Voci dalla guerra: Serhij Neboha, allevatore di cani di Čerkasy

L'intervista a un allevatore di cani ucraino fa emergere le atrocità commesse dalle truppe della Federazione Russa anche contro gli animali.

Voci dalla guerra. La voce di Serhij Neboha, allevatore di cani di Čerkasy.

Serhij Neboha aveva un allevamento di cani a Čerkasy. Dopo l’invasione del 24 febbraio 2022 si è dedicato a documentare le atrocità commesse dalle truppe russe ai danni di cani e gatti, ammazzati con sadismo e spesso mangiati. Neboha cerca inoltre di aiutare come può gli animali e i loro proprietari. Taras Vijčuk ha raccolto la sua testimonianza per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”). L’intervista è disponibile coi sottotitoli in italiano nel canale YouTube di Memorial Italia.

Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.

La guerra a quattro zampe

15.01.2023

Taras Vijčuk

Mi chiamo Serhij Valerijovyč Neboha e ho un allevamento di cani da pastore del Caucaso: si chiama L’albero della vita (Derevo žyttija) ed è a Čerkasy, in Ucraina.

– Da quanto tempo alleva cani?

– Sono un allevatore professionista da 15 anni. I cani del mio allevamento hanno rappresentato l’Ucraina nelle competizioni internazionali. Tra l’altro, da 5 anni fornisco anche i cani al Ministero della Difesa ucraino, all’Ukroboronprom [creata nel 2010, è una società pubblica a controllo statale che riunisce diverse imprese operanti nella difesa]. Inoltre, i nostri animali prestano servizio nelle forze dell’ordine.

– I fatti del 2014 hanno influito sul lavoro degli allevatori ucraini?

– Guardi, la cinologia dei Paesi dell’ex Unione Sovietica è sempre stata divisa. I russi ci hanno sempre guardato con disprezzo. Francamente, non ho mai capito perché la cinologia ucraina dovesse essere ritenuta da terzo mondo, mentre quella russa e bielorussa restavano nel primo. Abbiamo sempre lavorato bene con la riproduzione, abbiamo sempre avuto numeri competitivi, e i nostri cani sono conosciuti in tutto il mondo.

La versione russa della faccenda, nel 2014, recitava: “Lasciamo i cani fuori della politica. I cani non c’entrano nulla”. E come si fa a lasciarli fuori, se la cinologia è una faccia del paese? Primo. Secondo: in Russia tutto è controllato da certi organi di sicurezza, persino gli allevamenti. Un esempio semplicissimo: il presidente del Turkmenistan va trovare Putin e gli regala un cucciolo di alabai, un molossoide dell’Asia centrale. E allora? Come si fa a lasciare i cani fuori dalla politica?

In Ucraina la cinologia è divisa. E penso agli allevatori di Charkiv, del Donbas e di altre regioni russofone. Molti rimpiangono la “fratellanza fra i popoli”, cioè le teorie sulla fondamentale unità di russi e ucraini. Io non li capisco, ma per fortuna in diversi hanno cambiato idea.

Purtroppo, in diversi hanno cercato di tenere il piede in due staffe, di stare sia con l’associazione cinologica russa (RKF) sia con quella ucraina (KSU). Molti cinologi del Donbas si sono presi sia gli aiuti umanitari russi sia quelli ucraini, facendo un po’ di qua e un po’ di là. Senza rimorsi.

E per sei mesi a quella gente ho fatto una domanda molto semplice: “Scusate, signori, ma con quello che è successo come farete dopo a partecipare ai nostri stessi concorsi, o a figurare tra gli allevatori ucraini?”. Ho aiutato personalmente a sfollare i cani degli allevamenti dalla regione di Charkiv, Mariupol’, Berdjans’k, Cherson, Zaporižžja. In Donbas ho sempre avuto un bel po’ di miei ragazzi [di miei cani, intendo]. Molti sono già morti. Loro e i padroni. Charkiv, Donec’k, Mariupol’ avevano scuole canine molto valide, ma si sono salvati in pochissimi.

– Cos’è stato il 24 febbraio per lei?

– Quando è iniziato l’attacco su vasta scala ero all’allevamento con la mia famiglia. Alle cinque e mezza del mattino mi hanno telefonato da vicino a Charkiv, era una conoscente [anche lei ha un allevamento], una collega che alleva pure lei pastori del Caucaso. Mi ha detto in lacrime: “Serhij Valerijovyč, ho sotto casa soldati e carri armati russi”. Purtroppo ho perso ogni contatto con lei. Il paesino dove viveva non esiste più, e non so cosa le è successo. Ho chiesto a diversi ragazzi che hanno liberato Charkiv se riuscivano a sapere qualcosa. La risposta era sempre la stessa: “Ci sono solo macerie. Niente persone”.

– Il suo allevamento è stato mai sotto occupazione?

– Fortunatamente no. Ma la domanda restava: “Cosa faccio?”.

Mi avevano anche offerto di andarmene in Canada con tutti i miei cani. Ma io non voglio lasciare il mio Paese. Si fa presto a dire: “Parti”. Chi non ha mai avuto venti cani fra i 50 e 100 chili di peso non ha idea di cosa significhi prenderli e partire verso chissà dove e cosa. Già portarne tre a Kyiv era una “missione speciale”. È un hobby molto costoso, il mio. Perché qui da noi non è che posso chiamarlo lavoro. Siamo fanatici e basta, noi che lo facciamo. Chiunque abbia un allevamento di cani di grossa taglia sa che spostare così tanti cani è un’impresa. Primo: ci vogliono i soldi. Secondo: serve un pullman bello grosso. Terzo: ve lo ricordate cosa è successo nei primi giorni di guerra? Il panico! Già si faticava a portare via le persone, figuratevi i cani. Ma ho visto molti esempi di umanità.

Certi conoscenti di Buča, Irpin’ e Borodjanka hanno lasciato tutto: auto di lusso, ville, tutto, e hanno portato via figli e animali: pantofole ai piedi e passaporto tra i denti. È capitato che qualcuno abbandonasse gli animali, certo, ma sono molto orgoglioso che gli ucraini abbiano dato una grande prova di umanità.

Nella regione di Kyiv sono morti molti volontari. I nostri giovani migliori, di solito, quelli che non hanno avuto paura di portare via bestie e persone. Già il 24 io e mio figlio ci siamo arruolati nella Difesa Territoriale: non intendevo scappare. L’unica cosa che ho chiesto ai miei amici all’estero è stata di aiutarmi a mandare via la famiglia. Il 25 sono andato dal veterinario e gli ho chiesto venti fiale di anestetico forte. È stata una decisione sofferta, che ora non riesco a perdonarmi. Ma già sapevo che sparavano ai cani, già sapevo di allevamenti bruciati intorno a Kyiv, di torture. Tra il 24 e il 25 ho perso i contatti con molti dei colleghi con cui sei mesi prima prendevo il caffè al celeberrimo Kristall di Charkiv. Molti di loro non sono più tra noi.

Sapevo che se avessero occupato Čerkasy e avessero scoperto che i cani erano miei, prima li avrebbero torturati e poi gli avrebbero sparato. Per questo ho deciso che li avrei soppressi io tutti quanti.

Alla fine non l’ho dovuto fare, ma ero pronto a farlo. Non perdonerò mai i miei colleghi russi che battevano le mani, all’inizio della guerra: “Ben vi sta, maledetti seguaci di Bandera”. Non li perdonerò mai, no.

Ho ricevuto molte critiche: “Perché non li hai regalati, piuttosto?” mi hanno detto in diversi. Ma come si fa a regalare dei pastori del Caucaso? Tra il 2020 e il 2021 avrò sistemato cinque cani adulti, affidandoli a persone serie. Ho fatto l’impossibile, ne sono certo. Non si può proprio mettere un pastore del Caucaso con altri cani: sono cani leader che hanno un solo padrone, nella vita. Ne ho cinquanta che cercano una casa. Io li regalo anche. Ma chi se li prende? Se nessuno li vuole, non accetto critiche.

– Cosa l’ha spinta a girare La guerra a quattro zampe?

Semplicissimo. Molti colleghi della regione di Kyiv in tempo di pace erano miei concorrenti. Non eravamo amici. Quelli dell’allevamento “Daur Don”, per esempio, che sono famosi in tutto il mondo, hanno 70 cani, 7 campioni del mondo e 15 campioni europei. Neanche i russi hanno niente di simile, per quanto sostengano sia una razza sovietica. Eppure mi sono scoperto preoccupatissimo per loro, che erano a Žereva [vicino a Ivankiv]. Che ora non esiste più. Non li ho più sentiti dal primo giorno di guerra. E i primi che sono andato ad aiutare quando hanno liberato la regione di Kyiv sono stati loro: l’allevamento di pastori del Caucaso “Daur Don”. Erano senza parole quando li ho finalmente raggiunti attraverso i campi minati. È lì che ho pensato al film.

Avevo filmato i campi minati, così quando sono arrivato da loro avevo già un piccolo pezzo pronto. Poi sono andato da altri e altri ancora: non so neanche più quanti. Gli scrivevo su Facebook e Telegram. Sapevo dov’erano, e ho portato carne e vario cibo a circa cinque allevamenti.

Un allevamento aveva una guardiana di Mosca che si era ritrovata un carro armato in cortile. Un giorno un soldato le fa: “I tuoi cani abbaiano e non ci lasciano dormire. Ma non preoccuparti troppo: ora li facciamo fuori tutti”.

Per questo ho deciso di filmare tutto, perché arriverà il momento in cui certe cose finiranno davanti a un giudice.

Foto dall’account Facebook di Serhij Neboha

– Perché ha deciso di salvare i cani e non le persone?

– Non direi che ho salvato solo i cani. Ho salvato cani e padroni. Gli animali sopportano, muoiono e soffrono come gli esseri umani. Ma un essere umano può gridare “Aiuto”, un cane o un gatto no. Purtroppo, oggi non siamo in molti, a impegnarci in questo tipo di aiuto. Sono molto grato ai Paesi europei che permettono di attraversare il confine senza badare al pedigree e ai passaporti veterinari. E sono molto grato agli europei che hanno accolto un numero enorme di cani.

– Secondo lei i russi stanno deliberatamente facendo strage di animali?

– Ho le prove. Se mi finisce una granata in una gabbia, capisco che è un caso. A Borodjanka, però, ho parlato con un tale che mi ha mostrato la pelle e la testa di un suo pastore tedesco, un maschio giovane. I soldati buriati se lo sono mangiato. Io ero senza parole. “Che c’è da stupirsi? È capitato in tutte le case: uno lì, un altro là…”. L’uomo che ho intervistato aveva trovato le interiora e la pelle del suo cane in cantina: il resto se l’erano mangiato. Di casi simili ce ne sono stati una quantità, nella regione di Kyiv. In più, non è che se li mangiassero e basta: gli sparavano diversi colpi alla spina dorsale perché soffrissero e morissero lentamente. Sono stato in posti in cui ho visto animali sbranarsi a vicenda. L’ho visto con i miei occhi, sempre intorno a Kyiv. Al “Daur Don” sono riusciti miracolosamente a portare via dieci cani, ma ne hanno lasciati altri sessanta. Quando siamo tornati, li abbiamo trovati in giro nei boschi e metà erano saltati sulle mine. Ho il video di un cane inchiodato a un albero con le stampelle, in mezzo alla strada. E non è l’unico caso.

Ho le prove che interi allevamenti di alabai, per esempio, sono stati portati in Russia. Oppure c’è la storia di un cucciolo: era stato portato via, dopodiché hanno ritrovato testa e zampe fuori città. Lo avevano fatto arrosto con le patate.

Nella regione di Kyiv in ogni centro abitato troverete un sacco di gente che può confermarvelo. Altro caso noto: in un allevamento di cavalli nei pressi di Borodjanka, vicino a Hostomel’, hanno sparato a tutti gli animali per divertimento. Per non parlare del bestiame: ci sono storie simili ovunque. Intere fattorie date alle fiamme. So di gente che, una volta liberata, ha raccolto resti di esseri umani e animali. È una cosa terribile. Un giorno mi ha telefonato un conoscente che era arrivato dopo l’esercito ucraino e che ha contribuito a raccogliere quei resti.

Mi ha chiamato alle due di notte e la prima cosa che ha detto è stata: “Sai qual è l’unica cosa che voglio adesso? Farmi una doccia e scolarmi una bottiglia di vodka a stomaco vuoto”. “Cosa succede, Saša” gli ho chiesto io. E lui: “Tutta Buča, tutta Irpin’ sono un tappeto di resti umani e animali. Alle persone ci pensiamo noi, ma degli animali, purtroppo, devono occuparsene i padroni”. Prendiamo l’esempio di V”jačeslav Zakatov, che è una leggenda e possiede diversi pastori del Caucaso. Ha settantadue anni e tutto il Caucaso è stato da lui: ora è a Černihiv, in una casa distrutta e con dodici cani. Dopo il “Daur Don” sono andato a trovarlo. Gli ho mandato delle stufe, perché rimettere i vetri alle finestre e rifargli il tetto sfondato è impensabile. Lui vive nella stanza da bagno. Cerco sempre di mandargli qualcosa… Ha settantadue anni e, pur potendosene andare, non ha abbandonato i suoi cani.

C’è un altro esempio. Non ha abbandonato i suoi cani nemmeno Serhij Moskalenko, capo dell’Unione dei reduci dell’ATO [Antyterorystyčna operacija na schodi Ukrainy, cioè Operazione antiterroristica in suolo ucraino; gli ucraini e alcuni enti stranieri definiscono “Zona ATO” il territorio ucraino delle regioni di Donec’k e Luhans’k sotto il controllo militare russo]. Non è riuscito ad andarsene e si è salvato per miracolo. Ho amici nella regione di Charkiv che non sentivo da febbraio. Quando è tornata sotto il controllo ucraino, ho scritto a certi conoscenti che avevano contribuito a liberarla: “Andate a Vesele, andate a Cyrkuny”. “Guarda che lì non ci sono più né persone né animali” mi rispondevano loro, “non esistono più”. Mariupol’ fa storia a sé. Molti miei amici di lì, tutti allevatori, sono morti. La moglie di Vitalij Abašov, che mi aiuta con la carne, è di Mariupol’. La sorella aveva un allevamento con quaranta cani. Sono morti tutti: sorella e cani.

– Perché gli occupanti trattano così gli animali?

– Per due ragioni, credo. Primo, sono barbari, selvaggi che non hanno nulla a che spartire con il mondo civilizzato. Secondo: la bandiera ucraina per loro è come il rosso per i tori. Nel 2021 la mia Aza, una femmina del mio allevamento, ha vinto a Berlino il campionato d’Europa, nella sezione per i pastori del Caucaso. Pensi che qualche “collega” russo si sia congratulato? Nessuno. Solo maledizioni mute perché non aveva vinto un loro cane (e ne avevano portati 43), ma la nostra, ucraina, che adesso vive a Berlino. Aza è diventata la più bella d’Europa, ma nei gruppi a tema e nelle varie comunità ho visto solo fango e cattiveria. Solo i nostri connazionali mi hanno fatto i complimenti. In più, va detto che tutti gli allevatori ucraini che vincono in Europa se ne sentono dire e fare di tutti i colori. In aprile a Parigi c’è stato il Campionato europeo. Quando le nostre “ragazze” hanno vinto, i russi gli hanno sputato sul muso, facevano gestacci e urlavano “Viva la Russia” con l’alito che puzzava di vodka. Non si fa così.

– Cosa devono fare gli allevatori ucraini?

– La Federazione russa non dovrebbe stare nella comunità globale degli allevatori. I cani rappresentano il Paese all’estero: come lo sport, l’arte e via dicendo. Sono sempre l’espressione di un Paese. Dato che metà della nostra cinologia non esiste più, il nostro compito ora è di sopravvivere e salvare gli animali rimasti. Per questo oggi aiuto quelli che ieri erano i miei rivali. Siamo tutti sulla stessa barca, e come cantava Oleh Skrypka: “Avanti come in sogno”.

– Quale sarebbe, per lei, una vittoria definitiva per l’Ucraina?

– Potremo dire di avere vinto quando torneremo ai confini del ’91, come ha detto il nostro Presidente. Questo è il primo punto. In secondo luogo, la Russia così com’è ora non ha diritto di esistere. Non ne ha proprio il diritto. Deve porre fine alla sua esistenza una volta per tutte.


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