Voci dalla guerra: Zinajida Kostenko

Un’abitante di Moščun, paese nella regione di Kyiv, racconta gli orrori dei primi giorni della guerra. La sua casa è bruciata del tutto, incluse le conserve in cantina.

Voci dalla guerra: Zinajida Kostenko, negoziante di Moščun: “Non è rimasto niente del mio vicino, solo le scarpe…”.

Zinajida Kostenko viveva e lavorava a Moščun, un paesino della regione di Kyiv. I bombardamenti russi hanno ucciso i suoi vicini di casa e un ragazzo della Difesa Territoriale sotto gli occhi di sua madre. Nell’ambito del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”), pubblichiamo la trascrizione della traduzione italiana dell’intervista che ha concesso a Oleksij Sydorenko. Il video dell’intervista, in lingua originale sottotitolato in italiano, si può guardare nel canale YouTube di Memorial Italia.
Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.

Oleksij Sydorenko
02.11.2022

Un’abitante di Moščun, paese nella regione di Kyiv, racconta gli orrori dei primi giorni della guerra. La sua casa è bruciata del tutto, incluse le conserve in cantina.

Zinajida Kostenko a mezzo busto sullo sfondo di rovine
Zinajida Kostenko

Mi chiamo Zinajida Jakivna Kostenko, ho 67 anni compiuti. Abito a Moščun, in via Vyšneva. È una vita che sto qui. Qui ho fatto la scuola e mi sono diplomata all’istituto commerciale; qui sono rimasta per lavorare quando mi sono sposata. Ho lavorato per 32 anni in un negozio nel centro del paese, ero la direttrice. In pratica ho sempre vissuto qui.
— Com’è stato il primo giorno di guerra per lei?
— Il 24 febbraio sono uscita presto per andare al lavoro, alle 8 ho aperto il negozio. Sentivo solo un fragore lontano. In quel momento ha chiamato Oksana, una mia amica che abitava vicino all’aeroporto: “Qua c’è la guerra” mi fa, “ci bombardano”. Ho risposto: “In che senso?” Da noi, a parte qualche rumore, non era ancora arrivata. Oksana ha due figli, uno piccolo di un anno e due mesi, e uno grandicello, dodicenne. Volevano scappare di corsa perché casa loro era sotto le bombe. Le ho proposto di venire da noi: “Qua è tutto tranquillo” le ho detto. Lo hanno fatto e si sono fermati il 25 e il 26, tanto da noi si sentivano solo rumori. Il 25 è andata via la corrente. Il gas c’era ancora, ma la luce no. “Ho chiamato qualche amico” ha detto il marito di Oksana, “l’autostrada per Odessa è sgombra, si passa senza problemi”. Loro venivano dal distretto di Stavyšče nella regione di Kyiv. E ha aggiunto: “Meglio partire, non ha senso che restiamo qui”. La mattina dopo già passavano gli elicotteri! Il nostro paese si trova in una zona affossata, una specie di valle con il bosco intorno e un torrente in mezzo. A un certo punto eravamo dentro casa e il marito di Oksana fa: “Guarda, Zina, gli elicotteri!” Saranno stati una quindicina. Siamo rimasti a sentire: dopo mezz’ora hanno ricominciato a bombardare l’aeroporto. E Oksana e i suoi sono partiti.
— All’epoca voi ancora non pensavate di andare via?
— Per il momento eravamo rimaste. Non potevo mica lasciare casa mia, no? Certo che no! Era venuta da me la mia figlia maggiore: la minore era già partita con suo figlio quattordicenne. Mio genero provava a tranquillizzarmi, e anche la mia consuocera. “Vedrai che non ci fanno niente…” Ma già iniziavano a piovere i missili “Grad”.
In quel periodo io e mia figlia facevamo da mangiare per la Difesa territoriale, che stava qui vicino. Gli cucinavamo qualcosa: avevamo il gas, tanto valeva preparargli un po’ di zuppa calda. Gli dicevo: ragazzi, tè e cibo caldo per voi. Abbiamo fatto da mangiare per loro fino al 6 marzo. Quel giorno ci siamo presentate con il cibo e loro erano spariti. Il giorno prima, il 5, era andata a fuoco la casa accanto alla nostra. E la vicina era venuta nella nostra cantina. Quando il bombardamento è iniziato siamo scese di corsa là sotto e siamo rimaste ad aspettare che finisse, che smettessero di cadere i “Grad”. Pensavamo di uscire non appena le cose si fossero calmate un po’. A un certo punto avremmo anche potuto farlo, ma era già buio. E comunque ci eravamo organizzate per dormirci, là sotto: ci avevamo portato tutti i cuscini del divano, e ci siamo rimaste tappate per un bel po’.
Fino al 6 marzo. Quel giorno siamo uscite in strada, ma i ragazzi della Difesa territoriale non c’erano più. Ho detto a mia figlia: “Ira, se hanno abbandonato la postazione mi sa che c’è qualcosa che non va”. Ho provato a chiamare mio genero, ma il telefono non funzionava. Poi è arrivato lui di persona da noi, di corsa, per capire cosa fare. Ma hanno ricominciato a cadere i “Grad”, noi ci siamo messi al riparo, e quando è finito tutto mio genero ha preso la scala per dare uno sguardo a casa sua: da lassù si vedeva, era in fiamme. Si è precipitato lì. Io gli ho urlato: “Aspetta, lasciali finire di bombardare, ci vai dopo!” Perché sparavano, poi tutto si placava per una decina di minuti, poi riattaccavano. Ho pregato e pregato che fosse riuscito a correre fino a un posto sicuro. Da quella parte del paese bruciava tutto. “Signore”, ho detto, “fa’ che si sia messo al riparo!” E lì Ira ha detto: “Mamma, non possiamo restare qui. Preparati”. Siamo andate a casa, mi sono vestita, ho preso la busta con i documenti, la borsa e un po’ di denaro. E ce ne siamo andate!
— Come vi siete salvate?
— Prima ci siamo precipitate dall’altra parte del paese. Lungo la strada abbiamo preso con noi la vicina, che era rimasta da sola. Con un drone che ci volava accanto. Ho detto: “Ragazze, non correte attaccate e dritto per dritto. È meglio non fare un gruppo solo. Corriamo a zig-zag e ognuna per proprio conto”. Intanto Volodja ha preso la macchina, ci ha raggiunte, ci ha fatte salire e abbiamo attraversato il paese. Non c’era più nessuno, non abbiamo incontrato anima viva. Una città fantasma. Una città morta. Tanto che già in macchina ho detto: “Mamma mia, sembra un film!” Macerie, incendi, case crollate. La paura aumentava man mano, mentre lasciavamo il paese. Dietro la macchina esplodevano le granate. E noi via, a rotta di collo ormai… Eravamo terrorizzati. E il drone sempre alle calcagna? Da morire di paura! Sembrava che potevi allungare una mano e toccarlo.
— Che cosa è successo alle sue proprietà?
— Che vuole che sia successo? Siccome il 14 marzo la situazione sembrava un po’ più calma, ho mandato mia figlia e mio genero a vedere come stavano le cose. Quando mi hanno mostrato le foto… Era tutto distrutto, bruciato, in macerie. C’erano solo le buche delle granate: una qui, un’altra là… Uguali a quella che aveva colpito casa nostra, vedrai. Mi sa di sì, perché è bruciata tutta in un momento. Persino le conserve in cantina! Pensi un po’ che roba, che temperatura ci doveva essere, se si sono fusi i barattoli di vetro. Avevo la cantina, la tettoia con il forno per cucinare all’aperto, poi la casa, il capanno per la legna, il garage. Tutto distrutto, e in un giorno solo, vedrai. Nella casa accanto c’era una coppia di anziani: lui aveva 86 anni, lei 83. Avevano detto che non volevano andare via perché tanto erano già vecchi e non avevano più nessuno. Lei è morta in cantina, lui lo abbiamo trovato in cortile, lo avrà colpito una granata, perché nel loro cortile c’era una buca enorme proprio come nel mio. Ci sarebbe entrata una macchina di quelle grosse.
Un giorno, sarà stato il 4 marzo, è rimasto ucciso un ragazzo della Difesa territoriale. Era qui insieme ad altri, con una macchina. Facevano il giro delle varie postazioni. Poi la macchina aveva avuto un guasto, e lui l’aveva lasciata in cortile per ripararla. E sono cominciate a piovere le granate. Lui, sua madre e alcuni conoscenti si sono rifugiati in cantina. Quando sembrava che tutto si fosse calmato, Saša è uscito e una granata l’ha fatto a pezzi sotto gli occhi della madre. Abbiamo sentito delle urla isteriche. Che succede? ho chiesto io. Era la madre che urlava: del figlio non era rimasto niente, solo le scarpe, e basta. L’abbiamo fatta entrare da noi e le abbiamo dato un calmante per tranquillizzarla. “Ljuba, non gridare! I ragazzi faranno tutto il necessario!” E infatti hanno raccolto quel che restava di lui, l’hanno messo in un sacco e l’hanno sepolto al cimitero.
— Avrebbe mai immaginato che ci sarebbe stata la guerra?
— No, non ci credevo proprio. Santo cielo! Davvero alla Russia non basta la sua, di terra? Ne hanno così tanta! Basta ararla, e lavorare come facciamo noi ucraini. Lavorate e avrete tutto anche voi. Perché venite a casa nostra, su una terra altrui? No, che non volevo crederci! Prima di tutto, mio padre è russo. E russa era mia nonna che mi ha allevata. Non riuscivo a immaginare che i russi avrebbero attaccato un popolo così vicino al loro. Quelli neanche sanno che Kyiv è più antica di Mosca. Perché siete venuti? Era il potere che volevate? Quanto c’è da qui a Pušča-Vodycja? Forse sette chilometri, e sei già a Kyiv. Quelli credevano di passare senza problemi. I ragazzi hanno detto che hanno trovato addosso ai soldati [russi] uccisi delle carte geografiche del 1970. Non avevano neanche carte decenti. Ormai ci sono centri abitati ovunque ti giri, e c’è gente. E case, e palazzine. È passato così tanto tempo… Quelli credevano di trovare i boschi, e invece no! Qui è tutto costruito. Ci sono quartieri nuovi. La vita continua, no? Loro, invece, pensavano che sarebbe stata una passeggiata.
— Si era preparata alla guerra?
— Il 16 febbraio mia figlia, che lavora all’ospedale militare, mi aveva detto che la situazione le pareva un po’ strana: “Comincia a raccogliere il necessario” mi aveva detto. E io avevo risposto: “L’essenziale sono i documenti, non devono bruciare”. Ma di certo non pensavo che avrebbero dato fuoco a tutto. Due scaramucce e basta, pensavo, senza incendiare il paese. Comunque, ho messo tutti i documenti in un bidone, l’ho sigillato e l’ho portato in cantina. Quelli essenziali (il passaporto, la patente) li ho messi da parte in una busta. Non volevo stare sempre con uno zaino in spalla….
Quando mia figlia è tornata a controllare, in cantina si erano bruciati solo i bordi delle bustine di plastica, ma i documenti erano intatti. Ho detto a mia figlia: “Io ho 67 anni, chi vuoi che mi faccia del male? Cosa se ne fanno, di me, quei ragazzini? Non sto mica qui con una pistola o un mitra. Non ho nulla! Se hanno fame, si accomodino”. È anche venuta gente da Kyiv a nascondersi in questo paese. Un sacco di bambini! C’era chi aveva paura che Kyiv sarebbe caduta. Quando hanno iniziato a bombardare coi “Grad”, ho detto: “Andatevene, per l’amor del cielo! Andatevene da un’altra parte, ovunque sia!” Per fortuna poi sono arrivati i volontari con i pullman e hanno portato via i bambini. E un sacco di altra gente insieme a loro.
— Che progetti ha per il futuro?
— Non abbiamo soldi. Quando ne avremo messi da parte un po’ valuteremo la situazione. Non si può fare niente senza i soldi. Per costruire una casa, o ristrutturarla, ci vogliono anni. Non basta una mano di intonaco e via. I nostri genitori sono sopravvissuti alla guerra, e la guerra è tornata. Sopravvivremo anche noi!
— Il suo atteggiamento nei confronti dei russi è cambiato?
— Non ci eravamo mai resi conto di quanto sono ottusi e incapaci: non capiscono niente. Su internet si vede un ragazzo che dice alla madre: “Mi hanno catturato”, e lei che risponde: “A me conviene che ti ammazzino, così prendo più soldi”. Ma davvero? Quella sarebbe una donna? Quando mai… Persino le cagne leccano i propri cuccioli, mentre quella si fa uscire di bocca una cosa del genere. Non ci si crede! Devono aprire gli occhi. Che vedano la realtà! Bella, la vita, no? Ma che venite a cercare, qui da noi, eh? Avete già tutto: la terra, la salute, l’intelligenza che serve per fare le cose come si deve. Mentre se andate dietro a Putin… Ne cavate qualcosa? Un bel niente! Il male per tutto il pianeta: solo questo. Siete diventati r-ascisti, ormai! Se pure capitasse un russo sensato e intelligente, dopo questa guerra nessuno si fiderà più di lui.

Questo materiale è stato preparato dal Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv nell’ambito dell’iniziativa globale T4P (Tribunale per Putin).

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