Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola, L'età delle migrazioni forzate

Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953 Bologna, Il Mulino, 2012

Solo Israele aprì le porte ai superstiti della Shoah
Tutti gli Stati limitarono l’immigrazione ebraica
L’inizio della catastrofe Gli spostamenti di popolazioni s’intensificano dopo l’accordo Molotov-Ribbentrop del 1939
di PAOLO MIELI
Corriere della Sera – 21 febbraio 2012

In principio furono gli assiri, repressori di intere popolazioni nell’età antica. Ma anche Roma fece la sua parte nel disperdere popoli, ad esempio dopo la distruzione di Cartagine (146 a.C.) e a conclusione della guerra giudaica (70 d.C.). Espulsioni di comunità ebraiche si ebbero dall’Inghilterra nel 129o, dalla Francia nel 1306, nel 1322 e nel 1394, dal Portogallo tra il 1496 e il 1507. La più consistente fu quella dalla Spagna (e dall’Italia meridionale) nel 1492: 4o mila ebrei rifiutarono di convertirsi al cattolicesimo, furono costretti a vendere le loro proprietà e dovettero abbandonare la loro terra. Stessa sorte toccò agli islamici: all’inizio del XVII secolo, Filippo III di Spagna ordinò l’espulsione dei moriscos, discendenti dei musulmani costretti a farsi cattolici al momento della reconquista, conclusasi nel 1492 con la distruzione dell’emirato di Granada da parte di Ferdinando il cattolico; tra il 16og e il 1614 quasi 300 mila persone (più o meno il 4 per cento dell’intera popolazione) furono obbligate a lasciare la Spagna per trasferirsi in Africa settentrionale. Nel 1633 6o mila puritani inglesi, nel timore di essere perseguitati allorché William Laud divenne arcivescovo di Canterbury, emigrarono in America. Nel 1685 200 mila ugonotti fuggirono dalla Francia di Luigi XIV dopo la revoca dell’editto di Nantes con il quale, 87 anni prima Enrico IV aveva concesso la libertà religiosa. Trasferimenti tragici che coinvolsero deciLe espulsioni dei tedeschi Dopo la Seconda guerra mondiale un trasferimento immenso accompagnato da gravi violenze ne, centinaia di migliaia di persone. Ma quello che va dalla guerra di Crimea alla morte di Sta-lin (1853-1953) è stato un secolo sotto questo profilo davvero eccezionale. Un secolo caratterizzato dallo spostamento non volontario di milioni di essere umani: 3o per l’esattezza. D più grande esodo coatto della storia europea. Anzi della storia di tutta l’umanità, scrivono Antonio Ferrara e Niccolò Pianciola nell’assai interessante L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa 1853-1953 che il Mulino si accinge a mandare in libreria. La maggior parte dei trasferimenti di popoli — secondo due studi editi di recente: La politica dell’odio. La pulizia etnica nell’Europa contemporanea di Norman M. Naimark (Laterza) e Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica di Michael Mann (Egea) — si concentrò nel periodo di crisi iniziato con le guerre balcaniche e terminato otto anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale con la morte del dittatore georgiano. Tra la guerra di Crimea e le guerre balcaniche (1853-1913) le migrazioni forzate coinvolsero circa un milione e zoo mila persone; durante il primo conflitto mondiale e nei tempi immediatamente successivi (1914-1923) furono deportati o espulsi circa sette milioni e 3oo mila individui; nel periodo tra le due guerre in Unione Sovietica furono «spostati» due milioni e 600 mila esseri umani; che in epoche successive, quelle del secondo conflitto mondiale, crebbero, in tutta Europa, a 20 milioni per via del progetto imperiale nazista, delle deportazioni sovietiche subito prima, durante e subito dopo la guerra, degli scambi di popolazione tra gli Stati satellite della Germania e delle politiche contro le popola *** zioni tedesche successive alla sconfitta hitleriana. Si è trattato in molti casi di vera e propria «chirurgia demografica» (o «demotomia» secondo la recente proposta terminologica di Andrea Graziosi). La parte principale dell’«età delle migrazioni forzate» in Europa è concentrata tra le guerre balcaniche (1912-1913) e il consolidamento del potere sovietico nei territori conquistati con il secondo conflitto mondiale. La stagione, per intenderci, che fa da sfondo a Tutto scorre… di Vasilij Grossman (Adelphi). Non va inclusa, invece, nella categoria delle migrazioni forzate la massiccia emigrazione ebraica dall’Impero russo tra il 1881 e la prima guerra mondiale — quasi due milioni di persone, il 78,6 per cento dei quali si diresse verso gli Stati Uniti — nonostante fosse causata «in non piccola misura da pogrom e discriminazioni» e nonostante «fosse vista con soddisfazione da parti importanti dell’amministrazione zarista, soprattutto dal ministero degli Interni», e «agli israeliti fosse fatto divieto, una volta usciti, di tornare in Russia». Va poi notato come i casi di migrazione forzata si siano verificati soprattutto «in Stati retti da regimi in senso lato rivoluzionari, spesso emersi da conflitti bellici, intenti a rimuovere gruppi di popolazione percepiti come ostili». In alcuni casi «le motivazioni furono dettate da una volontà di vendetta, cercata collettivamente contro intere categorie etniche e/o sociali, in nome di passate oppressioni come avvenne in particolare nell’Europa centro-orientale dopo il 1945 nei confronti delle popolazioni tedesche dell’Est». Regimi «nati da rivolgimenti interni e da conflitti esterni, dunque bisognosi di legittimazione, e, quasi per definizione, insicuri». La radicalizzazione delle misure violente contro intere categorie di popolazione da parte delle autorità ottomane durante la Prima guerra mondiale, ha scritto Donald Bloxham in Il grande gioco del genocidio. Imperialismo, nazionalismo e lo sterminio degli armeni ottomani (Utet), «è il caso più emblematico di violenza mossa soprattutto da una percezione soggettiva di insicurezza». Ferrara e Pianciola osservano a questo punto che «sotto l’influenza delle guerre di secessione jugoslave degli anni Novanta del Novecento la categoria di “pulizia etnica” è stata estesa a indicare in modo quasi indifferenziato tutti i casi di migrazione forzata in epoca contemporanea costruendo un continuum che procederebbe almeno dall’esodo dei musulmani balcanici nel corso dell’Ottocento». Lo ha notato Christian Gerlach: i trasferimenti di masse di popolazione sono stati chiamati «etnici» in misura crescente, all’interno di una generale «etnicizzazione della Storia» delineatasi negli ultimi due decenni. Così va a finire che l’analisi delle «migrazioni forzate» tende a rientrare nell’ambito dei cosiddetti genocide studies proprio perla contiguità dei concetti di pulizia etnica e di genocidio. È stato Norman Naimark, nel libro citato all’inizio, a sottolineare come sia difficile porre un confine tra le due categorie, pulizia etnica e genocidio: «All’atto pratico, la prima sfocia di fatto nel secondo allorché per liberare il territorio da una data popolazione si ricorre all’omicidio di massa… Anche quando la deportazione forzata non ha intenti genocidi, spesso lo diventa di fatto». E quando gli intenti genocidi sono presenti, si combinano spesso a misure di deportazione: sia nel caso dello sterminio armeno sia in quello ebraico le misure iniziali furono di deportazione e concentrazione in aree delimitate del territorio sotto controllo ottomano e nazista, «sebbene nel caso armeno le misure di deportazione fin da subito coprissero lo sterminio, mentre la popolazione ebraica dell’Europa nazista fu invece inizialmente concentrata in ghetti della Polonia occupata». Inoltre, come ha ricordato Michael Mann nell’altro libro citato all’inizio, «nella maggior parte dei casi di sterminio i perpetratori non arrivarono alle pratiche genocide partendo da un piano prestabilito in anticipo, ma tramite la successiva radicalizzazione di misure che comprendevano anche politiche di migrazione forzata». Proprio Michael Mann ha stabilito la «modernità» della «pulizia etnica», definendola «il lato oscuro della democrazia». In che senso? «La democrazia», scrive Mann, «contiene in sé la possibilità che la ma :: ioranza possa tiranneggiare le minoranze, e questa possibilità provoca le conseguenze più sinistre in determinati tipi di ambienti multietnici… La pulizia etnica omicida è un rischio connaturato all’età della democrazia, perché in condizioni di multietnicità l’ideale del potere del popolo iniziò a intrecciare il demos con rethnos dominante, generando concetti organici di nazione e di Stato che incora :: iarono l’eliminazione delle minoranze». E qui i due autori si
soffermano su un libro di Amedeo Feniello, Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana (Laterza), che si occupa della deportazione (da parte dello svevo Federico II) di migliaia di islamici siciliani a Lucera in Puglia, tra il 1222 e il 1243. Per oltre cinquant’anni i 4o mila musulmani di Lucera, sia pure in condizioni di lavoro servili, furono liberi di professare la propria fede. Finché nell’agosto del 1300 Carlo II d’Angiò eliminò quell’enclave di seguaci di Maometto. Feniello definisce pulizia etnica sia l’iniziativa di Federico II che quella di Carlo II. Ferrara e Pianciola gli replicano bollando quella definizione come «anacronistica». Altra importante questione è quella della decisione dei trasferimenti. Rogers Brubaker, in Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania (II Mulino) sostiene ad esempio che l’uso della categoria di migrazione forzata per definire l’esodo tedesco e ungherese dopo la Prima guerra mondiale è «improprio, dato che una forte componente di volontarietà fu presente in entrambe le migrazioni». Perciò l’emigrazione tedesca e ungherese di quegli anni va collocata nella categoria di «esodo», un esito in cui la componente della decisione da parte di chi si trasferiva fu molto importante, anche se è doveroso tenere conto del ruolo giocato dalle violenze e dal clima di paura provocato da chi incoraggiò quei popoli a «decidere» di abbandonare la loro terra. Ma torniamo al secolo nero delle migrazioni forzate. La stagione più tragica iniziò a seguito dei patti Molotov-Ribbentrop dell’ago- sto-settembre 1939, che sancirono la spartizione della Polonia e di altre terre dell’Europa centrale tra Germania e Unione Sovietica e diedero il via alla Seconda guerra mondiale. II primo trasferimento coatto di popolazione fu quello dei polacchi, ebrei e non, in fuga dall’avanzata tedesca: tra coloro che abbandona *** rono precipitosamente Varsavia nel settembre del 1939 vi furono Menachem Begin (futuro capo del governo di Israele) e la famiglia dell’allora sedicenne Wojciech Jaruzelski (futuro presidente della Polonia). Entrambi si rifugiarono in Lituania, dove affluirono anche decine di migliaia di profughi provenienti dalle regioni sotto l’occupazione sovietica. Ma a ridosso dell’annessione dei tre Stati baltici all’Urss (nell’estate del 1940) vi fu una fuga verso i territori occupati da Hitler della popolazione di lingua tedesca di Lituania, Estonia e Lettonia (tra cui molti lituani non tedeschi desiderosi di sottrarsi all’esercito di Stalin) che ricordava con orrore la dominazione russa di due decenni prima. Dominazione i cui caratteri si riproducevano adesso nei termini ancor più accentuati efficacemente descritti nel libro, edito dal Mulino, che Victor Zaslavsky ha dedicato al massacro di Katyn (Pulizia di classe). In molte occasioni, scrivono Ferrara e Pian-ciola, «destini e comportamenti, individuali e collettivi, furono notevolmente influenzati dal ricordo di eventi verificatisi ai tempi della generazione precedente, durante la Prima guerra mondiale e ancor più nel corso delle successive guerre di confine». I veterani di queste ultime furono tra le prime vittime delle deportazioni sovietiche da Ucraina e Bielorussia occidentale, mentre i nazisti si accanirono in particolare su quanti avevano combattuto, nel 1918-1921, contro la Germania. Gran parte dei profughi polacchi che, come Begin e Jaruzelski, avevano cercato riparo in Lituania vennero successivamente deportati in Russia (dove morì il padre di Jaruzelski). Poi fu l’inferno. Nei 21 mesi in cui si ritrovarono alleati, fanno notare Ferrara e Pianciola, «i regimi nazista e sovietico furono corresponsabili della migrazione forzata di oltre un milione di persone, nonché della morte di altre decine di migliaia; molti di questi decessi furono strettamente connessi alle migrazioni forzate in questione e talvolta dovuti a esse, come nel caso di coloro che morirono di fame, freddo e abbandono durante le deportazioni dal territorio polacco prebellico». Il verificarsi di migrazioni forzate «a catena», proseguono i due autori del libro, «fece sì che le stesse persone potessero rivestire più ruoli nel medesimo dramma, spesso nel giro di pochi mesi, passando da vittime a beneficiati da politiche di espulsione e spoliazione attuate da regimi diversi a danno di popolazioni diverse». Molti però furono, invece, vittime di entrambi i regimi, come accadde ai rifugiati ebrei e polacchi sfuggiti all’occupazione nazista e poi deportati dai sovietici. Malgrado la diversità degli obiettivi perseguiti e dei criteri usati per l’individuazione delle proprie vittime, «i due regimi usarono metodi simili per perseguitare categorie di persone analoghe, tanto che alcune famiglie furono colpite in maniera crudele da entrambi». Un capitolo a sé è quello che concerne gli ebrei. Perché non fuggirono in massa dall’Europa che veniva inghiottita in quel gorgo? Riprendendo la tesi approfondita da Saul Friedlànder in Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei 1939-1945 (Garzanti), i due storici descrivono l’abbaglio provocato dal fatto che, al momento dell’aggressione hitleriana, «mentre le élite polacche venivano sterminate per evitare che incitassero alla ribellione, quelle ebraiche furono lasciate al proprio posto perché garantissero la loro sottomissione». Lo stesso Reinhard Heydrich, nelle istruzioni riservate emanate il 21 settembre 1939, raccomandò di scegliere tra i loro componenti i consigli ebraici responsabili dell’esecuzione delle direttive tedesche. L’emigrazione in Palestina era resa poi quasi impossibile dalle disposizioni britanniche del maggio 1939. Ad un tempo Stati Uniti, Cile e Brasile chiusero le porte ai rifugiati nel timore che agenti nemici potessero attraversare i confini camuffati da profughi ebrei. Dopo 111939 furono quindi non più di 13 mila gli ebrei che riuscirono a lasciare il Reich e il protettorato di Boemia e Moravia diretti («illegalmente, ma con l’accordo delle autorità naziste») verso la Palestina; ancor meno quelli che effettivamente vi giunsero. In Europa non c’era scampo. Coloro che, come Hannah Arendt e Arthur Koestler, avevano lasciato la Germania già nel 1933, nel 194o, al momento in cui cadde la Francia, finirono rispettivamente nei campi di internamento di Gurs e Le Vernet. Nel giugno del 194o le autorità sovietiche deportarono in Russia i rifugiati provenienti dalla Polonia sotto occupazione nazista che, nel timore di non poter più raggiungere le proprie famiglie rimaste a ovest, avevano rifiutato il passaporto sovietico. Quattro quinti di loro erano ebrei «che si trovarono quindi a essere vittime non solo dei nazisti che li avevano costretti a lasciare le loro case, ma anche dei sovietici che li inviarono in “insediamenti speciali” in Russia e Asia centrale». Molti perirono durante il tragitto, ma altri in questo modo ebbero salva la vita. Talché si può affermare con tutta tranquillità che «in termini sia relativi che assoluti, nel 1939-1941 vennero deportati più ebrei dai sovietici che dai nazisti». Ma mentre per i non ebrei queste deportazioni furono «una tragedia pura e semplice», per un gran numero di israeliti l’invio in Siberia o in Asia centrale «rappresentò paradossalmente la salvezza». Il peggio però doveva ancora venire. Al momento in cui la Germania si arrese, nel maggio del 1945, «decine di milioni di europei erano stati trascinati lontano dalle loro case dagli spostamenti forzati di popolazione che avevano avuto luogo durante la guerra». Mentre la ma :: ior parte dei profughi — da quel momento definiti displaced persons — provenienti dall’Europa occidentale venne rimpatriata entro la fine di quello stesso 1945, per coloro che provenivano dall’Europa centrale e orientale le cose andarono molto diversamente e per molti («in particolare gli ebrei») il rimpatrio «tardò o non si verificò affatto». Si calcola che «alla fine della Seconda guerra mondiale ci fossero in Europa quasi quaranta milioni di persone sradicate dalla propria terra natale, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fu :: ivano dinanzi all’avan
zare dell’Armata rossa». Circa 12 milioni di tedeschi furono espulsi dalle regioni della Germania annesse alla Polonia e *** dall’Urss, dalla Cecoslovacchia e dalle zone dell’Europa orientale dove essi si erano stabiliti da tempo, mentre gli eserciti alleati vittoriosi trovarono in Germania oltre u milioni di deportati di varie nazionalità. Approssimativamente, dunque, «circa sessanta milioni di europei furono coinvolti nelle migrazioni forzate causate direttamente o indirettamente dalla Seconda guerra mondiale; per un numero sostanziale di essi lo spostamento fu definitivo ed ebbe conseguenze sul lungo termine». Qui sono gli autori a usare la definizione di «pulizia etnica» per definire le nuove politiche di punizione collettiva delle popolazioni tedesche (o semplicemente di lingua tedesca) accusate in blocco di aver fatto da quinta colonna degli occupanti. I tedeschi vennero spostati in massa talvolta con la scusa di salvarli dall’ira dei polacchi e dei cecoslovacchi, pretesti non diversi da quelli con cui il governo sovietico aveva giustificato le decisioni di deportare i tedeschi del Volga, nonché i ceceni e i tartari della Crimea. Furono evacuati insediamenti tedeschi dall’Ucraina meridionale e dal Caucaso settentrionale, alcuni dei quali risalivano all’epoca della zarina Caterina II e l’esodo coinvolse 35o mila persone. Fece eccezione la Romania, che non espulse i tedeschi, ma li discriminò pesantemente impedendo loro di avvalersi della riforma agraria del 1945. Nella Germania liberata da parte dell’Armata rossa si ebbero un milione di stupri, di cui centomila nella sola Berlino. Cinque milioni di tedeschi, forse più, furono costretti a fuggire dalle loro case (Guido Knopp, Tedeschi in fuga, edito da Corbaccio). Molti tentarono di salvarsi sulle imbarcazioni che salpavano dai porti sul mar Baltico. Ma, su un totale di 790 vascelli, la marina sovietica ne affondò oltre duecento. Quindicimila furono le vittime dei naufragi di due di quelle imbarcazioni: «Goya» e «Wilhelm Gustloff» (di cui parla Giinter Grass in II passo del gambero, pubblicato da Einaudi), i due più gravi disastri navali della storia Inoltre la maggior parte dei 40o mila tedeschi che persero la vita nel corso dell’esodo dai territori poi assegnati alla Polonia, secondo Helga Schneider (L’usignolo dei Linke, Adelphi), morirono nei campi di lavoro polacchi e sovietici. Dalla Pomerania furono espulsi 30o mila tedeschi e le deportazioni furono accompagnate da ogni sorta di brutalità contro i civili (rapine, stupri, omicidi). 20o mila vennero cacciati dalla Bassa Slesia nel corso della cosiddetta «operazione rondine». In Cecoslovacchia l’epurazione postbellica fu selvaggia: «Non sembra però giustificato», scrivono gli autori, «interpretare le violenze dell’estate del 1945 unicamente in termini di eccessi: l’anarchia e il caos che le resero possibili erano stati propiziati dallo stesso governo ceco, che almeno in un primo momento le considerò uno strumento utile per terrorizzare i tedeschi e spingerli a fuggire, e che incitò la popolazione a vendicarsi per le brutalità subite durante l’occupazione». Diverso il caso dell’Ungheria: «Non è improbabile che lo scarso entusiasmo ungherese per l’espulsione dei tedeschi sia dipeso dalla volontà di non legittimare misure analoghe contro le minoranze magiare residenti al di là dei confini nazionali». Chi continuò a subire torti — sia pure non della natura di quelli fin qui descritti — furono gli ebrei. La ricostruzione postbellica di Vilnius implicò l’abbattimento della grande sinagoga cinquecentesca, «parte di un più ampio sforzo di rimozione delle tracce del passato polacco ed ebraico dalla “nuova” città lituana e socialista». La vecchia sinagoga di Breslavia, distrutta durante la «notte dei cristalli» nel 1938, non venne ricostruita. Le pietre tombali ebraiche furono usate come materiale da costruzione o pavimentazione stradale. II governo polacco si impadronì di quanto era appartenuto ai tedeschi residenti sul suolo prebellico, nazionalizzò tutta l’economia delle «terre riconquistate» e si appropriò dei beni già conf iscati dagli occupanti nazisti inclusi quelli appartenuti agli ebrei vittime della Shoah. Negli Stati Uniti dovette intervenire lo stesso presidente Truman a segnalare i tratti discriminatori nei confronti degli ebrei (ma anche dei cattolici) del Displaced Persons Act varato nel 1948. Gli ebrei tedeschi, austriaci e ungheresi, pur reduci da ogni sorta di vessazione, venivano trattati come «ex nemici» alla stregua dei loro connazionali. Tutto ciò mentre si avevano nuove violenze antisemite nei Paesi entrati nell’orbita sovietica: soprattutto in Polonia (fu atroce il pogrom di Kielce del luglio 1946), Slovacchia, Ungheria. Gli Stati Uniti fino al luglio del 1947 concessero il visto solo a 15 mila ebrei. II Canada a ottomila (su 65 mila profughi accettati). E dei 69 mila che si diressero verso la Palestina 52 mila furono bloccati dalle autorità britanniche e internati a Cipro. Solo dopo il ma :: io del ’48, quando nacque lo Stato di Israele, gli ebrei ebbero un posto sicuro in cui rifugiarsi: quello fu l’unico Stato a non fare discriminazioni nei confronti degli israeliti che lasciavano l’Europa dopo la Shoah. L’unico.

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