Gli ultimi testimoni. Interviste

Elena Markova ricorda: forzata

Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati vittime di repressioni, il padre fucilato nel 1937. Nel 1941-43 si trovava nel territorio occupato della regione di Doneck. Dopo la liberazione della regione da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata dagli organi dell’Nkvd e condannata a 15 anni di lavori forzati. Per 10 anni è stata detenuta al Vorkutlag. Riabilitata. È dottore in scienze tecniche.

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Be’, se parliamo della rovina di quella generazione, dunque mio papà, insegnante, è stato sottoposto a repressioni e fucilato nel ’37, durante il grande terrore. La mamma è stata arrestata nel ’38.

Ed ecco mi hanno proposto di scrivere una dichiarazione per il giornale murale, che rinnegavo i miei genitori e così via, che ero una patriota. Ma non l’ho fatto.

 

Inizio della II guerra mondiale.
La vita sotto l’occupazione
E così, l’inizio della guerra. Naturalmente era svanito il mio sogno di andare all’università. Nonostante fossi figlia di una vittima delle repressioni, allora non capivo che forse all’università non mi avrebbero preso.

Dunque, avevano ceduto il Donbass senza combattimenti. Perciò sulla linea del fronte, ecco, quando i tedeschi avanzavano e noi ci ritiravamo, non capivamo neanche cosa stesse succedendo.

Non tutti gli ebrei sono riusciti a sfollare, perché semplicemente non c’erano mezzi. Be’, a piedi, andavamo a piedi. Ed ecco un altro dettaglio di una famiglia ebrea che conoscevamo bene. Li ricordo dall’infanzia, erano molto amici del papà e della mamma. C’erano due sorelle, medici.

Hanno caricato un po’ di masserizie, sono partiti. C’era un cavallino, o due. Dopo aver fatto un po’ di strada, si è scoperto che davanti c’erano già i tedeschi. Sono tornati. Ed ecco, quando sono tornati, e qui erano già arrivati i tedeschi, mi hanno chiesto di abitare per un po’ da loro, così, se fossero arrivati i tedeschi, avrei aperto io la porta, e non loro. Be’, pensavano che comunque il pericolo c’era, ma se ci fosse stata una bambina russa, i tedeschi se ne sarebbero andati subito. Nessuno capiva la situazione reale. Ed ecco, per qualche tempo ho abitato da loro. Poi naturalmente li hanno poratati via comunque, e sono morti.

Febbraio, doveva essere l’undici febbraio. C’è stato lo sfondamento del fronte già nel punto dove vivevamo noi. Era il Donbass, la città di Krasnoarmejsk.

E io sono corsa fuori in via Lenin, e là i feriti erano distesi semplicemente per strada. Non c’era nessun battaglione sanitario, nessuna infermiera. La gente perdeva sangue, gridava, e nessuno la salvava.

Ho cominciato a trasportare i feriti nell’edificio del nostro poliambulatorio cittadino, che si trovava alcune vie più in là, in via Sverdlov. Mi è venuta subito l’idea che comunque quello era un istituto medico, bisognava salvare le persone e trasportarle là.

Là ho dato loro da bere, li ho medicati, li ho consolati in qualche modo. C’era questo gruppo di feriti in quell’edificio vuoto del poliambulatorio, dove ho cercato di soccorrerli. E poi, già dopo qualche ora, è arrivato ufficialmente il battaglione sanitario.

E così c’è stato lo sfondamento del fronte, e la battaglia per la città è continuata ancora. Una parte della città era delle truppe da sbarco, e una parte della città era dei tedeschi. E noi non abbiamo fatto in tempo a guardarci intorno, che qualcuno ha gridato alla finestra: «Arrivano i carri armati tedeschi!» Li chiamavano “tigri”.

Che fare? Alcuni erano feriti leggermente, potevano camminare, ma una parte erano feriti gravemente. Così è maturata un’idea. Di notte, attraverso l’uscita posteriore, perché davanti a quella principale c’era una guardia, cercare di dare la possibilità di fuggire ai feriti meno gravi, perché si nascondessero dalla popolazione locale.

Allora non c’erano passaporti, c’erano gli Ausweis. Erano dei certificati che rilasciava l’ufficio di collocamento. Be’, come un attestato che eri residente in quel luogo.

Alla fine di marzo sono andato a lavorare all’ufficio di collocamento. E in agosto c’è stata la definitiva liberazione di quella località dai tedeschi. Cioè, ho lavorato là per un periodo piuttosto breve. Ma per quel periodo davvero mi sono procurato quegli Ausweis, anche se c’era pericolo di morte, per quei documenti falsi. E tutte le persone nascoste da noi sono state salvate.

 

Fine dell’occupazione. Primo arresto.
Dunque, è finita l’occupazione, sono arrivate le nostre truppe. Be’, qui, se fossi stata un po’ più intelligente, un po’ più calcolatrice, non avrei fatto il passo che, sconsideratamente, ho fatto. Che cosa ho fatto?

La popolazione del territorio occupato non aveva diritto di spostamento, quando i nostri hanno occupato quelle truppe. Perché hanno iniziato le verifiche, là c’erano nemici del popolo, traditori della patria, traditori. Non lasciavano muovere un passo a nessuno, cioè trasferirsi in un’altra città. E a un tratto mi vado io stessa a cacciare in quelle fauci, e dico: datemi il permesso di andare a studiare all’università. Naturalmente non mi danno nessun certificato.

Ed ecco mi sono ritrovata in quello scantinato, al mulino, alla fabbrica di farina, nel reparto femminile. E vicino c’era un enorme locale sotterraneo, dove si trovavano gli uomini. Tutti stipati come sardine in un barile. Non c’è acqua, non c’è cibo, non c’è niente. E la gente non capisce, come all’inferno: che cosa succederà? Non si respira. È uno scantinato.

Dunque, condizioni assolutamente antigieniche. E mi è venuta l’erisipela, un’infiammazione alla gamba. Perché stavamo in un tale sudiciume, che è cominciata anche la dissenteria, e Dio sa cosa. E a me è venuta l’erisipela.

 

Secondo arresto e inchiesta
E mi trovo a casa sotto cauzione, ma mi sembra che debba esserci stato un errore, io non ho nessuna colpa, ho salvato delle persone, devo andare all’università.

Mi sembra perfino inverosimile. Era mai possibile che non capissi niente a questo modo, e solo perché volevo studiare, che agissi per la seconda volta allo stesso modo, quando la prima volta mi avevano già arrestato? E andai una seconda volta.

Ma è andata ancora peggio. Dunque, mi gettarono in una fossa.

In una parola, per quell’episodio, che avevo lavorato come interprete all’ufficio di collocamento, e io, davvero, avevo sempre detto: «Sì, ci ho lavorato». Alla fine mi hanno dato quindici anni di lavori forzati.

 

Il trasferimento
Ed ecco la situazione in cui ci trovavamo. Guerra. C’era ancora la guerra. L’etichetta «Trasportiamo fascisti», si capisce che subbuglio suscitava nella popolazione! «Arrivano i fascisti! Quelli che stanno con i tedeschi!» E così via.

E dunque, la prima conoscenza con il mondo criminale a Kotlas. Dunque ci hanno portati, ci hanno portati. Alla fine eravamo a Kotlas. Un fiume maestoso, belle distese, da una parte, e dall’altra parte, sulla riva, baracche nere, baracche nere, baracche nere. È il campo di transito dove eravamo finiti, come alle porte dell’inferno, laggiù. Dunque siamo arrivati fino alla nostra baracca, dove il nostro scaglione doveva sistemarsi. Entriamo nella baracca: pareti color porpora. All’inizio non capivamo che razza di colore fosse. Si è scoperto che erano tutte cimici. Cioè creavano un’unica tinta purpurea. I ratti giravano in pieno giorno.

Dunque siamo schizzati fuori da quella baracca e con tutta la nostra roba ci siamo seduti per terra, vicino alla baracca. Perché con quelle cimici, quei ratti, sembra che non si potesse assolutamente conviverci. Dopo esserci seduti sull’erba con la nostra roba, a un tratto vediamo che arriva una banda non di uomini, ma di non so quali esseri. Perché innanzitutto non parlavano russo. Solo turpiloquio. Arrivavano i criminali comuni. Ecco, per tutta la mia vita nel lager per me il turpiloquio è stato come la personificazione di quella banda criminale.

Ed ecco quei criminali ci portano via tutto nel modo più cinico. E noi siamo come impietriti. Non capiamo, chi abbiamo vicino? Che gente è? E loro ci hanno portato via tutto. Fino all’ultimo filo.

 

Il lager. Il lavoro in miniera
Sveglia. Dunque, ci alziamo quattro ore prima che inizi la nostra giornata lavorativa. Cominciano a contarci, poi ci danno da mangiare, poi ci preparano all’uscita dalla zona. Ci avviciniamo all’uscita dalla zona, ci contano di nuovo. E non solo ci contano, ma fanno una perquisizione. E quando ci sono centinaia di persone, che cos’è una perquisizione? E loro ricontano, sbagliano, ricontano di nuovo. Poi ci conducono al lavoro sotto scorta, con i cani, con i mitra, quando i mitra erano già comparsi nel lager, oppure con i fucili.

E, dunque, all’inizio anche lì era tremendo, cimici, non c’è un letto nel lager di lavori forzati. Non c’è letto, dormiamo sui nostri stracci. Come siamo vestiti? Dunque, pantaloni imbottiti, biancheria da uomo sporca, giubba imbottita, e giaccone, e colbacco coi paraorecchi, e pezze da piedi. Ai forzati, nei primi anni, toglievano tutti gli effetti personali e li portavano nel magazzino. Cioè, non potevamo cambiarci. Negli altri lager non si usava, solo nei lager di lavori forzati. Perciò in questa tenuta scendiamo in miniera, là siamo bagnati, sporchi, imbrattati. Usciamo dalla miniera. E in un primo tempo non avevamo un bagno, non avevamo una doccia. Quello è stato un periodo orribile, quando non potevamo lavarci. E arrivavamo nella baracca e sporchi, con quei vestiti bagnati e sudici, senza biancheria da letto, ci coricavamo sui tavolacci nudi…

Così, da noi, in un giorno morivano nove persone. Ogni giorno. Si può contare quante fossero in un mese.

 

La condizione della donna nel lager
Perché il problema “uomo-donna” per noi era molto tormentoso. E le ragazze giovani finivano subito in certe condizioni, quando i capi uomini avanzavano determinate richieste. Se rifiutavi, ti mandavano in miniera. Ecco, io sono stata mandata molto presto in miniera, anche se, in generale, ero capitata in infermeria. Nel modulo c’era scritto che avevo lavorato nell’ospedale da campo. Be’, ecco. Ero finita in infermeria. «La vita è diventata più bella, la vita è diventata più allegra!» Poi mi hanno iscitta di nuovo ai lavori pesanti. Sono finita in miniera.

Arrivavano di continuo nuovi scaglioni, anche femminili. Ed ecco che nel nuovo scaglione ci è capitata una ragazza molto giovane, avrà avuto diciotto anni. Noi avevamo già venti, ventidue, ventitré anni, lei invece era proprio giovanissima e molto bella.

All’inizio siamo rimaste tutte colpite da quanto era bella. E, naturalmente, non solo noi, ma anche la popolazione maschile. E volevano sistemarla da qualche parte, e non hanno trovato dove. Oppure avevano litigato? E l’hanno mandata in miniera. E cosa crede? Anche lei al trasporto. Fin dal primo giorno le è capitato un incidente, e le hanno amputato tutte e due le gambe.

 

Le fucilazioni al lager
Entriamo nella zona. Be’, come al solito. Ci portano alla baracca dove dobbiamo sistemarci. La zona è come morta, non c’è nessuno. Ci avviciniamo alla baracca e vediamo che le pareti della baracca sono insanguinate. Ci sono pallottole e, ecco, sangue, perfino cervello umano, delle parti di tessuti umani. Che cos’è?! Entriamo nella baracca: è tutta piena di sangue! Scopriamo che prima di noi lì c’era la zona maschile.

Be’, ci hanno detto che prima lì c’erano dei militari, non so se uomini di Vlasov o altri militari nostri, e avevano deciso di fare un’evasione, avevano scioperato. Avevano disarmato la sorveglianza, erano usciti dalla zona, qualcuno era rimasto dentro, non voleva partecipare. Fuggire da Vorkuta era impossibile. La gente andava semplicemente incontro a morte certa. E avevano aperto il fuoco su di loro. Avevano sparato dagli elicotteri nel campo, poi li avevano cacciati nelle baracche. E direttamente nelle baracche e lì vicino avevano fucilato la gente. Com’è andata? Posso solo dire le parole che sono arrivate fino a noi. Ma che la baracca, le pareti delle baracche avessero segni di pallottole e che ci fosse sangue e cervelli umani, questo è un fatto. Be’, e s’immagini qual era il nostro stato d’animo. Ci fecero lavare le baracche e poi in quella baracca ci abbiamo vissuto.

 

La liberazione. Il matrimonio
Dunque, quando sono stata liberata anticipatamente, come si sa, dunque, sono stata liberata in novembre, proprio alla fine di novembre del 1953. Be’, pensavo, che fare? L’essenziale era uscire in libertà. E poi in qualche modo le cose si sarebbero sistemate. L’essenziale era uscire! Uscire! E uscii. E che cosa mi aspettava.

Dunque, non avevo un posto dove andare. Novembre, la notte polare, cominciano le bufere di neve, il gelo. Avevo addosso le scarpe di gomma. S’immagini, il Circolo polare artico, il gelo. E dove potevo andare.

Arrivo in questa famiglia. Là c’è una sola stanza, piccola, minuscola. Piena zeppa. Dunque, c’era il papà che era stato liberato, la mamma che era stata liberata, il loro bambino, nato nel lager, e ancora degli amici dei loro amici, che erano stati liberati, e non avevano dove stare.

Lui ha preso la mia roba sullo slittino e mi ha portato. Porta quella roba, e io vado con lui. Mi porta in una baracca. Davvero là aveva una stanza, un tavolo, c’è della vodka e degli amici, tutti chiaramente ex criminali comuni.

Sono scappata subito da quella stanza, la strada vuota, comincia la bufera di neve, non conosco la città. Ma sono fuggita, sono fuggita inorridita, la mia roba era rimasta là.

Ma non si capiva come mi si poteva aiutare. Dove mettermi, perché, innanzitutto, dove potevo dormire, dove vivere? Ma avevo ancora un biglietto con l’indirizzo del Teatro musicale di Vorkuta.

Mi presentarono Lëša Markov. Viveva solo, di recente aveva ricevuto una stanza. Una stanza come lo scompartimento di un treno. Cioè, c’era un divano, un tavolinetto e basta. Be’, ho raccontato la mia storia. Lui dice: «Be’, che fare? Resti da me e io nel frattempo dormirò in teatro».

Be’, quello fu l’incontro con il mio futuro marito. Visto che aveva dimostrato un’estrema nobiltà d’animo e io avevo visto che tipo di uomo fosse. E così poi è diventato mio marito.

 

Il ritorno a Mosca
Ci sono stati problemi di ogni genere. Ma quando ho cominciato a far domanda all’ufficio personale, all’inizio mi hanno accolto così, e io ho detto che, ecco, ho questa particolarità, sono stata riabilitata, la particolarità che sono stata condannata in base all’articolo 58. Quando ho detto così, lei fa: «E con questa biografia è venuta a cercare lavoro in un istituto accademico?» Insomma, mi toccò andarmene, subito.

E così è iniziata la mia vita moscovita. A Vorkuta mi ero anche iscritta all’istituto politecnico a distanza. Nel ’60, quando mi hanno riabilitata nel ’60, avevo finito l’istituto politecnico a distanza e avevo ottenuto la laurea in ingegneria.

E poi, dunque, ho discusso la tesi da ricercatore in scienze, la tesi di dottorato. Sono stato per molto tempo all’Accademia delle scienze.

Lavoravo sui nuovi problemi, mi occupavo di cibernetica. Be’, insomma, questa era ormai tutta un’altra vita.

Testi: Alena Kozlova, Irina Ostrovskaja (Memorial – Mosca)

Operatore: Andrej Kupavskij

Montaggio:
Sebastian Priess (Memorial – Berlino)
Jorg Sander (Sander Websites – Berlino)

Traduzione: Daniele Castiglioni

 

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