Voci dalla guerra. Valerija Kamins'ka, abitante di Mariupol'

Valerija Kamins’ka viveva a Mariupol’, aveva un’agenzia turistica. Poi sono arrivate le truppe russe, coi carri armati che sparavano a caso in mezzo alla città, distruggendo tutto, seminando la morte, impedendo di seppellire i morti. A salvare Valerija è stata la solidarietà di chi le stava accanto. Nell’intervista realizzata da Volodymyr Noskov e Denys Volocha racconta del periodo trascorso sotto l’occupazione russa di Mariupol’.

Voci dalla guerra. Valerija Kamins’ka, abitante di Mariupol’: “Ho dato da bere la vodka ai cani, perché non gli venisse un colpo al cuore”.

Valerija Kamins’ka viveva a Mariupol’, aveva un’agenzia turistica. Poi sono arrivate le truppe russe, coi carri armati che sparavano a caso in mezzo alla città, distruggendo tutto, seminando la morte, impedendo di seppellire i morti. A salvare Valerija è stata la solidarietà di chi le stava accanto. Nell’intervista realizzata da Volodymyr Noskov e Denys Volocha racconta del periodo trascorso sotto l’occupazione russa di Mariupol’.

L’intervista è stata realizzata per il progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).

Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.

Le traduzioni italiane sono a cura di Emanuela Bonacorsi, Francesca Lazzarin, Giulia Sorrentino e altri collaboratori di Memorial Italia.

Ho dato da bere la vodka ai cani, perché non gli venisse un colpo al cuore

19.09.2022

Valerija Kamins’ka è un’imprenditrice che ad aprile [2022 – NdT] è scappata dalla sua città, Mariupol’, alla volta di L’viv attraverso la Russia e alcuni paesi dell’Unione europea. Nel suo racconto troviamo terribili storie di torture, della vita sotto ai bombardamenti e il ricordo delle lacrime di un giovane ceceno durante una loro conversazione.

“Ogni volta che ne parlo è come se mi trafiggessero degli aghi” dice Valerija Kamins’ka, che non sempre riesce a trattenere le lacrime durante l’intervista. © Denis Volocha/Gruppo per i diritti umani di Charkiv (ChPG)

– Signora Valerija, perché racconta per l’ennesima volta la sua storia?

– Probabilmente perché le persone non si dimentichino di cosa è successo. Capisco chi si rifiuta [di raccontare la sua storia]. Perché dopo ogni rievocazione dei ricordi segue una settimana di notti insonni. Il terrore, come ogni esperienza negativa nella vita delle persone, non porta felicità. La felicità ci fa stare meglio, ma il dolore uccide e basta. Credo che non sia stato semplice per nessuno a Mariupol’. Ognuno ha vissuto quella realtà in modo diverso, ognuno il suo panico, la sua paura. In pratica passavi ogni secondo nel terrore quando eri lì.

– Questo terrore le è rimasto dentro?

– Sì. Adesso capisco perfettamente il terrore dei miei cari, costretti ad aspettare all’oscuro di tutto. La paura dell’ignoto. È davvero terribile. Allo stesso tempo, ora mi rendo benissimo conto che, ad esempio, i miei animali sono rimasti lì: due cani, sono sempre stata un’amante dei cani. Sto cercando dei modi per farli uscire di lì. Per me è una scelta delicata e terribile. Parlarne mi fa stare male [trattiene le lacrime – Ndr]. Sa, in quelle situazioni l’adrenalina mette in moto chiunque: tira fuori tutte le risorse che uno ha. Le dirò di più: tra le persone con cui ho parlato laggiù, quasi nessuno era ammalato. Sei sotto stress perenne, sei come un robot.

Avevo una grande responsabilità: mia mamma malata, gli animali. Cioè dovevo sempre provvedere a loro.

– Proviamo a documentare come si ricorda la Mariupol’ del 22-23 febbraio. La Mariupol’ che le era familiare.

– Vivevo sulla sponda sinistra del fiume. А due minuti precisi dal viale Mors’kyj e a cinque dal mare. Siccome sono un’appassionata di cani, ogni giorno me ne andavo tranquilla a camminare con loro al mare. Che fosse estate o inverno. Grazie a Dio ho un’attività in proprio, e non dovevo correre. Ho un’agenzia turistica autorizzata, lavoro con l’estero.

Per lei quando è cominciata la guerra?

– All’inizio c’è stato un momento di stupore. Cioè, non c’era ancora il panico e la paura. Quella era una tattica di guerra che ovviamente non ho inventato né io, né l’Ucraina. Sa, tutto stava montando. Per altri tre giorni ci sono state la luce e l’acqua. Il quinto giorno sono apparsi gli infiltrati. Donne e uomini vestiti di nero giravano con dei sacchetti in cui nascondevano qualcosa. Si avvicinavano ai negozi e alle farmacie e con quell’affare sparavano contro le porte e le serrande, entravano, prendevano la vodka e tutto quello che gli serviva. Saccheggiavano. Una volta che il negozio era aperto entravano i civili che vivevano nel quartiere e arraffavano quello che era rimasto.

Io non giudico nessuno di loro, perché le persone avevano bisogno di mangiare e bere. Ma dopo gli infiltrati hanno cominciato ad avvicinarsi alle persone che cucinavano per strada e a dirgli: “Pace a voi, chiamateci portatori di pace”.

– E le persone come reagivano?

– Io da subito avrei voluto parlare con loro perché mi interessava capire come ragionavano. Che cosa avevano da propormi? Quale pace? Perché chiamarli portatori di pace? Per aver bombardato il mio negozio? Per avermi lasciata senza medicine, pane, burro, formaggio e salumi? A me personalmente questa pace non serve.

Non so come abbiano reagito gli altri, ma tutto questo è successo davanti ai miei occhi. Dato che avevo i cani, li portavo a passeggio per l’isolato. Mi sembrava che quelle persone fossero indottrinate e che credessero di salvarmi. Solo non riuscivo a capire da cosa. Sono dovuta rientrare passando dalla Russia, attraverso l’Ucraina non era possibile, eravamo completamente tagliati fuori. Nel mio percorso tramite la Russia usavo toni gentili con tutti. A Mosca sono stata ospite da mia cugina, grazie a Dio sono in buoni rapporti con la mia famiglia, poi Riga, Varsavia, L’viv. Così sono riuscita a fuggire da Mariupol’.

– Quando avete capito di essere isolati dal mondo esterno, senza informazioni?

– Letteralmente il terzo giorno.

– Cosa si prova dal punto di vista emotivo, psicologico?

– Brancoli nel buio. Non reagisci in nessun modo, per me è stato così. Non piangi, non ti disperi. Ti senti gelare le viscere. E cominci ad adattarti alla situazione. Io non ho pianto perché capivo che non sarebbe stato d’aiuto. Ma laggiù ho pregato come non avevo mai fatto prima in vita mia.

Loro pensavano di entrare in città sfilando, e che sarebbe finito tutto così. Ma non ci sono riusciti.

Non avevo neanche troppa paura. Forse è stata la fede a salvarmi la settimana in cui è passata la “ronda serale”.

– Cosa sarebbe?

– Il nome ronda serale gliel’ho dato io. Si immagini un carro armato che gira per il quartiere e spara un colpo dove gli pare, alle 19.30 in punto. Questo dopo una settimana [dall’inizio dell’invasione].

Quei ragazzi andavano in giro per l’isolato e sparavano un colpo dove puntava la testa del carro armato.

Quando sparavano i missili Grad dalla fabbrica, capivi che sarebbero volati lontano. Cioè che ti sarebbero passati sopra. Distingui già il tipo di arma, sei come un elfo: ti crescono le orecchie, e capisci se sparano lontano o vicino, su quale edificio. Si immagini in che stato di tensione costante si trova una persona, con l’orecchio teso per capire quale missile cadrà e dove. E tutto questo succede davanti ai tuoi occhi.

– Come sopportava il silenzio?

– Molto male, perché il silenzio ti fa agitare di più, continui a pensare: “Ecco. Ci siamo”.

Il silenzio fa più paura di quando piovono i Grad. Lì capisci che sparano. Ma quando cala il silenzio, non sai quale sarà il passo successivo, cosa cadrà subito dopo. Perché rispondono sempre al fuoco.

– Quando ha cominciato a non avere viveri e acqua a sufficienza?

– Ritengo di essere una persona molto fortunata. Persino laggiù mi è andato tutto bene, se mi paragono con persone che sono uscite in cerca di acqua in qualche pozzo e non hanno fatto ritorno. A me, grazie a Dio, alcuni vicini hanno lasciato le chiavi [dei loro appartamenti]. Avevano scorte di acqua. Da un appartamento che ha preso fuoco ho salvato il gatto di Ljuda. Io voglio bene ai miei vicini, e grazie a Dio anche loro ne vogliono a me. Tutti mi hanno lasciato le chiavi di casa loro quando sono andati via. Mi hanno lasciato da mangiare. Non ho patito la fame.

Il mio palazzo è andato a fuoco, lo hanno colpito diversi proiettili. Ma in qualche modo si poteva andare avanti. La cosa più spaventosa non erano i colpi dei carri armati, ma la notte. Cioè quando in cielo passava una cosa indefinita. Lo chiamavo “Žužik”. Si immagini, nessuna luce, nessun rumore. Silenzio, buio, e poi in cielo una cosa che fa: “Zhhhh…”. Seguita da un’esplosione improvvisa e uniforme. Ti rendi conto che è sopra di te. E all’improvviso tutto viene avvolto da fiamme blu. Le porte tremano, le finestre anche.

Non so che razza di arma sia. Giuro che non lo so. Fa molta paura. Molta paura perché fuori è notte. Di notte gli aerei passavano di continuo, la tattica era quella. Poi mi sono fatta più furba. Parlavo con tutti. Se c’è un cecchino in tal edificio, su tal edificio verrà sganciata una bomba.

– Come si sono sviluppati in seguito gli eventi?

– Si avvicinavano sempre di più a noi, al mio isolato. Non potevamo uscire. Mia mamma mi ha chiesto di fare un salto a casa sua, che si trova a letteralmente dieci minuti di distanza a passo lento per il viale. Una fermata di autobus, una passeggiatina per il viale Komsomol’s’kyj [Mors’kyj].

Ma andarci non era fattibile, avevo paura. Ci sono andata con mia mamma quando casa mia ha preso fuoco, quando l’isolato di mia cugina è andato del tutto in fumo. In una notte sono andate a fuoco tutte le case intorno. Ci vivevano tutti i miei parenti, la nostra è una famiglia molto unita. Mia cugina viveva accanto, proprio dall’altra parte della strada. Anche casa sua è stata colpita da un proiettile. Non so se ucraino o russo, non l’ho visto con i miei occhi.

– Nell’aria c’era sempre fumo e puzza di bruciato?

– Sì. Non c’era verso. Era sempre tutto nero. Non mi interessava particolarmente sapere dove cadevano i proiettili.

– Quando sono apparsi per strada i primi russi in uniforme?

– I russi in uniforme sono apparsi dopo un mese e mezzo. Prima non c’erano, cioè non andavano in giro così.

– Hanno interagito con la popolazione locale?

– Forse non le è chiaro: non potevi uscire in strada, non potevi farti un giro. I miei cani facevano i loro bisogni nell’appartamento.

– Ma ci sono delle necessità vitali.

– Quali necessità vitali? Le persone che provavano a portarci l’acqua schizzavano via dopo due minuti, perché erano sotto tiro. Non si poteva uscire a preparare da mangiare. Non lo si poteva proprio fare. Le persone cucinavano dentro ai portoni.

Mia cugina, quella a cui è bruciata la casa, è andata con Saša alla fabbrica del pane. Sono letteralmente dieci minuti, ma ci hanno messo un’ora e mezza-due. E tu stai lì ad aspettarli. Mentre tornavano, prima di riuscire a correre dentro il portone hanno visto tre cadaveri. Interagire con i militari non era possibile.

Gli appartamenti altrui venivano scassinati per trovare cibo, acqua. Tutto si risolveva così. C’è chi lo chiama saccheggio. Io la ritengo una cosa normale. Può darsi che qualcuno abbia preso qualcosa in più, ma erano in cerca di cibo, acqua, sfondavano le caldaie. Non c’era altro modo.

La legna: tutti gli alberi erano stati abbattuti, tutto distrutto… Se in due minuti riuscivi ad afferrare [un pezzo di legno], ti scaldavi una tazza d’acqua. Se non facevi in tempo, allora non bevevi nulla. E basta!

Per un mese non sono mai uscita. L’unica cosa che potevo fare era andare di corsa nell’androne per preparare [da mangiare]. Avevi perennemente l’adrenalina e il terrore a mille. Dalla paura, i miei cani non uscivano in strada a passeggiare. In casa gli mancava l’aria, gli davo del calmante. Ma la valeriana è finita, per fortuna avevo comprato una bottiglia di vodka.

Gli ho dato la vodka con l’acqua, perché non gli venisse un colpo al cuore. Può immaginare quant’ero spaventata?

L’unica via era attraverso la Russia?

Un giorno è arrivata la notizia dei corridoi, sono partiti i vicini del piano terra. È stato dopo una settimana e mezzo dall’inizio della guerra. Basta, non so di altri corridoi.

Alcune persone del nostro quartiere hanno cominciato a partire da sole, ma verso la Russia e la DNR[1], non c’era altra via. Perché il fiume e il mare ci tagliavano fuori dal resto del territorio.

La nostra sponda era isolata. Tutti i ponti erano saltati. Impossibile scappare.

Dall’isolato dove mi trovavo io non siamo potuti uscire. Non ci arrivava nessuna informazione. Le persone se ne sono semplicemente andate. Prima verso gli ospedali, che sono stati tutti bombardati. Allora nel panico, sotto shock, hanno preso un’altra direzione. Quando hanno bussato a casa di Alena e hanno detto che gli aerei avrebbero sorvolato e distrutto l’isolato, ce ne siamo andati anche noi. Con la carrozzina, la mamma invalida, le sue medicine.

Siamo uscite io e mia mamma, la famiglia di Alena, lei e il marito, abbiamo portato con noi una donna invalida sin dall’infanzia, una sua vicina. Insomma, otto donne. Si immagini otto donne, non più giovani, che si danno alla fuga.

L’esercito della DNR e i ceceni

Stavo parlando con un giovane ceceno. Con le lacrime agli occhi mi fa: “È vero che ci chiamano animali?”. Io rispondo: “È vero che ci chiamano nazisti e drogati?”. Il ragazzino sta lì e piange. Dice: “Appena arrivato qui ho capito che quello che ci hanno promesso, detto, ficcato in testa e nel cuore è tutta una bugia”.

Pensavano di arrivare come professionisti, come una squadra di calcio per una partita in trasferta. Nel giro di tre giorni avrebbero messo in ginocchio la città con canti e danze cecene. Gli avrebbero dato la città, avrebbero ristabilito l’ordine, portato le loro famiglie e avremmo vissuto tutti in amicizia, amore e armonia. Non è andata così.

Non so chi abbia inventato la parola “nazionalità”. Dio non ha nazionalità. Ci sono gli uomini e c’è la gentaglia. E questo vale per ogni nazione, non solo per gli ucraini.

So solo che da una parte ci sono persone, dall’altra ci sono – non so nemmeno io come chiamarli. Francamente, non sono nemmeno gentaglia. Non voglio nemmeno paragonarli agli animali.

Shamil [il ceceno], mentre stava arrivando l’intera brigata, dice: “Avete del pane?”. “Niente pane” rispondo. E lui ci ha dato pane, cibo, acqua.

© Denis Volocha/ Gruppo di protezione dei diritti umani di Charkiv (ChPG)

Signora Valerija, d’altra parte ognuno è libero di scegliere. Lui poteva farsi qualcosa, arrendersi.

– E invece non si è arreso. Si è mutilato, è tornato a casa e ha ordinato a tutta la sua famiglia di non venire qui. E poi arrendersi, perché avrebbe dovuto farlo?

L’hanno riconvocato, e due minuti dopo dice: “Bisogna fare qualcosa”. E io gli dico: “Shamil, falla, ma basta che non sia la guerra”.

Parliamo ora dell’incontro con i sedicenti “soldati della DNR”. Io li ho chiamati “i babbei della DNR”.

Sa, a volte mi sembrava che ne fossero contenti: “Noi abbiamo vissuto così per otto anni!”. Ci bombardano, ci sparano addosso, non ho una casa. E loro sono contenti che io non abbia una casa.

“Adesso lei fa parte della DNR. Cos’è? Non guarda la TV?”. Parevano quasi orgogliosi: “Ti sto salvando, ora vivi nel Donec’k”. E chi mi ha chiesto se volevo vivere nel Donec’k oppure no? Sono proprio felice di vivere in questa zona grigia senza cibo, acqua e di strisciare sotto i proiettili! Davvero una grande gioia!

Ci sono stati insulti, umiliazioni da parte loro?

Sì, “E lei chi è? Cosa ci fa qui?”.

Le torture delle milizie della DNR

Le racconterò una storia sconvolgente. Provate a immaginare la situazione della mia amica Lena, io e lei abitavamo insieme, cucinavamo insieme. Accanto viveva Olja, la figlia di sua sorella Ira. Era da tanto ormai che aspettavano Ira. E quando Olja e suo marito sono andati a cercarla, hanno trovato soltanto la casa distrutta e lì vicino la sedia a rotelle.

Tre giorni dopo scompare il marito. Prima sua sorella Ira, poi il marito.

Per cinque giorni io e Lena ci danniamo a cercare il marito, con cui ha vissuto trent’anni. Il quinto giorno riappare e racconta come è andata.

Vlad era stato ferito in modo piuttosto grave. Stava cercando di accendere un fuoco, il portone metallico dell’ingresso gli si è chiuso davanti e alcune schegge gli si sono conficcate nello stomaco. Aveva un buco nel fianco. La figlia è riuscita a portarlo in ospedale a farlo medicare.

L’hanno portato via con le buone solo perché gli hanno trovato un buco nel fianco durante il controllo. Era nella base della DNR, allestita nel campo dei pionieri dove prendevamo l’acqua. Ogni giorno chiedevamo in giro: “Avete visto quest’uomo?”.

Lo hanno portato in un seminterrato, spogliato da capo a piedi. Ogni giorno lo picchiavano, lo torchiavano e lo torturavano con l’elettricità per costringerlo a parlare.

“Vedevo scintille, avevo dolori dappertutto,” ci ha raccontato “e mi sono reso conto che se non avessi detto ’Gloria a Zacharčenko’, nel giro di due minuti mi avrebbero ridotto in mille pezzi”.

Non è credente, ma quella volta ha detto: “Ho pregato che cadesse una granata e mi facesse saltare in aria con loro”. Voleva impiccarsi. Riuscite a immaginare quanto fosse terrorizzato quell’uomo?

Era tutto malconcio, con una costola rotta e una ferita al fianco. Ha pure detto: “Sono stati gentili con me”.

Un ragazzo l’hanno preso perché andava in giro con il suo telefono mentre nessuno aveva il caricabatterie. Gli hanno tagliato un dito perché non scrivesse “Gloria all’Ucraina” su Facebook.

C’erano molti scantinati. E dentro parecchia gente.

“Camminare tra i cadaveri”.

Vivevo a casa della mia amica Lena. Suo marito Vlad e io abbiamo provato due volte a fare una scappata nel mio quartiere per prendere delle cose. Si camminava tra i cadaveri, letteralmente. Non sto esagerando: c’erano cadaveri ovunque. Non importa se della DNR o ragazzi comuni. Tutti distesi…

© Denis Volokha/ChPG

Vuol dire che erano tutti morti?

– Erano tutti morti: civili e della DNR. Non ho visto nessuno dei nostri. Probabilmente i nostri erano già stati radunati vicino all’acciaieria Azovstal’. Come una mandria, povera gente… Mi inchino ai nostri, alla loro professionalità. Non so, non sono nemmeno degli eroi…

Quando sento i vari pareri della gente del posto, secondo cui avrebbero potuto consegnare la città e noi saremmo rimasti nelle nostre case a vivere in pace, io dico questo: mi inchino davanti a questi ragazzi, perché hanno protetto il mio passato, la mia vita, il mio benessere, la mia pace. E hanno voluto che continuassi a vivere così.

Ma io non ho imposto il mio punto di vista a nessuno, è inutile. Tutti rimangono della propria idea.

A Rostov ho sentito un tassista rallegrarsi del fatto che l’indomani ci sarebbe stato un attacco chimico. Gli ho detto: “Ma si rende conto di cos’è un attacco chimico? Non è solo l’acciaieria. Si rende conto di quanta gente c’è? Ma quale gioia?”.

Giuro, mi dispiace per gli uomini del Donec’k. Sembravano una mandria [mandata] al macello. I ceceni, buoni o cattivi, che il diavolo se li porti: gli è stato promesso uno stipendio e pure una città in regalo, e sono venuti a conquistare Mariupol’ in tre giorni. Avevano divise e scarponi, erano equipaggiati. Questo lo capisco. Ma quando sono arrivate le milizie della DNR, li hanno semplicemente scaricati da un camion, ed erano lì, fermi in piedi — dei bambini! Addosso solo un paio di calzoni, una specie di giubba, un berretto in testa. Dove vuoi che vadano a combattere? Questo non riesco a capirlo.

Non avevano nemmeno le sigarette. Ne sono morti così tanti… Ogni due o tre giorni c’era una rotazione. Bastava stare alla finestra a guardare i ragazzi su quei camion, i carri armati scendere in strada, i cannoni antiaerei. E il giorno dopo tornare indietro: non smontava nessuno, non sopravvivevano.

Molte persone chiedono: “È vero o è una bugia la storia del crematorio?”. È vero. Io stessa ho visto quella macchina. Risultano “dispersi”. DNR, regione di Luhans’k.

Mi dica, nel crematorio finivano solo quelli della DNR o anche i nostri?

– Io non ho visto. Ho visto solo fumo e macchine. Abbiamo un cimitero praticamente dietro ogni casa.

Quando vivevo nel mio quartiere, di fronte a me c’era un ex asilo, riconvertito in un centro meraviglioso, bellissimo, rimesso a nuovo per ospitare persone e bambini disabili. Anche la moglie del nostro Presidente era venuta all’inaugurazione di questo edificio. Era bello, elegante, con fiori che crescevano nel cortile. Tutto bello e ben curato.

Mentre un uomo stava passeggiando con i suoi cani, una granata deve averlo colpito. Per tre giorni nessuno gli si è potuto avvicinare. Lui era steso a terra, i cani gli stavano accanto. Nessuno poteva uscire per seppellirlo, perché non era pensabile farlo: ti uccidevano, c’erano sempre attacchi aerei, esplosioni, granate, fiamme. Non si poteva uscire per seppellire una persona.

Poi la situazione si è un po’ calmata. Il quinto giorno, quando i cani si sono messi a mangiare il cadavere, gli uomini sono corsi fuori da qualche rifugio e l’hanno seppellito. Avevo una pala per scavare fosse di cui tutti sapevano l’esistenza. Tutto il quartiere sapeva che avevo una pala per le fosse. La tenevo nel corridoio comune, non la prendevo.

Tentativi di partenza

Ho deciso [di evacuare] non appena ho saputo che la gente stava passando da Sopino, dal quartiere accanto al nostro. Prima non potevo andarmene. Sono corsa da tutti: dai media russi, dalla televisione di Mosca. Gli faccio: “Signori, devo portare via mia madre, non ce la farà ad arrivare a piedi fino al punto di partenza”. Dovevo portare fuori mia madre, non avevo intenzione di andarmene senza di lei. Si fosse trattato di me sola, sarei andata via in un attimo.

Mi rispondono: “Non è di nostra competenza”. So che ci sono stati casi in cui dei giornalisti russi hanno dato una mano. Ma i miei probabilmente non volevano farlo. È stato lo stesso con la DNR: “Vi aiuteremo, vi salveremo”. Ma nessuno mi ha aiutato. Solo Dio mi ha aiutato di nuovo.

Un ragazzo è venuto a controllare un appartamento vicino, aveva già passato la selezione, aveva tutti i documenti necessari e poteva guidare. Ha portato giù me e mia madre. Siamo partite il 15 aprile.

– Anche lei è passata per i campi di selezione?

– Sì.

– Com’è stato?

– Sa, per me da pensionata è stato orribile. Ho viaggiato attraverso la Russia. C’è il confine della DNR e subito dopo quello russo. E al confine della DNR, dato che ho un passaporto di L’viv e il mio ex marito è di Ivano-Frankivs’k, hanno iniziato a farmi ogni sorta di domanda. “Dove abitava? Cosa pensa di…? Perché?”. Ma io sono una persona di spirito, li ho mandati a quel paese con umorismo. Dicevo: “Una volta ero giovane e bella, ma ora sono solo bella”.

“Sono più depressa ora di quando ero lì”.

Hai paura del domani, sei un pezzente. Non hai nulla. Niente di niente. Non sono più giovane, capisce? Le persone di 70 anni non hanno più speranza, hanno paura. Non sono l’unica ad averne.

Probabilmente a Mariupol’ c’era una paura fisica. Non una paura psichica: sei come un animale. Lì ci siamo tutti presi il COVID. Ma nemmeno te ne accorgevi, perché eri costantemente con l’adrenalina al massimo.

So che le ragazze svenivano e che molti hanno avuto attacchi di cuore. Ognuno reagisce in modo diverso. È come dopo un’operazione: ti tagliano un dito, lì per lì ti fa male e basta. Poi inizia un dolore sordo. Ed è proprio di questo tipo il dolore e la sofferenza interiore che uno prova in una fase della vita come questa. E ogni volta che ne parlo è come se mi trafiggessero degli aghi. Sei in preda a una paura psichica. Spirituale.

***

[1] Repubblica Popolare di Doneck (Doneckaja Narodnaja Respublika, DNR).

 

 

 

 

 

 

 

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