(di Carlangelo Mauro)
21 giugno 2025
alle 10:45
Massimiliano Di Pasquale, ricercatore dell’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e Studi strategici dove dirige l’Osservatorio Ucraina, e Irina Kashchey, giornalista ucraina da anni in Italia che dal 2022 presenta il telegiornale in lingua ucraina di Rainews24, sono gli autori di uno studio intitolato Narrazioni strategiche russe nei libri di testo delle scuole secondarie di primo grado italiane, che indaga l’incidenza della disinformazione e della propaganda russa in un campione di manuali scolastici. Il caso nasce nel 2021, da un post su Facebook di Tetyana Bezruchenko, attivista ucraina, che leggendo il manuale di geografia della figlia aveva notato serie distorsioni confrontabili con le narrazioni del Cremlino. L’interesse per la questione prosegue negli anni successivi con alcuni articoli, ma scoppia con le dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione Valditara nel 2024 e con diversi servizi sui media nazionali.
Come afferma Di Pasquale, che abbiamo intervistato telefonicamente, si tratta di «libri di geografia tra i più adottati nelle scuole e pubblicati dalle case editrici leader nel mercato, intesi per la seconda media, nell’ambito dello studio dell’Europa. Il campione di questi 28 libri è stato selezionato sia seguendo le segnalazioni pervenute, sia con un metodo casuale. Vengono prese in esame le narrazioni di base, cioè i messaggi ricorrenti che si trovano nella stragrande maggioranza di questi 28 testi, lungo un arco cronologico di 15 anni, dal 2010 al 2024, a riprova che le narrazioni strategiche russe sono talmente diffuse da penetrare finanche nei manuali scolastici».
Di Pasquale afferma che in diversi testi «l’Ucraina è presentata come uno stato fallito – mentre nel 2021 il Pil ucraino ha sfiorato i 200 milioni di dollari – e nato quasi casualmente dalla distruzione dell’URSS. Da studioso di disinformazione, mi preme sottolineare che la propaganda russa si serve di tale narrazione non solo per l’Ucraina, ma anche per i Paesi Baltici e la Moldova, che sarebbero tutti Stati artificiali e falliti. È “tradizione” russa di antica data quella di disumanizzare i popoli limitrofi negando il loro processo di autodeterminazione, la loro sovranità… Ricordiamo che l’Ucraina non nasce nel 1991; il 22 gennaio 1918 la Rada Centrale di Kyiv dichiarò l’indipendenza della Repubblica Popolare Ucraina, che si unì poi alla Repubblica popolare dell’Ucraina Occidentale in un unico stato. Ma potremmo tornare indietro al Cosaccato, interrotto nel 1709 dalla guerra dello zar Pietro I e dal suo processo di russificazione…».
Il saggio di 60 pagine, analitico e ottimamente strutturato nelle sue parti, fa riflettere sulla permeabilità della cultura italiana rispetto alle narrazioni strategiche russe, elemento già oggetto di un altro studio del 2021 di Di Pasquale e Luigi Sergio Germani.








Fatta salva la buona fede (come recita anche la dicitura contenuta all’interno del lavoro: «questo studio non intende in alcun modo affermare che le case editrici e gli autori citati abbiano delle connessioni con la Federazione Russa o con attori governativi o non-governativi al suo interno»), errori, sviste e omissioni ci sono anche dal punto di vista storico. Nel volume Campo base 2. Stati d’Europa (2016), come rilevano gli autori dello studio, si evidenzia il ruolo molto positivo di Stalin per lo sviluppo economico dell’URSS, laddove per gli autori del paper i risultati del dirigismo economico staliniano furono «un autentico disastro». Tale fu anche l’Holodomor, «la carestia artificiale» causata da Stalin nel 1932-33, che in Ucraina costò milioni di morti per fame ed effetti anche economici devastanti (p. 46 del paper), e che era intesa a «estirpare» la stessa «identità ucraina».
Su un piano più generale, sono evidenti la mancanza di approfondimento sull’invasione russa dell’Ucraina (2014-2022, e ora in corso), ormai debitamente ricostruita da accademici e specialisti di Europa Orientale. Quanto mai necessaria in tal senso, perciò, si rivela la pubblicazione di questo studio.
Il regime russo, è notorio, ha investito somme ingenti per il suo apparato di disinformazione e propaganda allo scopo di modernizzare, come si legge nel saggio, «la tradizione sovietica delle misure attive, sfruttando le tecnologie del XXI secolo e le nuove potenzialità offerte dal cyberspazio per la manipolazione» dell’opinione pubblica occidentale. Questa strategia ci espone potenzialmente tutti alla guerra ibrida del regime, che ha come obiettivi quelli di condizionare la percezione comune, indebolire le democrazie occidentali e far cessare gli aiuti e i rifornimenti militari agli ucraini per trasformarli in una colonia russificata. La prima parte del paper è appunto incentrata sulla «guerra cognitiva» e il suo campo di battaglia, la mente umana, tema già discusso da Di Pasquale in una precedente intervista da me curata. Fondamentale è, quindi, l’«uso della cultura come arma bellica (culture weaponisation)», come viene richiamato nel saggio (a p. 27).
La guerra ai danni dell’Ucraina ha avuto in realtà tre fasi: la campagna di Crimea e quella del Donbas, entrambe nel 2014 (le invasioni militari russe contrabbandate come annessione con referendum la prima, la guerra civile interna all’Ucraina la seconda) e, infine, l’invasione su larga scala dell’Ucraina nel 2022 con la colonna di carri armati diretti sulla capitale Kyiv per sostituire il governo ucraino eletto del Presidente Zelensky con un governo fantoccio di Mosca guidato dall’oligarca filorusso Viktor Medvedchuk .
Ricordando che Papa Francesco ha parlato di “guerra mondiale a pezzi”, per l’Ucraina si può parlare di una guerra imperialista a pezzi.
Il 27 febbraio del 2014, come ha scritto lo storico dell’Università di Harvard Serhii Plokhy, «una banda di uomini pesantemente armati» e privi di mostrine prese il controllo del palazzo del parlamento della Crimea mentre altri russi prelevavano i deputati per portarli a votare per Aksenov, «personaggio chiave della malavita crimeana» e guida di «un partito sponsorizzato dai servizi segreti di Mosca» che alle elezioni parlamentari della Crimea aveva preso il 4% (Il ritorno della storia, Mondadori, pp. 144-145). In un contesto simile si può capire quale valore abbia il referendum che seguì in Crimea. Lo storico russo Andrej Zubov, dell’Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali, ha paragonato l’annessione della Crimea a quella dell’Austria compiuta da Hitler nel 1938.
Poste queste premesse e ritornando al saggio Narrazioni strategiche, Di Pasquale e Kashchey affermano che nella «maggioranza dei libri esaminati il territorio della Crimea viene escluso dal computo della superficie complessiva dell’Ucraina, pur facendone ancora parte secondo il diritto internazionale», e che «il cosiddetto referendum del marzo2014» è «citato in tutti i libri», mentre non si parla del colpo di stato manu militari della Crimea da parte della Russia, con 35mila uomini impiegati nell’operazione complessiva (p. 24). Nel volume Katmandu 2 troviamo che «la Crimea è tornata alla Russia» – mentre invece è territorio ucraino – con tanto di referendum; in Geo Green 2, uscito nel 2015, «il conflitto politico ed etnico latente è esploso con violenza nel 2014. In marzo, gruppi filorussi hanno indetto un referendum in Crimea […] che ha sancito a larga maggioranza il ritorno della regione tra i domini russi».
Un’altra mancanza diffusa nei manuali ed evidenziata dagli autori è che nella composizione etnica della Crimea non si parla mai del 13% dei Tatari (gli Ucrani sono il 24%), che però fino all’annessione russa del 1783 erano l’83%, quindi una componente storicamente prevalente, mentre nel volume Il giramondo (2010) si sostiene, parlando di «Donetsk, principale centro del Donbas, che vi esiste una maggioranza etnica russa, falsando i dati del censimento del 2001» (p. 19). I russi nell’oblast’ di Donetsk erano infatti il 38% della popolazione.
La narrazione del regime sulla guerra nel Donbas del 2014 ha avuto una larga eco in Italia: quotidianamente, anche sui social e in TV, è definita da sempre come “guerra civile”. Per confutarlo basterà citare un intervento del 2022 di un altro storico, Simone Attilio Bellezza (Università del Piemonte Orientale) che scrive: «Igor Girkin, un russo noto con il nome di battaglia di Strel’kov, divenne il capo delle forze armate delle cosiddette repubbliche popolari nel maggio 2014». Nel saggio, Di Pasquale e Kashchey evidenziano come lo stesso personaggio, nell’ambito di un progetto unitario, fosse «uno dei miliziani artefici del golpe crimeano» e avesse pubblicamente «ammesso di essere responsabile dell’avvio della guerra in Donbas», e di aver guidato «un gruppo di militanti russi armati a prendere il controllo della cittadina di Sloviansk» (p. 10). Ma ecco che, ad esempio, nel manuale VerdeAzzurro. Un pianeta da proteggere (2021), «la crisi del 2014 viene descritta come una guerra civile provocata dalla minoranza russa residente in Ucraina».
Scorrendo il paper, un altro errore si ripete in diversi manuali, ossia quello di considerare la Rus’ di Kyiv come madre della nazione russa, come più volte ribadito nei discorsi e negli scritti di Putin. In Ti racconto il mondo, vol. 2 (2019) si legge infatti: «Gli inizi della storia russa coincidono con la nascita del principato di Kiev, nel IX secolo d. C.», In realtà, invece, non si può considerare La Rus’ di Kyiv come prima capitale dell’impero russo, poiché all’epoca dell’apogeo della Rus’ di Kyiv, futura capitale dell’Ucraina, intorno al Mille, Mosca non esisteva proprio».
Immancabile la questione dell’espansione a est o dell’accerchiamento della Russia da parte della NATO, uno dei capisaldi della narrazione strategica del regime di Putin (per quanto la NATO non abbia operato né annessioni, né conquiste con i carri armati nell’Europa Orientale, mentre il ricordo dei carri sovietici del ’56 in Ungheria e nel ’68 a Praga potrebbe essere, al contrario, un buon argomento didattico). Nel volume Aral 2 leggiamo che «anche l’Ucraina aveva manifestato l’intenzione di entrarvi [nella NATO], ma Putin non voleva ritrovarsi accerchiato». Frase che, da lettore, anche a me appare quasi come una giustificazione dell’invasione preventiva di Georgia e Ucraina, che nella NATO a tutt’oggi non sono entrate e che, come paesi sovrani, avevano e hanno tutto il diritto all’autodeterminazione.
Altra definizione scorretta è quella secondo la quale oggi Ucraina, Bielorussia, Moldova e Paesi Baltici facciano parte con la Russia di una sedicente «“Regione russa”» (cfr. Namaskar, volume 2: Europa, del 2019 e diversi altri manuali). La si potrebbe intendere, come commentano gli autori, come Regione ex sovietica, essendo l’URSS caduta nel lontano 1991. Tuttavia, Lituania, Lettonia ed Estonia sono parte della Nato e dell’Europa dal 2004, e le diversità culturali e linguistiche tra la Russia e questi paesi sono innegabili, come gli autori del saggio puntualizzano. Anche in questo caso si può notare come sia diffusa nei manuali una mentalità russocentrica ‒ a partire dalla traslitterazione dominante, dal russo, dei toponimi ucraini ‒ riconducibile alla narrazione imperialista russo-sovietica che nega la sovranità dei cosiddetti «territori limitrofi» (p. 26); Putin afferma che ucraini e russi sono un unico popolo, come ricordano gli autori (p. 21), che com’è ovvio deve avere lui alla guida.
Nei manuali esaminati nel paper si trovano anche delle cose divertenti per i ragazzi delle medie, come per esempio calcolare le distanze fra le città per organizzare un viaggio in Russia, esercizio proposto nel volume Aral 2. Peccato che tra le 10 città «definite “russe”», ben 4 siano ucraine e 3 dei Paesi Baltici.
Un’altra delle narrazioni di base dei manuali analoga alla succitata “Regione russa”, è riassumibile in questo assunto degli autori del paper: «la cultura dell’Europa orientale coincide con la cultura russa».
Nei manuali non c’è spazio per la cultura ucraina, bielorussa, lettone, georgiana ecc., se non assimilandole a quella russa.
Uno strabismo culturale diffuso, aggiungerei. In uno dei quattro manuali cui nella parte finale del paper viene dedicata un’«analisi dettagliata» – La geografia per tutti, vol. 2 (2018) – nell’elenco dei «“protagonisti della cultura dell’Europa Orientale”», 16 sono russi, mentre mancano per l’Ucraina Taras Shevchenko e per la Bielorussia Uladzimir Karatkevich, due classici della letteratura di quei paesi. «La celebrazione dell’arte russa» (p. 59) senza distinzioni nazionali può cancellare l’identità culturale di popoli che sono stati vittime proprio dell’espansionismo russo e del suo imperialismo culturale. Nel paper è richiamato opportunamente un intervento della docente Gina Pigozzo uscito su “Micromega” nel 2022: «Quanti scrittori ukraìni passano per russi? Ma nell’impero si poteva scrivere e studiare solo in russo. Gogol’, Čechov, Bulgakov, Šolochov e altri, avanguardie, futuristi, costruttivisti (Tàtlin, Malèvič, i Burljùk, Kručënych, la Delaunay) tutti nati e cresciuti in Ukraìna. Lo stesso per tanti registi, scienziati, e matematici. Per edificare il socialismo in Urss e in certe carriere di fatto si usava la lingua di Mosca. Se difendevi le nazionalità passavi per “nemico dell’internazionalismo proletario”».
Come ha affermato Massimiliano Di Pasquale in chiusura del nostro colloquio,
«nessuno dei 28 libri parla della russificazione; ma se non parliamo della russificazione non possiamo comprendere correttamente le realtà di questi paesi postcoloniali, dove la cultura nazionale è sempre stata repressa, prima dallo zar, poi dai soviet, oggi da Putin. Anche con il sangue».

