nel dibattito pubblico legato alla guerra in Ucraina, laddove molte categorie di senso (ad esempio: “la fratellanza russo-ucraina”; “la Crimea come storicamente russa”; “la lingua russa come proprietà e attributo culturale proprio dello Stato russo”; “il nazionalismo ucraino come derivazione ideologica neonazista”) che sono diffusamente proliferate nei mesi seguiti al conflitto agivano all’interno di un ‘senso comune’ della storia russa veicolato dallo studio consolidato della sua cultura, della sua letteratura, della sua lingua tramite il filtro del vecchio ‘centro imperiale’ (e delle ramificazioni delle sue istituzioni culturali, politiche all’interno dei contesti nazionali occidentali).
Nonostante tra studiose e studiosi di Europa orientale e spazio postsovietico – etichetta anch’essa sicuramente problematica, su cui urge una riflessione approfondita – di lingua inglese e, in parte, anche di lingua tedesca l’ampio e complesso armamentario scientifico degli studi coloniali, postcoloniali e decoloniali si fosse ormai radicato e avesse iniziato a contribuire — non senza storture legate ai discorsi politici delle nuove realtà nazionali — alla comprensione delle dinamiche sociali e politiche della regione, non si può dire che la situazione fosse analoga in altre tradizioni accademiche, inclusa quella italiana. Per quest’ultima, ma non solo, sembrava, o in parte sembrano ancora valere le considerazioni che David Chioni Moore, specialista di culture afroamericane, aveva condiviso sulle pagine di “PMLA”, la prestigiosa rivista della Modern Language Association of America, all’inizio degli anni 2000. Moore scriveva stupito del “silenzio degli studi postcoloniali a proposito dello spazio ex-sovietico” e dello “speculare silenzio” degli studiosi del mondo postsovietico a proposito dell’applicabilità degli studi postcoloniali al loro ambito di competenza. Nonostante si sia gradualmente dato vita, come segnalava nel 2021 uno degli autori di questo contributo, alla “rivisitazione della narrazione classica della storia zarista, portando alla luce la diversità dei percorsi storici vissuti dai popoli e dalle tradizioni che hanno contributo in misura diversa all’esperienza ‘imperiale russa’, vivendo fasi alterne di promozione sociale e omogeneizzazione culturale”, e si siano aperte “nuove prospettive di ricerca per comprendere il carattere ‘transnazionale’ dell’esperienza sovietica”, oggi, a più di vent’anni dalla pubblicazione dell’articolo di Moore, ci ritroviamo in una situazione piuttosto paradossale.
Se, con le dovute eccezioni, la consapevolezza della possibilità, o forse anche della necessità di guardare a quello che con una certa dose di inerzia continuiamo a chiamare mondo postsovietico attraverso il prisma degli studi coloniali, postcoloniali e decoloniali si è affermata o quantomeno ha iniziato ad affermarsi, le strutture dell’accademia continuano in gran parte a replicare quella stessa ottica imperiale/coloniale che si sta cercando di studiare e superare.
Come lo stesso Moore poteva osservare, ritornando sulle sue riflessioni in un articolo del 2024 pubblicato sulla rivista russo-statunitense “Ab Imperio”, “la colonizzazione, ovvero lo stanziamento in un nuovo spazio di cui si altera e di conseguenza si sposta, danneggia o destabilizza ciò che si incontra, è un’attività universale”, ma la “colonizzazione culturale, o la colonizzazione della mente” ne è una derivazione che ha implicazioni più profonde, che trovano le loro ramificazioni nel discorso politico e culturale che avvolge la guerra d’invasione russa in Ucraina oggi. Come osservava con meraviglia Moore un anno fa:
“Ciò che mi colpisce…è il modo in cui ampie fasce di accademici, studenti universitari e istituzioni culturali progressiste dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti si sono schierate a favore della causa palestinese, protestando contro le orribili azioni israeliane a Gaza, in un modo molto più ampio e intenso di quello manifestato per l’Ucraina. Le cause di questa diversa intensità sono molteplici e complesse; ci vorrebbero diversi libri in competizione per comprenderle. Per quanto mi riguarda, comprendo l’intensità e le motivazioni di molte delle posizioni assunte sul conflitto Israele/Hamas-Palestina-Gaza… La mia preoccupazione in questo saggio è il motivo per cui non siano emersi durevolmente sentimenti e movimenti filo-ucraini altrettanto intensi e diffusi al di fuori delle popolazioni ucraine, adiacenti all’Ucraina e della diaspora connessa. In altre parole, non capisco perché non ci sia un bacino di utenza postcoloniale trasversale, che va da Ovest a Sud, altrettanto ampio per la liberazione dell’Ucraina dalla sottomissione imperiale-coloniale. Non hanno forse visto le immagini?”
È innegabile che, al netto di tutti gli sforzi che si sono compiuti e si stanno ancora compiendo, il punto di vista privilegiato da cui si guarda a quell’ampia e sfaccettata regione, sia nell’accademia che, con ricadute molto pesanti, nell’informazione e nei dibattiti culturali pubblici sia ancora quello della Russia e della sua tradizione profondamente radicata e sempre ampiamente promossa su più livelli. Sarà interessante, nel corso dei prossimi anni, osservare quali potranno essere gli effetti dei dibattiti più recenti sulla consapevolezza del pubblico extra-accademico.
Sulla stessa lunghezza d’onda, nel 2024 Moore poneva un’importante domanda di fondo: “Quale è il senso o il vantaggio di identificare uno stato come postcoloniale? Perché cercare di farlo, rispetto alle alternative?”. Se secondo lo studioso di culture afroamericane, “da un punto di vista geopolitico, nel XXI secolo rivendicare l’oppressione coloniale potrebbe essere l’unica via accettata per raggiungere la libertà sovrana”, d’altra parte negli studi umanistici “una nuova etichetta coloniale/postcoloniale incoraggia letture che superino divisioni raramente superate”. Si pensi, per esempio, al caso di Nikolaj Gogol’, “scrittore russo per eccellenza” solitamente presentato accanto a Puškin, Tolstoj e Dostoevskij agli apici del canone letterario della Russia, sulla cui complessa identità e sui risvolti letterari di quest’ultima si è scritto non poco negli ultimi vent’anni, con tre ampie monografie in inglese sulla sua ucrainicità disponibili a chi voglia approfondire questo tema. Anche le più recenti storie della letteratura ucraina hanno iniziato a trattare Mykola Hohol’ come uno scrittore ucraino che aveva scelto di perseguire la carriera letteraria nell’alveo della tradizione imperiale affermata, privilegiando quest’ultima a quella precaria, rischiosa e rivoluzionaria della cultura ucraina, allora ridotta dall’impero a esotismo appunto coloniale. Ora che la natura ucraina di Hohol’/Gogol’ ha iniziato a essere esplorata, sarà interessante osservare se e quando il mercato editoriale e la percezione dei lettori e delle lettrici si apriranno alla complessità della sua figura, che con la sua identità tanto ucraina quanto russa rappresenta un ottimo caso di studio da approcciare con gli strumenti offerti dal pensiero postcoloniale.
Tra gli aspetti più interessanti dei dibattiti sul carattere coloniale della dominazione russa e poi sovietica sui Paesi che hanno raggiunto l’indipendenza dopo il 1991, pur nella consapevolezza dell’ampiezza e della fluidità delle dinamiche identitarie nell’area, c’è proprio la questione dei risvolti sociali di questi dibattiti, a metà tra accademia e vita pubblica. L’esempio più lampante è quello delle discussioni sulla decolonizzazione (e la relativa decomunistizzazione) in Ucraina come pratica sociale e politica, sia in seguito all’inizio dell’invasione russa del 2014 e tanto più con l’aggressione su larga scala. Si pensi a Serhij Žadan, il più noto e influente scrittore ucraino contemporaneo, che nel 2024 si è arruolato nella brigata Chartija della Guardia Nazionale ucraina, che ha sede a Charkiv, la sua città di adozione. Prima del 2022, Žadan era un fautore del dialogo tra scrittori ucrainofoni e cultura russofona e russa, ma l’aggressione su larga scala ha radicalmente cambiato il suo approccio. Negli ultimi tre anni, Žadan si è fatto promotore della rimozione delle tracce del passato sovietico dalle città dell’Ucraina, città quotidianamente danneggiate dagli attacchi russi. Il puškinopad (caduta delle statue di Puškin) ha così preso il posto del leninopad (caduta delle statue di Lenin) di qualche anno prima.
Si tratta di temi che molto spesso suscitano reazioni polarizzate tra gli osservatori stranieri, mentre tra le lezioni che gli studi postcoloniali e decoloniali dovrebbero insegnare c’è proprio quella di limitarsi a descrivere e analizzare questi fenomeni, invece che di giudicarli o condannarli da un punto di vista estetico o assiologico: uno studio che può consentirci di comprendere come il processo di ‘colonizzazione culturale’ non si sia fermato al 1991, e come l’età post-sovietica sia stata foriera di molteplici tentativi di strumentalizzare la cultura, “spostando, danneggiando o destabilizzando” i termini di uno spazio politico e sociale complesso come quello ucraino, in cui persone, progetti politici e visioni della storia si erano da poco avviati a creare le basi di una (non sempre facile) convivenza pacifica. Solo in questi termini possiamo quantomeno cercare di comprendere la necessità di un uomo di lettere come Žadan di arruolarsi nell’esercito e di partecipare ad attività etichettate in Occidente come pratiche di “cancel culture”, laddove i confini tra la protezione dello spazio culturale nazionale e la censura rischiano oggi di restare poco visibili e oggetto di fraintendimenti.
Tra le possibilità concrete offerte dagli approcci postcoloniali e decoloniali, ancora una volta a metà tra accademia e dibattiti pubblici, con ricadute sul mondo della scuola e su quello della cultura proposta tanto dall’alto quanto dal basso, ci sono per esempio questi ambiti:
- una maggiore attenzione alle culture slave, dell’Europa centro-orientale e dell’Asia centrale nel loro complesso e nelle loro singolarità;
- lo studio della russofonia culturale e letteraria come alternativa a una visione antiquata e imperiale di tutti i fenomeni culturali in lingua russa come automaticamente “russi”;
- lo studio delle altre culture che si sono sviluppate e si sviluppano all’interno dei confini della Federazione Russa, molto spesso schiacciate dal centro e a rischio;
- e, infine, la decostruzione del canone culturale russo, al fine di riportare la polifonia e la pluralità di voci che ne hanno determinato e/o contestato l’affermazione in prospettiva storica.
La creazione di nuove traiettorie di senso per comprendere l’esperienza culturale e storica della Russia, dell’Ucraina e delle molteplici realtà sorte dal crollo dell’Unione Sovietica resta ancora oggi un “atto profondamente politico” (oltre che etico) per cercare di descrivere e analizzare fenomeni che rischiano di rimanere incastrati tra le interpretazioni strumentali delle rispettive élite politiche e il retaggio di dinamiche di produzione del sapere scientifico ancora disfunzionali.

