(di Katia Margolis)
02 luglio 2025
alle 11:08
Parlare del colonialismo russo è difficile, perché non è ancora stato chiaramente definito come tale: è un angolo cieco per il mondo e per la stragrande maggioranza dei russi stessi. Questo non è dovuto al caso. Molte risorse dell’Impero russo sono state utilizzate per creare e alimentare il mito secondo cui la Russia non è mai stata e non è tuttora un impero coloniale, o se lo è, si tratterebbe di un impero del tutto particolare, che quindi non ha bisogno di decolonizzazione, o che ne ha bisogno in modo diverso dal resto del mondo passato attraverso l’esperienza coloniale. Questa tesi è sostenuta non solo dai funzionari statali e dai propagandisti, ma anche da alcuni fieri oppositori dell’attuale regime. La vecchia malattia dell’imperialismo non risparmia quasi nessuno, sia nella sua forma aggressiva acuta (come nel caso dei sostenitori di Putin e della guerra d’aggressione all’Ucraina) sia nella sua forma cronica tra i “guardiani della cultura russa”.
L’identità russa è talmente inseparabile dall’eredità imperiale che qualsiasi critica al colonialismo russo, qualsiasi suggerimento di guardarsi dall’esterno, di chiamare le cose con il loro nome, viene percepita come un attacco personale e una minaccia identitaria. La parola “decolonizzazione” diventa inevitabilmente un elemento scatenante di reazioni emotive che sono più che prevedibili, perché la decolonizzazione implica una precedente colonizzazione, che è proprio ciò che non si vuole ammettere.
La storia è scritta dai vincitori. La conoscenza è plasmata dai conquistatori. Non sono solo (e spesso non tanto) i territori, ma è l’epistemologia ad essere il campo delle pratiche coloniali. L’impero governa il modo in cui la conoscenza su di esso si forma nel corso delle generazioni tra i rappresentanti e i discendenti dei colonizzatori e dei colonizzati.
I russi antiputiniani affermano che la principale linea di frattura in relazione all’aggressione della Russia contro l’Ucraina si trova tra i sostenitori del regime e coloro che ad esso si oppongono. Ma gli ucraini e i rappresentanti indipendenti dei popoli della Federazione Russa vedono il problema in modo diverso e in una prospettiva storica molto più ampia. Si tratta della storia della colonizzazione, della russificazione forzata, della violenza, della repressione, della cancellazione dell’identità e delle guerre coloniali e imperiali condotte dalla Russia nel corso della sua storia e, soprattutto, del suo colonialismo epistemologico: la costruzione di un sapere su sé stessa, la normalizzazione di queste pratiche agli occhi della propria popolazione e del mondo, la repressione e l’emarginazione attiva delle voci che si oppongono a tali pratiche.
Quello che Hannah Arendt chiamava il boomerang coloniale – l’applicazione della repressione praticata nelle colonie alla popolazione della metropoli – forse in Russia non è stato un boomerang. L’educazione repressiva, l’esperienza indispensabile dell’umiliazione, la normalizzazione della violenza, la privazione dei diritti e l’assenza di regole sono caratteristiche tipiche del trattamento riservato alla popolazione dallo Stato russo. Tuttavia, non solo la vittima e l’aggressore possono essere, una dopo l’altra, un unico soggetto, ma spesso si rivelano essere la stessa persona, sia in una prospettiva storica che all’interno della stessa biografia. Ecco perché la guerra anacronistica contro l’Ucraina è stata possibile: si basa su una coscienza imperiale patriarcale plasmata da secoli di repressione, per la quale l’umiliazione e la paura non fanno altro che legittimare il diritto del più forte, e per la quale la logica del dominio è il modello di base. La Russia è un paese con legami spezzati, i cui abitanti spesso non conoscono nemmeno la storia della propria famiglia. L’assenza di protezione e l’arbitrarietà della repressione formano nella popolazione il complesso dell’orfano, con la sua sindrome da disturbo dell’attaccamento e il desiderio di vendetta, di cercare non la giustizia ma solo l’occasione di scambiarsi di posto con i criminali e di assumere il ruolo del più forte. È così che funzionano il nonnismo e la coazione a ripetere, in cicli di violenze grandi e piccole.
Ecco perché ogni forma di violenza è così facilmente accettata, ecco perché non solo la xenofobia ma anche la misoginia sono così strettamente legate all’imperialismo.
La negazione del colonialismo russo è un atteggiamento che lega l’ala anti-Putin della società russa (sia nella metropoli che nella diaspora) all’ala pro-Putin. Lo sciovinismo russo, in tutte le sue manifestazioni, forme e gradi, è radicato nella storia e nell’inconscio culturale molto più profondamente del putinismo.
Persino una persona degna di ammirazione come Julija Naval’naja ne ha dato un esempio in un discorso da lei pronunciato in Slovenia nel settembre 2024, quando ha detto: “Ci sono anche quelli che parlano della necessità di smembrare urgentemente la Russia. Secondo loro, bisognerebbe dividere il nostro Paese, apparentemente troppo grande, in una ventina di piccoli Stati innocui. Tuttavia, questi smembratori non sono in grado di spiegare perché persone che condividono lo stesso passato e lo stesso contesto culturale dovrebbero essere separate artificialmente. Né precisano come una cosa del genere potrebbe avvenire”.
Dietro questa retorica si nasconde il rifiuto fondamentale di studiare le radici storiche e i metodi di creazione di questo “contesto culturale comune” con i popoli conquistati, russificati con la forza e in parte sterminati: l’ignoranza della storia dei ceceni, degli ingusci, dei buriati, dei baschiri, dei calmucchi, dei tuvini, degli jakuti, degli adigei, dei vepsi o dei keti.
Anche i russi istruiti, compresi quelli che vivono da tempo in Occidente, manifestano un’istintiva reazione: “E allora gli altri?”. Provate ad affrontare il tema del colonialismo russo, in particolare quello culturale, e tirate fuori il cronometro. Potete stare certi che nel giro di pochi secondi sentirete il nome di Kipling e la conversazione virerà sul colonialismo britannico, spagnolo o di qualsiasi altro tipo, tranne quello russo.
Gli orologi storici nella mente dei russi sono bloccati da oltre mezzo secolo e ignorano l’immenso lavoro di decolonizzazione che è stato fatto: intere biblioteche scritte su Kipling, l’esistenza di dipartimenti di studi postcoloniali in molte università, programmi scolastici e universitari, e persino l’apparato di contestualizzazione che da tempo accompagna l’eredità culturale imperiale, compresa la letteratura per bambini. Tutto questo gigantesco lavoro, in corso in molti paesi del mondo da quasi settant’anni, rimane invisibile alla maggior parte degli intellettuali liberali russi.
Oltre al whataboutism, un’altra difesa tipica quando si parla di colonialismo russo è quella di evocare i “sinistroidi” occidentali di oggi, lamentandosi del wokismo e della generazione Snowflake come principale pericolo mondiale – il che, detto da chi sta conducendo una sanguinosa guerra genocida, è a dir poco paradossale.
Il terzo argomento contro la «decolonizzazione» sarà inevitabilmente un’inversione fallace dell’argomento. Ad esempio, invocando l’essenzialismo e la sua critica. Come se i sostenitori della decolonizzazione affermassero che l’imperialismo epistemologico non fosse un insieme di pratiche e narrazioni ben precise e storicamente sviluppatesi, ma piuttosto una caratteristica innata dei colonizzatori.
Il meccanismo principale, sia dell’epistemologia che dell’apologia del colonialismo russo, è quello che il filosofo Michail Judanin ha giustamente definito “la costruzione del subalterno”, nella sua recente conferenza nel nostro corso Russia e decolonizzazione: un’introduzione. L’aggressore si presenta come una vittima e la sua espansione come una difesa. Questo procedimento discorsivo non è nuovo, ma il colonialismo russo ne ha fatto il suo pilastro centrale.
Si basa su un fenomeno più globale, la condizione di vittima – una peculiarità della coscienza russa legata al complesso dell’orfano e che oggi si manifesta con particolare forza. La vittimizzazione e l’aggressività vittimistica che la accompagna necessariamente fanno parte del complesso dell’individuo traumatizzato. Ma qui stiamo parlando di un’intera società con un modello educativo repressivo, un’esperienza fondativa di violenza e umiliazione, una società con molti traumi non elaborati.
L’autoattribuzione dello status di vittima e le relative narrazioni sono diffuse tanto tra i russi pro-Putin quanto tra quelli anti-Putin, indipendentemente dal loro grado d’istruzione, dal loro retroterra sociale o dalla loro situazione economica. Si va da “se non fossimo stati lì, ci avrebbero attaccato” a “siamo tutti vittime di questa guerra”, come se la guerra fosse una catastrofe naturale, come se non avesse iniziatori, autori e agenti, incarnati da milioni di persone comuni.
Si tratta della costruzione della propria immagine di vittima e della certezza del proprio diritto a occupare un posto centrale in qualsiasi situazione, dagli equilibri geopolitici ai festival letterari internazionali. Se questo diritto e questo status vengono messi in discussione, la reazione immediata è l’aggressione. Verbale o militare.
Un altro tratto che accomuna diverse parti dello spettro politico e sociale in Russia è la certezza dell’eccezionalità e della “via particolare” del Paese. Ecco gli elementi del discorso che lo accompagna: la Russia non è davvero un impero. I russi non sono quindi imperialisti, ma sono anch’essi vittime dello Stato russo. Il colonialismo russo non è proprio colonialismo, o non è affatto colonialismo. La colonizzazione non era colonizzazione, tutti venivano uccisi (ciò ricorda molto chiaramente la retorica antisemita sovietica della marginalizzazione dell’Olocausto: “I comunisti, gli zingari e gli antifascisti, i rappresentanti di diversi popoli, compresi gli ebrei, sono stati uccisi”), e quindi la “decolonizzazione” merita di essere messa tra virgolette aggressive, difensive e sprezzanti. Questa idea vi sarà suggerita con lo stesso fervore dalla storica anti-Putin Tamara Eidelman, come da un qualsiasi fan di Aleksandr Dugin.
Non è forse questa percezione acritica di sé e questa vittimizzazione alla base della coscienza nazionale che spiegano la popolarità del libro di Alexander Etkind Internal Colonization, che descrive la particolare via del colonialismo russo, a suo dire diretto contro gli stessi russi?
C’è un altro argomento che ha un peso: qualsiasi discorso sulla decolonizzazione può essere presentato come separatismo, e gli appelli al ripristino della giustizia storica, del diritto all’autodeterminazione e della sovranità possono essere presentati come una violazione dei confini internazionalmente riconosciuti. Questo argomento è stato utilizzato efficacemente sia dalla propaganda di Putin sia dall’opposizione russa. E funziona.
Non c’è da stupirsi, però.
Spesso gli esperti occidentali sulla Russia provengono da dipartimenti di studi slavi, dove la narrazione imperiale e il russocentrismo sono stati e rimangono la norma.
I professori stranieri che, a Mosca, si sono formati nelle cucine tardo-(e anti-)sovietiche hanno assorbito i concetti comuni nella cultura russa, tra i quali l’idea della Russia come grande impero coloniale è semplicemente assente.
Naturalmente ci sono delle eccezioni: i lavori di Ewa Thompson e di altri, ma non hanno cambiato la situazione generale, né negli studi slavi né nella coscienza pubblica. Soprattutto perché la Russia ha investito e continua a investire molto per mantenere il mito della propria grandezza culturale e storica, del proprio eccezionalismo e, soprattutto, del proprio mistero.
Olena Apchel, regista teatrale attualmente arruolata nelle forze armate ucraine, ha scritto un brillante articolo su questo tema: “Da molti anni, quando parlo con colleghi provenienti dalla bolla artistica di diversi paesi del desiderio degli ucraini di uscire finalmente dalla sfera di influenza imperiale della Russia, non incontro tanto disaccordi o malintesi quanto una certa nostalgia e un risentimento inespressi. C’è una pigrizia intellettuale sottintesa: come potrei ora studiare tutto da capo, cambiare prospettiva? Diventare ignorante per un certo periodo, concentrarmi su tutto e dire sinceramente: “Non ne so nulla”? È spaventoso. […] È una sensazione molto sgradevole. Ieri eri uno storico dell’arte, un critico letterario, un curatore, un direttore d’orchestra, uno scrittore, uno storico, un critico culturale di alto livello, o un giornalista, o un sociologo famoso, e oggi ti rendi conto che ciò che sai è come minimo parziale, o più semplicemente del tutto sbagliato. […] Ma la pigrizia intellettuale prevale sul disagio. E ci si abitua alle notizie quotidiane di morti e distruzione, non si presta più attenzione alle richieste di aiuto, si torna ai propri ritmi di lavoro abituali e alle proprie precedenti connessioni intellettuali”.
La decolonizzazione epistemologica è rilevante per i russi, ma anche per gli occidentali. Deve andare di pari passo con la deimperializzazione della struttura stessa della conoscenza sulla Russia, l’analisi delle radici imperiali della sua cultura e della sua storia. Altrimenti, i laureati di Harvard o Oxford non solo saranno involontariamente utilizzati dalla propaganda del Cremlino, ma lavoreranno essi stessi al mantenimento del dominio imperiale russo.
Un importante passo avanti in questa direzione è la risoluzione sulla decolonizzazione della Russia adottata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Apce) il 18 aprile 2024. Questo documento stabilisce la posizione ufficiale dell’Apce nei confronti della Russia:
1. La Russia è federale solo in apparenza.
2. I popoli indigeni sono sottoposti con la forza alla russificazione e all’assimilazione, e gli attivisti dei movimenti nazionali sono perseguitati.
3. Le perdite dei popoli indigeni nelle forze armate russe sono sproporzionate, il che è il risultato di una politica deliberata della Russia.
4. La decolonizzazione è una condizione necessaria per l’instaurazione della democrazia.
Il documento utilizza per la prima volta il termine “popoli indigeni colonizzati della Federazione Russa” (“colonised indigenous peoples of the Russian Federation”). Purtroppo, è improbabile che formulazioni simili vengano adottate a breve dai liberali russi. Ma forse non ha più importanza. Il loro atteggiamento nei confronti della questione della decolonizzazione della propria coscienza è ben sintetizzato dalla barzelletta russa del vaso rotto: “Primo, non ho preso il vaso. Secondo, l’ho restituito integro. E in ogni caso, quando l’ho preso era già rotto”.
Questo articolo è apparso originariamente in francese sul sito Desk Russie.

