(foto: Daniel Torok, CC BY 3.0 US,
via Wikimedia Commons)
(di Mario Corti)
03 giugno 2025
Aggiornato il 06 giugno 2025 alle 10:22
Mario Corti è ex direttore del Servizio russo di Radio Liberty, attualmente membro di Memorial Italia. Qui pubblichiamo il suo intervento, nella traduzione dall’inglese dell’autore, al Convegno telematico dell’ARA (American Russian-Speaking Association for Civil & Human Rights) il 24 maggio 2025, intitolato “The West is Swamped with Promoters of Soviet Expansion”: Sakharov’s Warnings and Post-Soviet Experience / Online Hearings on Pro-Kremlin Agendas and Narratives in the West in Past and Present.
Il mio primo incarico a Radio Free Europe/Radio Liberty, a partire dal gennaio 1979, è stato come ricercatore, analista e redattore nella Sezione Samizdat. La Sezione era responsabile della pubblicazione dei documenti del Samizdat disponibili in Occidente opportunamente selezionati, ristampati, corredati di note, riferimenti incrociati e, quando possibile, di indici dei nomi. Quei documenti, per la maggior parte scritti e firmati da attivisti per i diritti umani, venivano mandati in onda per intero.
L’amplificazione delle voci provenienti dall’interno della società sovietica era, se mi si consente l’espressione, un marchio di fabbrica di Radio Liberty. Nessun’altra emittente occidentale trattava i documenti del Samizdat provenienti dall’Urss con la stessa cura, stanziava altrettante risorse per la loro riproduzione e ne dava altrettanto spazio in onda. Rilanciati attraverso l’etere, gli scritti dei combattenti per la libertà penetravano in profondità in territorio sovietico fin nelle regioni più remote. Fu così che molti degli ascoltatori cominciarono a percepire Radio Liberty più come un servizio domestico che non come un’emittente straniera.
Qui non vi è lo spazio per ripercorrere la storia di Radio Free Europe/Radio Liberty e delle sue trasformazioni dopo il collasso del comunismo e dell’Unione Sovietica e l’emergere di nuovi stati indipendenti. Basti dire che forse il pericolo maggiore per la sopravvivenza delle emittenti si presentò proprio in quel periodo, quando l’allora presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty Gene Pell ebbe a dire: “Our business is to get out of business”, a missione compiuta si chiude bottega. Molti di noi si convinsero che soltanto l’Istituto di Ricerca di Radio Free Europe/Radio Liberty, formato dalla fusione dei due grandi dipartimenti di ricerca, degli archivi e della biblioteca proprio in previsione della chiusura dei programmi radio, sarebbe sopravvissuto.
Ma si trattò di un errore di valutazione. Grazie all’intervento di personalità dell’Europa dell’Est come Lech Wałęsa e Václav Havel, furono le emittenti a sopravvivere. Havel arrivò al punto da offrire l’edificio dell’Assemblea nazionale della Cecoslovacchia, ormai vuoto dopo la separazione delle due repubbliche, per ospitare la sede centrale di Radio Free Europe/Radio Liberty. In precedenza, l’allora ministro degli Esteri estone Lennart Meri aveva candidato Radio Free Europe/Radio Liberty per il Premio Nobel per la Pace. Assiduo ascoltatore dei programmi del Servizio russo, Meri, una volta diventato presidente dell’Estonia, chiamava al telefono con una certa regolarità il mio ex capo Yuri Handler, direttore di quel Servizio, per lodare l’uno o l’altro programma da lui particolarmente apprezzato.
Dunque, le emittenti si trasferirono da Monaco di Baviera a Praga, dove continuarono la loro attività tra alti e bassi. In coincidenza con la partenza da Praga del Presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty Kevin Klose, arrivarono da Washington nuovi amministratori inesperti che avevano poca dimestichezza con la particolare natura della nostra organizzazione. Essi tentarono di uniformare il lavoro dei vari servizi senza tener conto delle differenze linguistiche e culturali tra loro; gonfiarono l’apparato burocratico a scapito del personale addetto ai programmi radio, aggiungendo anche livelli di comando superflui; tentarono persino di chiudere la redazione notizie del Servizio russo e di licenziarne il personale; si arrivò al punto in cui il vice-presidente di Radio Free Europe/Radio Liberty cominciò a fregiarsi del titolo di redattore capo pur senza conoscere le lingue, la cultura e la storia dei paesi destinatari delle loro trasmissioni, titolo che in precedenza spettava a ogni singolo direttore dei rispettivi servizi.
Malgrado le vicissitudini, i giornalisti dell’emittente continuarono a svolgere la loro missione con dignità e professionalità, adattandosi ai cambiamenti della società e del loro uditorio. Come ebbe a dire il mio predecessore alla direzione del Servizio russo Yuri Handler in opposizione al pensiero di Gene Pell, Radio Liberty e, in particolare, il suo Servizio russo costituivano la migliore polizza di assicurazione degli Stati Uniti in caso di fallimento della transizione alla democrazia dei paesi ex sovietici, cosa puntualmente accaduta con la restaurazione putiniana.
Oggi ci troviamo di fronte a una immotivata e brutale guerra di aggressione condotta dalla Russia contro l’Ucraina, una democrazia sovrana. In Russia i media indipendenti sono stati costretti a chiudere o a trasferirsi all’estero, i giornalisti vengono imprigionati, uccisi o costretti all’esilio. Il popolo russo ha un bisogno disperato di un’informazione corretta e affidabile proprio nel momento in cui la nuova amministrazione americana sta smantellando le sue emittenti internazionali.
Come il Kgb, suo predecessore, l’Fsb continua a infiltrarsi nelle istituzioni e negli spazi informativi occidentali. Tuttavia, come ebbi a dire in una mia intervista di tanti anni fa, di fronte a certe decisioni adottate da chi è preposto a dirigere l’emittenza internazionale degli Stati Uniti, “l’Fsb potrebbe dormire sonni tranquilli”.
Per citare dalla Lettera dal confino di Andrej Sacharov pubblicata dal New York Times l’8 giugno 1980:
“L’Occidente e i paesi in via di sviluppo sono pieni di cittadini disposti a promuovere l’influenza e le mire espansionistiche dell’Urss grazie alla posizione che occupano”.
Oggi questa citazione si può applicare parimenti all’influenza russa.
Mentre l’amministrazione Usa sottrae fondi alla Voce dell’America, Radio Liberty (RFE/RL), Radio Asia Libera e Radio e Tv Martì, la propaganda e la disinformazione russa circolano incontrastate, amplificate da agenti di influenza prezzolati, compagni di strada, utili idioti e dai cosiddetti Russlandversteher, cioè da coloro che capiscono le ragioni della Russia.
Non starò qui a speculare se il presidente Usa o chiunque faccia parte della sua squadra sia o meno una risorsa del Cremlino. Fatto sta che l’affermazione di Sacharov sopracitata suona incredibilmente vera anche nel caso dell’attuale direttivo americano. Purtroppo, questa amministrazione, come dimostrano le varie dichiarazioni rilasciate da alcuni dei suoi membri e dallo stesso presidente, si è fatta portavoce della propaganda e della disinformazione russa. Questa è l’amara realtà.
Il segretario di Stato alla Salute e ai Servizi umani Robert Kennedy Jr. è arrivato a dichiarare che la rivoluzione della dignità ucraina è stata un colpo di stato finanziato dagli Usa, mentre secondo l’amichetto immobiliarista di Trump Steve Witkoff, suo inviato speciale a Mosca, siccome nei territori occupati dell’Ucraina si parla anche il russo, essi dovrebbero appartenere alla Russia.
Il presidente Trump sostiene che Zelens’kyj, “un dittatore senza elezioni”, ha cominciato la guerra: “Non cominci una guerra contro qualcuno venti volte più grande di te per poi sperare che ti diano qualche missile”. A febbraio, gli Stati Uniti si sono opposti all’appellativo di “aggressore” dato alla Russia in una dichiarazione del G7 in occasione del terzo anniversario dell’attacco russo all’Ucraina. Allo stesso tempo, si sono rifiutati di co-sponsorizzare una risoluzione Onu a sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina e di condanna dell’aggressione russa.
Nel momento in cui la Russia è al limite del collasso economico, si rifornisce di armi in Cina e in Iran e recluta i suoi soldati nelle prigioni e in Corea del Nord, l’apprendista dittatore accorre in suo soccorso. Accorre in soccorso di Putin, che egli evidentemente ammira; lusinga e rabbonisce il tiranno russo, un reietto internazionale e un criminale di guerra, fa di lui un valido interlocutore negoziale, prende le sue parti ed è pronto a concedergli quasi tutto quello che vuole, compresi territori che non appartengono né alla Russia, né agli Stati Uniti.
A un giornalista che gli domanda a che cosa dovrebbe rinunciare la Russia in un eventuale accordo di pace con l’Ucraina, Trump, nel suo solito modo confuso di esprimersi, risponde che la Russia dovrebbe rinunciare a tutta l’Ucraina. Quello che intendeva dire è che la rinuncia della Russia a conquistare l’intera Ucraina sarebbe già una concessione. Se a questo aggiungiamo la sua netta opposizione all’entrata dell’Ucraina nella Nato, diventa evidente che il suo cosiddetto piano di pace altro non è se non la resa dell’Ucraina a un paese che non riesce a vincere la guerra sul campo di battaglia.
L’annuncio che gli Usa potrebbero riconoscere de jure l’annessione illegale della Crimea va contro i principi dell’inviolabilità delle frontiere e dell’integrità territoriale sanciti dalla Carta dell’Onu e dall’Atto Conclusivo di Helsinki. Se messo in atto, sarebbe un tradimento degli impegni precedentemente assunti e l’abbattimento di un’architettura globale, costruita e sostenuta per decenni con il contributo essenziale degli Usa.
Di recente il presidente Trump ha sostenuto che Mosca è più forte di Kyïv. La verità è che, malauguratamente, Mosca ha trovato un nuovo alleato a Washington che la rende più forte. Vi ricordate l’infame agguato teso a Zelens’kyj nello Studio Ovale? Fu lì che Trump ha fatto ricorso alla metafora del gioco delle carte: “Non hai le carte”, ha detto al presidente ucraino. Certo, con l’ascesa di Trump al potere, Putin si è ritrovato una briscola in mano (in inglese, “trump”).
Quanto più a lungo rimarrà al potere, tanto maggiore sarà il danno che Trump riuscirà a fare. Se gli scippi di territorio da parte di Putin verranno legittimati, ne seguiranno altri. La antica reputazione dell’America come faro di libertà ed esempio di democrazia ne risulterebbe gravemente danneggiata. Come ha sostenuto l’ex ambasciatrice Usa a Kyïv Bridget Brink “la pace ad ogni costo non è pace, è acquiescenza” e “l’acquiescenza non conduce alla sicurezza, alla salvaguardia o alla prosperità. Conduce a ulteriori guerre e sofferenze”. Trump non è un operatore di pace, è un guerrafondaio.
Ci vogliono anni se non decenni per creare fiducia, bastano pochi giorni per distruggerla, ed è esattamente ciò che l’attuale presidente Usa ha fatto.
Per tornare da dove ho cominciato, ancora non sappiamo con assoluta certezza se Radio Free Europe/Radio Liberty, come istituzione americana, riuscirà a sopravvivere l’anno in corso. Sappiamo che la Repubblica Ceca ha sollecitato il patrocinio europeo per tenerla in vita.
Ma Dio non voglia che, se dovesse diventare europea, RFE/RL – Radio Free Europe/Radio Liberty non debba essere ribattezzata in RFA/RL – Radio Free America/Radio Liberty con l’aggiunta di un Servizio Usa e l’impiego di giornalisti americani emigrati.
I Trump vanno e vengono, ma voglio credere che l’America, con la sua tradizione di democrazia e di libertà, un paese fondato su principi e virtù oggi calpestati dalla presente amministrazione, finirà per prevalere.

