Un operaio di Jaroslavl', Vasilij Ljulin

Maria Ferretti, Un operaio di Jaroslavl', Vasilij Ljulin: per un approccio microstorico alla genesi dello stalinismo.

Maria Ferretti

Un operaio di Jaroslavl’, Vasilij Ivanovič Ljulin: per un approccio microstorico alla genesi dello stalinismo*

 

foto11aLa notte dell’11 giugno 1929, gli uomini della OGPU, la potente polizia politica sovietica, bussano alla porta di una casetta operaia del sobborgo di Zabelicy, situato alla periferia di Jaroslavl’, accanto alla più importante fabbrica tessile cittadina, la “Krasnyj Perekop”[1]. Sono venuti ad arrestare Vasilij Ivanovič Ljulin, tornitore in quella stessa fabbrica[2]. Perquisiscono l’abitazione, annotando con mano incerta il magro bottino sequestrato: qualche lettera, un taccuino, la tessera sindacale, il libretto militare, un documento di identità[3]. L’ordine di arresto era stato dato alla OGPU, con un dispaccio urgente, soltanto poche ore prima dalla direzione locale del partito, riunita a porte chiuse per il secondo giorno consecutivo[4].

Chi era Vasilij Ivanovič? E perché faceva tanta paura al partito e al potere sovietico?

Il tornitore Vasilij Ivanovič Ljulin lavorava nell’officina meccanica della “Krasnyj Perekop”, già Grande Manifattura di Jaroslavl’, una delle più antiche fabbriche tessili russe, che vantava una fiera tradizione rivoluzionaria. Fondata ai tempi di Pietro il grande, quando Jaroslavl’, fiorente cittadina adagiata sul corso superiore del Volga, era uno dei principali centri commerciali del paese, la Manifattura, dopo aver attraversato, come tutte le industrie russe, un periodo di decadenza durante la prima metà dell’Ottocento, aveva approfittato dell’impetuoso sviluppo economico di fine secolo, affermandosi come una delle più importanti imprese tessili[5]. La Manifattura era fra le imprese chiamate a rappresentare la Russia all’Esposizione universale di Parigi del 1900, dove si era distinta non solo per la qualità dei suoi prodotti – filati e tessuti, tele di cotone e calicò per il mercato popolare in espansione -, ma anche, e soprattutto, per l’avanzata politica sociale nei confronti degli operai, che le era valsa alcuni prestigiosi riconoscimenti, fra cui persino un Grand Prix[6]. Per dare un tetto alle maestranze, attorno alla fabbrica erano stati costruiti diversi edifici abitativi, che, seppure non erano sufficienti per tutti, consentivano di alleviare la crisi degli alloggi. Per i rifornimenti alimentari, c’era uno spaccio e, per i pasti caldi, una mensa; per lavarsi, c’erano i bagni pubblici. La Manifattura aveva inoltre – cosa rara per quei tempi – un ospedale, con annesso ambulatorio e reparto di ostetricia, un ospizio per gli anziani e tutta una serie di strutture per l’infanzia: il nido, a cui le operaie potevano affidare i figli mentre lavoravano, l’asilo e, naturalmente, la scuola, dove i bambini apprendevano, in tre anni, a leggere e far di conto, a cantare e a pregare, a cucire (le femminucce) e a fare ginnastica (i maschietti). Per chi già lavorava, c’erano poi i corsi serali. Accanto alla scuola c’era anche una biblioteca, destinata in realtà in primo luogo agli impiegati; questa contava un po’ più di 2.000 volumi e diversi giornali e riviste: oltre ai libri di culto e di preghiere, c’era una nutrita sezione di libri di attualità, di storia, di geografia e di scienze naturali; la sezione più ricca era naturalmente la narrativa, che contava opere di autori russi e stranieri, da Victor Hugo, Alexandre Dumas, Emile Zola, Charles Dickens e Walter Scott fino a Verga (Mastro Don Gesualdo) e la Divina Commedia, passando per il teatro dell’Alfieri[7]. La Manifattura si prendeva cura anche del tempo libero degli operai, per evitare che la finissero tutti in compagnia della bottiglia: nei giorni di festa venivano allestite letture collettive, concerti e spettacoli di vario genere; d’estate nel parco della fabbrica si praticavano vari sport all’aria aperta, con tanto di gare e accompagnamento musicale; di tanto in tanto, poi, venivano organizzate serate danzanti, a cui partecipavano anche gli abitanti della città. La Manifattura non tralasciava nemmeno la cura delle anime dei suoi dipendenti: nel territorio della fabbrica sorgevano infatti ben tre chiese.

Ai tempi in cui si svolge la vicenda qui narrata, sul finire degli anni venti, la Manifattura, con i suoi più di 10.000 operai, era la fabbrica più importante della città, che contava in tutto un po’ più di 100.000 anime. Fra gli operai della manifattura c’era dunque Vasilij Ivanovič Ljulin. Che era non solo un operaio. Era un operaio figlio di operai, un operaio di seconda generazione, cioè un rappresentante di quelle “dinastie” operaie che costituivano la vera classe operaia, su cui, secondo i precetti dottrinari bolscevichi in voga al tempo, doveva fondarsi il potere sovietico. Suo padre, Ivan Egorevič, era infatti un contadino povero della regione di Vladimir, che, approfittando delle possibilità di movimento aperte dalla liberazione dal servaggio, aveva lasciato il villaggio natale per andare a lavorare in fabbrica; non ancora ventenne, nel 1882, era stato assunto come attaccafili alla Grande Manifattura di Jaroslavl’, dove sarebbe rimasto per più di 30 anni, fino alla fine dei suoi giorni[8]. Tre anni dopo era stato raggiunto dalla moglie, Marfa Polikarpovna, anche lei una contadina povera dello stesso villaggio, entrata in fabbrica come operaia ritorcitrice e anche lei destinata a passarvi tutta la vita[9]. Vivevano in un bugigattolo al pianterreno di uno dei severi edifici di mattoni rossi adibiti ad abitazioni operaie nei pressi della fabbrica: lo stanzino n.8 dell’VIII corpus[10]. Qui era nato, nella primavera del 1899, Vasilij, l’ultimo di quattro figli[11]. Cresciuto fra gli operai, a 13 anni Vasilij, dopo la scuola elementare, entra anche lui, seguendo le orme del fratello Egor’, di due anni più grandicello, in fabbrica[12]. Lavora prima come attaccafili, poi, dal 1915, come filatore. E’ un operaio modello, dedito al lavoro, mai in ritardo la mattina, quasi mai assente in anni in cui l’assenteismo è, per l’industria russa, un vero flagello[13]. Un tratto, quest’interiorizzazione della disciplina del lavoro, che sembra distinguerlo, forse proprio perché operaio di seconda generazione, dal padre, che, pur essendo un bravo lavoratore – nel 1911 sarà addirittura decorato per i servigi resi all’azienda -, si era invece assoggettato con difficoltà alla tirannia del tempo industriale, come mostrano le sue frequenti assenze e le pause che si era concesso dal lavoro di fabbrica, licenziandosi per brevi periodi per farsi poi riassumere[14]. Lavoratore modello, Vasilij sembra determinato a mettere a profitto le sue capacità per risalire lungo la scala sociale, migliorando la sua qualificazione per diventare operaio specializzato. Nel 1916 lascia i reparti tessili della Grande Manifattura per entrare come apprendista tornitore nell’officina meccanica della fabbrica, dove resta presumibilmente fino all’ottobre del 1918, quando viene mobilitato nelle squadre per la requisizione di generi alimentari[15]. Secondo alcune informazioni, durante la prima guerra mondiale Vasilij si sarebbe accostato ai circoli social-democratici clandestini, prendendo parte alla loro attività; poi, dopo la rivoluzione, aveva aderito al partito bolscevico[16]. Durante la guerra civile aveva combattuto come fuciliere nell’Armata rossa, pronto a dar la vita per difendere il potere sovietico; sul campo era stato reclutato dal settore della propaganda, e nel 1921 era stato mandato a Mosca a seguire i corsi di formazione brevi, di 4 mesi, organizzati dall’Università Sverdlov[17]. La sua permanenza nel partito non era però durata a lungo. Dopo la fine della guerra civile, durante la purga del 1921, Vasilij Ivanovič era stato infatti espulso, per via, a stare ad alcune fonti, delle sue “prese di posizione antisovietiche”, di cui però al momento non si sa nulla di preciso[18]. Gli era stata quindi preclusa la possibilità di esser chiamato a incarichi di responsabilità attraverso la militanza politica, una possibilità largamente sfruttata da chi come lui aveva studiato alle scuole di formazione del partito in quegli anni di elevatissima mobilità sociale, in cui il potere sovietico era alla disperata ricerca di uomini fidati a tutti i livelli[19]. Dopo la smobilitazione, nel settembre 1922, Vasilij Ivanovič torna dunque in fabbrica, rimettendosi a fare l’apprendista tornitore, finché pochi mesi dopo, nel maggio del 1923, viene assunto come tornitore nell’officina meccanica[20]. Restano di lui poche tracce fino al 1927. Un rapporto successivo, redatto dalla OGPU nel 1929, afferma laconicamente che Vasilij Ivanovič sarebbe stato notato come protestatario già nel 1924-1925, senza però fornire dettagli[21]. Sappiamo dai suoi stessi racconti che, essendo stato emarginato dalle attività più propriamente politiche, si era impegnato col comitato di fabbrica e il sindacato nel sociale: era stato, per esempio, fra gli organizzatori della cooperativa operaia della fabbrica[22]. Inoltre, poiché studiare non aveva smesso di affascinarlo, si era iscritto, nonostante avesse messo su famiglia, alla “facoltà operaia” organizzata in fabbrica per preparare specialisti di origine sociale fidata[23].

Disponiamo di copiose informazioni, invece, per il periodo fra il 1927 e il 1929, quando Vasilij Ivanovič diventa il leader operaio della fabbrica, facendosi portavoce della sorda protesta dei lavoratori contro la politica di industrializzazione forzata perseguita dal partito, che, non essendo riuscito a metterlo a tacere con altri mezzi, ne ordinerà nel giugno del 1929, come si è visto, l’arresto. In questo periodo, infatti, gli zelanti confidenti della OGPU gli si accalcano intorno, pronti a carpire ogni parola detta e non detta per riferirla agli organi della polizia politica, che stilano puntuali rapporti. Prima di addentrarci nel vivo della vicenda, converrà ricordare brevemente il contesto all’interno del quale si iscrive la nostra storia.

Gli anni fra il 1926 e il 1929, cruciali per la genesi dello stalinismo, sono anni di grande tensione politica e sociale. Sul finire del 1925, quando, col ritorno dei principali indicatori economici al livello del 1913, si era concluso il periodo di ripristino dell’economia avviato con la NEP per risollevare il paese dopo le devastazioni della guerra e, soprattutto, della guerra civile, i bolscevichi si erano trovati alle prese col problema di promuovere lo sviluppo economico per trasformare l’antica Russia, arcaica e contadina, in una moderna potenza industriale. La decisione di dar avvio a una politica di sviluppo industriale, sancita alla fine del 1925 dal XIV congresso del partito, si scontrava tuttavia con numerosi ostacoli, primo fra tutti il problema delle risorse. Dove prendere i capitali necessari? La via dei prestiti esteri e degli investimenti stranieri, che avevano avuto un ruolo di primo piano nel decollo economico della Russia zarista fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, era preclusa all’Unione sovietica rivoluzionaria, che aveva rifiutato di riconoscere e rimborsare i debiti dell’Impero. Quanto all’esportazione di grano, altra fonte preziosa con cui prima della rivoluzione era stata finanziata l’industrializzazione, la possibilità di farvi ricorso era assai limitata: con la distribuzione delle terre e il frazionamento delle grandi aziende, la commercializzazione del grano aveva subito una forte contrazione, il che faceva sì che la quota da destinarsi al mercato estero era largamente inferiore alle necessità. Restava, certo, l’esportazione di altre materie prime, il legname in primo luogo, che non era però in grado di sopperire al fabbisogno di valuta pregiata con cui acquistare i macchinari industriali. Di fronte alla carenza di capitali, per superare l’impasse i bolscevichi avevano inizialmente deciso di mobilitare le risorse esistenti all’interno del paese, e, in primo luogo, il lavoro. Memori delle grandi rivolte che avevano incendiato le campagne sul finire della guerra civile, i dirigenti della Russia sovietica erano stati tuttavia inizialmente restii a toccare i contadini e avevano quindi scelto di rivolgersi in primo luogo agli operai, esortandoli a fare sacrifici in nome del bene comune, cioè l’industrializzazione, presentata come una componente essenziale della costruzione del socialismo. Era questo il senso della campagna lanciata all’inizio del 1926 per il “regime di economia”, che prevedeva, oltre al taglio delle spese, la razionalizzazione della produzione per diminuirne i costi, ricorrendo ai più tradizionali dei sistemi messi a punto dal capitalismo: riduzione della manodopera, intensificazione dei ritmi produttivi e inasprimento della disciplina del lavoro.

La campagna non solo non diede i risultati sperati, ma cominciò a far montare il malcontento fra gli operai, già provati dalle privazioni e dalle difficoltà degli anni precedenti. Nel 1927, l’anno in cui cominciò l’agonia della NEP, la situazione si andò progressivamente aggravando. In autunno, mentre il partito, lacerato dal conflitto fra la maggioranza staliniana e l’opposizione unita della sinistra capeggiata da Trockij, Kamenev e Zinov’ev, si apprestava a celebrare solennemente il decimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, i segni di crisi e di malessere si moltiplicarono in tutto il paese. Le tensioni a cui lo sforzo per l’industrializzazione sottoponeva l’economia, unite a errori nella politica dei prezzi agrari, provocarono la ricomparsa delle penurie alimentari che sembravano appena debellate: il pane, che costituiva la base dell’alimentazione degli operai, cominciò a scarseggiare, mentre l’inflazione limava il potere d’acquisto dei già risicati salari. Aumentava la disoccupazione; fra la folla in attesa davanti agli uffici di collocamento, scoppiavano con inquietante regolarità risse e tafferugli. Temendo che il malcontento sociale si tramutasse in protesta politica, fornendo così una base all’opposizione di sinistra (si ricordi la silenziosa contromanifestazione operaia a Leningrado del 7 novembre dietro ai ritratti di Trockij e dei suoi compagni), il gruppo dirigente del partito reagì, come di consueto, con una politica duplice. Da un lato inasprì le repressioni contro il dissenso interno (a dicembre, al XV congresso, l’opposizione, già braccata dalla polizia politica, sarà messa al bando): dall’altro, cercò di riconquistare il consenso perduto e contrastare il disincanto che ormai si impadroniva di quanti avevano creduto nel sogno della rivoluzione (il 1927 è, per non far che un esempio, l’anno in cui fra i giovani militanti si registra una specie di “epidemia” di suicidi). Per guadagnare a ogni costo almeno una parvenza di sostegno popolare, il partito non esitò a ricorrere alla demagogia: nel Manifesto adottato dal governo per festeggiare il decennale, dopo aver magnificato i successi raggiunti nella costruzione di una società nuova, si prometteva infatti, fra l’altro, la giornata lavorativa di 7 ore – una misura invero di puro carattere demagogico, che, come vedremo, non faceva che aggravare le già dure condizioni di lavoro degli operai. In realtà, il Politbjuro non aveva, per affrontare la crisi, una strategia, come si evince anche dai provvedimenti adottati per far fronte all’emergenza alimentare. Di fronte all’aggravarsi della scarsità dei prodotti, il Politbjuro reagì infatti con una serie di misure repressive nei confronti dei commercianti, prima, e dei contadini, poi, misure che, anche in questo caso, non fecero che aggravare la situazione, scardinando progressivamente la NEP e gettando le basi per il costituirsi di quello che è stato chiamato, con una terminologia a mio avviso poco felice, il “sistema amministrativo di comando” che caratterizza l’epoca staliniana[24]. Il peggioramento delle condizioni di vita, che aveva luogo, è bene ricordarlo, in una situazione già di estrema povertà – basta scorrere, per esempio, le bellissime inchieste degli anni venti sui budget operai per rendersene conto – suscitò un’ondata di malcontento popolare, e segnatamente operaio: ed è qui che il nostro eroe, Vasilij Ivanovič Ljulin, entra in scena.

Vasilij Ivanovič viene “notato” dai confidenti della polizia politica proprio fra il finire del 1927 e l’inizio del 1928, quando gli operai della “Krasnyj Perekop” sono in subbuglio per il passaggio dell’ala sinistra della vecchia fabbrica alle 7 ore. La “Krasnyj Perekop” è, infatti, la prima fabbrica tessile della lista pubblicata il 7 gennaio sulla Pravda in cui sono elencate le imprese che sperimenteranno la diminuzione della giornata di lavoro. La macchina del partito di Jaroslavl’ si mette in moto per eseguire in tempi brevissimi, entro soltanto due settimane, le tassative disposizioni ricevute da Mosca, che rifiuta ogni proposta di dilazione avanzata dai dirigenti locali[25]. Il Comitato di partito della II circoscrizione, il circondario della “Krasnyj Perekop”, convoca attivisti e militanti per mobilitare in favore della decisione gli operai, fra cui già serpeggia lo scontento per la firma del nuovo contratto collettivo, che delude le aspettative di un possibile aumento salariale[26]. Nonostante il battage propagandistico, l’assemblea di fabbrica, chiamata ad approvare la misura, boccia a sorpresa, fra urla e fischi, la risoluzione confezionata dal partito, che alle 7 ore aggiunge, come prescritto dal governo, l’intensificazione del lavoro: su 1.300 operai, soltanto 250 votano a favore e, quel che è peggio, nemmeno i militanti del partito seguono le istruzioni ricevute[27]. Non che gli operai non siano ben contenti di lavorare un’ora in meno, sia ben chiaro, anche se questo implica l’introduzione di un terzo turno e, quindi, del lavoro notturno. Ma non hanno alcuna intenzione di accettare l’intensificazione del lavoro, che vanifica ogni vantaggio, e, anzi, peggiora la loro condizione, costringendoli a lavorare a ritmi insostenibili, senza un attimo di pausa[28]: “basta con lo sfruttamento. Non è per questo che abbiamo versato il sangue”[29]. Ed è qui che anche Ljulin prende la parola. Con tono pacato, spiega che “non è giusto” quello che vogliono fare, perché così “lavorare sarà impossibile”: l’intervento è accolto dalle grida di approvazione degli astanti, che scandiscono “ha ragione!”[30]. Sarebbe stato proprio il suo intervento, secondo alcune testimonianze, a provocare la rivolta dell’assemblea[31]. Ljulin si avvia a diventare il leader operaio della “Krasnyj Perekop”.

Dopo la cocente sconfitta subita, il partito mobilita tutte le sue risorse per risalire, con intimidazioni e promesse, la china. Per cercare di convincere con tutti i mezzi le operaie, il rappresentante della direzione, il capo del sindacato del reparto e il segretario della cellula, le inseguono, tutti e tre assieme, fin nei recessi più intimi, senza curarsi delle risposte sprezzanti: poiché l’assemblea ha deciso “di non accettare di lavorare con un carico maggiorato, questo vuol dire che noi non lo accetteremo. Voi volete sovraccaricarci di lavoro con la forza, e siete venuti persino a cercarci nei gabinetti femminili”[32]. Nonostante la sorda resistenza operaia – per costringerci a lavorare come vogliono loro, “presto daranno ai comunisti i manganelli”, commenta un operaio[33] – il partito riesce questa volta a spuntarla. Qualche giorno dopo, convoca una nuova assemblea di fabbrica, selezionando accuratamente, questa volta, i delegati (almeno la metà è iscritta al partito e al Komsomol, i non iscritti sono stati controllati uno per uno), in modo da ottenere un assenso alle misure proposte, le 7 ore con l’aumento dei ritmi di lavoro[34]. E’ un successo però solo apparente, di facciata, perché il ricorso alla forza, da parte del partito, per spezzare l’opposizione operaia all’inasprimento dei ritmi produttivi annullando il voto della prima assemblea, che esprime la posizione dei lavoratori, finisce per esasperare gli animi: gli operai si sentono, come emerge chiaramente dai commenti zelantemente riportati dai confidenti, truffati, ingannati. Si cristallizza così, sul filo dei mesi, quell’opposizione irriducibile fra “noi” e “loro” – in cui “loro”, con i quali non è possibile nessuna mediazione, sono i nuovi padroni, peggiori degli antichi (il fatto che si sta peggio di prima, che si è più sfruttati che ai tempi dello zar è un tema ricorrente) -, che caratterizza il rapporto fra potere e società non solo all’epoca staliniana, ma, più in generale, lungo tutto il corso della storia russa e sovietica.

Nei mesi successivi la tensione non fa che aumentare. Con le nuove tariffe, a febbraio, gli operai si trovano la busta paga decurtata; qualcuno fa aleggiare la minaccia di sciopero, invocando l’esempio di altre fabbriche tessili, come quelle di Ivanovo-Voznesensk. I conflitti si moltiplicano; si diffonde la resistenza passiva: aumenta l’alcolismo, aumenta l’assenteismo, peggiora la disciplina sul lavoro. A maggio, quando anche la vecchia fabbrica passa alle 7 ore, sempre con l’aumento dei ritmi di lavoro, la protesta riemerge sordamente. Esasperati, gli operai fermano, anche se per non più di un qualche minuto, un quarto d’ora al massimo, le macchine. Ma la direzione, temendo il “contagio”, non cede e ricorre ai lavoratori di riserva per spezzare la protesta[35]. In estate, la situazione precipita. L’estate del 1928 è un’estate di crisi. A Jaroslavl’, come in molte altre zone del paese, mancano i generi alimentari, il pane in primo luogo. Le code si allungano inesorabilmente. Ricompaiono i surrogati. Le autorità locali, che avevano già lanciato l’allarme per il deteriorarsi della situazione all’inizio dell’anno, di fronte al rifiuto di Mosca di impegnarsi per assicurare i rifornimenti, reintroducono il razionamento[36]. Nella seconda metà di agosto la situazione si aggrava ulteriormente. A fine mese, quando, dopo due settimane di chiusura per ferie, la “Krasnyj Perekop” riapre, fra gli operai scoppia il malcontento. Chi è stato durante le vacanze nelle città vicine – Mosca, Leningrado, Ivanovo-Voznesensk – diffonde voci mirabolanti sull’abbondanza che vi regna, quasi fosse il paese di bengodi: sembra esserci tutto, fuori di Jaroslavl’, i generi alimentari che qui sono razionati (pane, burro, granaglie) lì sono in vendita libera, mentre gli operai della “Krasnyj Perekop” sono costretti ad accontentarsi, al mese, di un chilo di granaglie, mezzo chilo di burro, un chilo di zucchero in polvere, 4 chili di zucchero a quadretti e tre pezzi di sapone per famiglia, più 450 grammi al giorno di farina, di segale o di frumento, a testa[37]. Quando, il 31 agosto, il partito convoca l’assemblea di fabbrica per far sottoscrivere agli operai il II prestito industriale[38], la rabbia operaia esplode. Non solo gli operai rifiutano la sottoscrizione, ma decidono, nonostante gli strenui tentativi di opporsi da parte dei responsabili locali partito, di mandare a Mosca una delegazione per chiarire la situazione degli approvvigionamenti. Vengono eletti cinque delegati, fra cui un solo iscritto al partito: ed è da questo momento che Ljulin si avvia a diventare il leader indiscusso degli operai della “Krasnyj Perekop”. Il partito non gradisce, e, sperando di raddrizzare le sorti della vicenda e convincere gli operai a rinunciare all’invio della delegazione nella capitale, convoca per il giorno dopo, il primo settembre, una nuova assemblea di fabbrica. Ma stavolta la situazione sfugge pesantemente di mano agli organizzatori. Gli oratori ufficiali vengono fischiati, sono costretti ad abbandonare la tribuna prima di aver finito di parlare; le risoluzioni proposte vengono bocciate. Per cercare di salvare la situazione in extremis, il segretario di partito della II circoscrizione, Karin, ha la malaugurata idea di ricorrere a un artificio retorico, che suona al limite della provocazione: “Avete fiducia o no nel partito comunista?”, chiede. Nella sala si levano alcune grida solitarie nel silenzio, che a poco a poco si trasformano però in un boato: “No, non ci fidiamo”. Gli iscritti al partito e al Komsomol sono completamente isolati; gli operai votano compatti per mantenere la decisone di mandare a Mosca la delegazione, la cui composizione è nuovamente messa ai voti: e questa volta il solo membro del partito che ne faceva parte è escluso[39]. Per il partito, è una sonora sconfitta. La seconda, dopo quella sulle 7 ore. Ma ora la resistenza operaia si sta forgiando un leader: Vasilij Ivanovič Ljulin.

Vasilij Ivanovič non è uno scalmanato. Sulla trentina, occhi e capelli scuri, lo sguardo fiero, è un uomo pacato e misurato. Buon lavoratore, morigerato nei costumi. Piace ai suoi compagni di lavoro, come ci suggeriscono le loro voci giunte da lontano grazie allo zelo dei confidenti della OGPU, perché è un “bravo giovane, onesto e schietto”, sicuro di sé: è istruito e intelligente, sa parlare e argomentare per difendere le sue idee. Perché “non è un vigliacco”, non ha paura di dire la “verità” e “difende molto bene gli interessi degli operai”. E perché “i comunisti hanno paura di lui e vogliono schiacciarlo”. Vasilij Ivanovič non è un “controrivoluzionario”. Non è contro il potere sovietico, come lui stesso ripete continuamente e ripeterà anche durante gli interrogatori. Perché – è sempre lui che ce lo dice – è grazie al potere sovietico che ha potuto studiare. Ma è contro il partito, e, in primo luogo, contro coloro che a Jaroslavl’ lo incarnano, con la loro boria di potere e il loro disprezzo per le regole, a partire da quelle democratiche di base che dovrebbero assicurare agli operai di poter esprimere, in fabbrica, la loro volontà. Vasilij Ivanovič difende, in realtà, i diritti operai contro il partito. Ed è contro la politica di industrializzazione forzata verso cui si sta orientando il gruppo dirigente staliniano, una politica che implica un aumento al di là dei limiti tollerabili della pressione sui lavoratori e che lo porterà a dire che “il potere sovietico assomiglia a quello di Pietro il Grande: questi ha costruito Pietroburgo sulle ossa di diecimila soldati, mentre il potere sovietico costruisce il socialismo sulla schiena della classe operaia”[40]. Proprio perché difende gli interessi degli operai, è accusato di demagogia. Ma proprio perché li difende, gli operai si identificano in lui, facendone il loro leader.

Al ritorno della delegazione da Mosca con una manciata di promesse, la tensione sembra allentarsi nella speranza di un miglioramento dei rifornimenti. Il partito prende tempo, dilazionando la convocazione dell’assemblea in cui i membri della delegazione devono render conto agli operai del loro operato e degli esiti della spedizione. Ma la pausa è di breve durata, perché ben presto si apre un nuovo fronte: le elezioni per i delegati all’VIII congresso nazionale del sindacato tessile. Ljulin, la cui popolarità è enormemente cresciuta agli occhi degli operai dopo la missione nella capitale, è eletto a sorpresa, il 21 ottobre, fra i delegati al congresso, mentre il candidato del partito viene sonoramente bocciato dall’assemblea di fabbrica. Questo nuovo schiaffo, dopo l’accurato filtro dei delegati dei diversi reparti chiamati a eleggere i rappresentanti della fabbrica al Congresso, giunge del tutto inatteso per il Partito[41]. Che, a questo punto, reagisce. Karin, il segretario della II circoscrizione, riceve un biasimo severo. Il Comitato cittadino del partito ordina un’inchiesta. E anche da Mosca, dal Comitato Centrale, arriva un ispettore per far luce sulla vicenda[42]. Per porre rimedio alla situazione e impedire a tutti i costi a Ljulin di partecipare al Congresso, il partito attiva tutto l’armamentario che ha a disposizione. Con l’aiuto della OGPU e grazie al controllo dei giornali locali, orchestra una violenta campagna diffamatoria ai danni di Ljulin, presentato come un poco di buono, un teppistello e un ubriacone; per l’occasione si provvede persino a coinvolgerlo in una rissa per farlo arrestare e lasciarlo al fresco un paio di giorni. Poi, una volta creata l’atmosfera, passa alla mobilitazione delle minoranze attive (i giovani del Komsomol, le donne delegate), che chiedono, dopo aver coperto Ljulin d’insulti, il ritiro della sua candidatura a nome di tutti gli operai. Infine il primo dicembre il partito tenta il colpo di mano, e fa votare da una nuova assemblea di fabbrica, i cui delegati sono stati non eletti ma accuratamente scelti (e che è in realtà una conferenza di produzione), una risoluzione che ricusa Ljulin, mettendo al suo posto Machanov, il candidato appoggiato dal partito. Per evitare brutte sorprese, la platea questa volta è stata occupata per tempo dagli iscritti al partito e al Komsomol; i pompieri provvedono a sgombrare, col pretesto della sicurezza, gli operai sospetti di poter turbare la riunione[43]. L’ebbrezza del successo, per il partito, però dura poco. Dopo la beffa della II conferenza, la rabbia operaia esplode; gli operai, umiliati, si sentono ingannati e chiedono nuove elezioni, una richiesta che gli stessi ispettori del Comitato centrale non se la sentono, nonostante le pressanti richieste del Comitato cittadino del partito, di non appoggiare, vista l’evidenza dei brogli[44]. Tanto più che le voci delle elezioni truccate son giunte fino a Mosca, denunciate da un “corrispondente operaio”[45] vicino a Ljulin sul giornale sindacale, Golos tekstil’ščika (La voce dell’operaio tessile, ben più diffuso in fabbrica del foglio di partito Severnyj Rabočij, L’operaio del nord) e che a questo punto la commissione chiamata a verificare i mandati dei delegati del congresso sindacale non ha accettato quello di Machanov[46].

Viene quindi convocata, per il 18 dicembre – quando i lavori del congresso sono già iniziati -, una terza Conferenza. Quel che segue è, per dirla con le amare parole di Bykin, il segretario del partito di Jaroslavl’, la cronaca di una “sconfitta annunciata”. Se il partito mobilita tutte le risorse che ha a disposizione a sostegno del suo candidato, questa volta anche i partigiani di Ljulin non lesinano gli sforzi. E trovano, per lo meno a giudicare dai rapporti della OGPU, un terreno favorevole. Lo smaccato tentativo del partito di imporre la sua volontà con la forza ha inasprito gli animi. In molti reparti, nelle riunioni elettorali i comunisti non possono nemmeno prender la parola; quanto a farsi eleggere alla conferenza, spesso non se ne parla proprio. Inoltre, scaltriti dall’esperienza, gli operai non si limitano a eleggere i loro delegati, ma, per esser sicuri che tengano fede alle promesse di voto senza cedere a lusinghe o ricatti, rifiutano di dar loro una delega in bianco, ma li premuniscono di un mandato di voto scritto ben preciso[47]. Anche l’accanimento del partito contro Ljulin finisce per sortire l’effetto contrario: perché, per dirla con un operaio, se “i comunisti non lo amano, è proprio perché lui denuncia i loro difetti e fa venir fuori tutta la zozzeria”[48]. La conferenza si apre alle 8 di sera, in una sala strapiena – i comunisti, che arrivano dalla riunione della frazione dove hanno ricevuto le ultime istruzioni, riescono a malapena a sedersi nelle ultime file. Son presenti un migliaio di delegati. Gli animi sono sovreccitati. La tensione è altissima. “Gli operai – come dirà poco dopo un delegato alla conferenza dell’organizzazione del partito della II circoscrizione – andavano alla conferenza come a un combattimento con i comunisti”[49]. La conferenza, che durerà fino alle 2 di notte, si annuncia “tempestosa” fin dal primo momento. Ljulin, che fino all’ultimo il partito ha cercato di tener lontano dalla riunione, entra nella sala fra applausi scroscianti, senza che la polizia, disorientata davanti alla determinazione dei presenti, si risolva a fermarlo, come pure le era stato ordinato. Su proposta di Ljulin, la lista “precotta” preparata dal partito per eleggere i membri del Presidium viene rifiutata (“Non c’è bisogno, non imbrogliate”); nella votazione nominale, i candidati locali, del partito e del Consiglio di fabbrica, vengono fatti fuori uno a uno. I rappresentanti dei poteri locali che cercano di intervenire passano un brutto quarto d’ora. Accolto da un coro di “via!”, “fuori da qui!”, il segretario dei sindacati di Jaroslavl’ non può a parlare; un operaio si leva, gli si avvicina e lo scuote urlando: “togliti dai piedi, vattene”. Infine, il Presidium viene eletto liberamente: vi entrano Ljulin, accolto da applausi scroscianti, e due altri suoi compagni che erano andati con lui a Mosca nella delegazione. Quando si passa a discutere dell’elezione del delegato al congresso sindacale, la tensione tocca l’apice. L’assemblea sfugge completamente al controllo. Gli operai rifiutano di ascoltare i rapporti previsti; nessun rappresentante dei poteri locali riesce a prender la parola; anche i rappresentanti del centro presenti (inviati del Comitato Centrale, del sindacato tessili e via dicendo) hanno difficoltà a farsi ascoltare. Chi cerca di parlare contro Ljulin è cacciato dalla tribuna. Fra chi parla a suo favore, invece, ricorre come un ritornello lo stesso motivo di fondo: “Ljulin è il vero rappresentante degli operai della ‘Krasnyj Perekop’. Quelli del partito ci ingannano”[50]. Per riprendere in mano la situazione, il partito tenta allora di sciogliere l’assemblea con uno stratagemma. Propone di fare un intervallo prima del voto, ma gli operai rifiutano di lasciare i loro posti, accusando il partito di voler far saltare le elezioni: “non ce ne andremo finché non avremo votato per Ljulin”, ripetono. Il presidente è allora costretto a mettere ai voti le candidature e, nonostante la votazione venga ripetuta tre volte, il risultato è l’elezione di Vasilij Ivanovič con la “schiacciante maggioranza dei voti”, compresi anche quelli di molti iscritti al partito, che non hanno seguito le indicazioni di voto dei vertici: 700 per il nostro eroe contro soli 300 per Machanov. E lo schiaffo per il partito non finisce qui. Perché i sostenitori di Ljulin vincono su tutta la linea anche sulla risoluzione finale della conferenza, che ribadisce la validità dell’elezione di Ljulin alla I conferenza, sconfessando le successive manipolazioni del partito[51].

Per il partito, la sconfitta è cocente. Ha voluto il braccio di ferro, e ha perso. Gli operai, almeno a stare ai rapporti della OGPU, esultano, assaporando una volta tanto il gusto della vittoria. L’indomani è tutto un brulicare di capannelli per commentare l’avvenimento. Tutti, o quasi, sono per Ljulin. I comunisti vengono messi alla berlina; quando provano a intervenire, gli operai non li fanno parlare; c’è anche chi si lascia andare a minacce, preconizzando per un futuro vicino la cacciata dei comunisti dal potere[52]. Ma c’è anche chi teme, e a ragione, la vendetta[53]. Perché il partito non può tollerare un simile affronto. E, una volta spuntate le armi della persuasione, una volta falliti i tentativi di isolare Ljulin ricorrendo ai mezzucci delle provocazioni, non sembra restare, agli occhi dei dirigenti locali, che una sola via: le repressioni. Il giorno dopo la conferenza, il 19 dicembre, si riunisce la direzione del Comitato cittadino che, dopo aver constatato che “la massa operaia è andata dietro a Ljulin, opponendosi a tutta l’organizzazione del partito”, ordina, su proposta di Bykin, di “bonificare” la fabbrica dagli “elementi estranei e nocivi” e di purgare l’organizzazione di partito della II circoscrizione, al fine di liberarla “dagli elementi estranei e non bolscevichi”[54]. L’arresto di Ljulin diventa sempre più soltanto una questione di tempo. Forse si potrebbe ancora evitare. Perché anche il partito è riluttante. Siamo ancora soltanto alla fine del 1928. Le grandi ondate repressive non si sono ancora abbattute sul paese, la collettivizzazione sta solo per cominciare. E il partito teme, probabilmente, le possibili reazioni degli operai, giacché corre insistente la voce che, se arrestano Ljulin, si sciopera[55]. Prende tempo, sperando di riuscire a normalizzare la fabbrica senza dover ricorrere a misure estreme. Vasilij Ivanovič, dal canto suo, forse potrebbe evitare l’arresto. Ma non lo fa. Non abiura.

Dopo la sua trionfante elezione, che lo conferma il leader indiscusso della fabbrica – del resto, come ammette la stessa OGPU, Ljulin è il vero rappresentante delle masse operaie della “Krasnyj Perekop”[56] – ha in effetti i giorni contati. E lo sa. Lo sa in realtà fin da settembre, quando, dopo la missione a Mosca con la delegazione, si è accorto di esser spiato. E, come ha confidato a un compagno, ha cominciato ad aspettarsi di essere arrestato[57]. Un timore che, col passare del tempo, assume sempre più i tratti di una certezza. Quando va a Mosca per assistere al Congresso sindacale, dopo la sua tempestosa elezione, pensa che sarà arrestato lì. Invece, per ragioni per lui misteriose, non lo toccano. Quando torna, non dorme più a casa[58]. Ma l’atmosfera intimidatoria non lo porta a recedere. Anzi. Radicalizza le sue posizioni. Contribuisce a questa radicalizzazione, probabilmente, anche la grande delusione del Congresso. Tornato a Jaroslavl’ alla fine di dicembre, Ljulin racconta ai suoi compagni tutta l’amarezza del suo disincanto, lasciandosi andare a dichiarazioni pericolose, meticolosamente raccolte dai confidenti della OGPU[59]. E’ inutile parlare con chi siede al governo, confida, perché “tutti questi capi sono soltanto un’unica canaglia”[60]. Racconta di aver capito, nel corso del congresso, che andarci non era servito a nulla, perché i giochi eran tutti già fatti: “non lasciavano parlare i lavoratori senza-partito”, tutti quelli come lui che, pur essendosi affrettati a iscriversi fra i primi per prender la parola, si trovavano poi in coda alla lista, vittime certe della decisone di limitare il numero degli interventi[61]. Ma quello che lo aveva scioccato di più era stata la visita, con una delegazione di congressisti, all’Istituto centrale del lavoro, “un ente, dirà sconcertato, per spremere dagli operai, con l’aiuto della scienza, gli ultimi succhi”: perché, se si organizza la produzione “secondo il sistema del capitalista americano Taylor”, “del lavoratore resta solo lo scheletro”[62].

Difficile dire, allo stato attuale delle fonti, se, e in che misura, la “scoperta” del taylorismo come forma estrema dello sfruttamento operaio incoraggiata dallo Stato sovietico abbia influenzato la successiva evoluzione di Ljulin. Ljulin, almeno per quanto io ne sappia al momento, non ha lasciato testi scritti che permettano di rispondere a queste domande; di lui abbiamo soltanto i pensieri rubati dai confidenti della polizia. Tuttavia, sembra probabile che questa scoperta, così come l’amara delusione provocata dal Congresso del sindacato, in cui pure aveva creduto, abbia contribuito al radicalizzarsi delle sue posizioni, facendo maturare in lui la convinzione che fosse necessario organizzare gli operai in fabbrica e battersi autonomamente per difendere gli interessi dei lavoratori. Ljulin non si limita infatti a dichiarazioni pericolose sfuggite qua e là chiacchierando coi compagni. Forte del sostegno di cui gode fra gli operai, è di “umor combattivo”, pronto a dar battaglia[63]. Interviene per denunciare gli effetti, sulla produzione, della cattiva qualità delle materie prime e per difendere i vecchi specialisti, usati come capri espiatori per giustificare le défaillances della fabbrica[64]. Interviene contro il nuovo contratto collettivo, che prevede un aumento salariale nettamente inferiore alla crescita del costo della vita, e contro il Consiglio di fabbrica, che lo spaccia invece come un miglioramento della condizione operaia[65]. Interviene su temi – come, per esempio, la mancanza di pane o il contratto collettivo, appunto – su cui esiste una forte opposizione operaia, di cui continua a farsi portavoce. Cercano di metterlo a tacere, togliendogli la parola durante le assemblee, e lui ribatte, senza lasciarsi intimorire, che “se non ci lasciate parlare, sarà soltanto peggio!”, per poi denunciare, rivolgendosi al presidium, “voi violentate la volontà dell’assemblea, questo è troppo!”[66]. La sua autorità, agli occhi degli operai, non fa che crescere, come constata un rapporto della OGPU redatto sul finire del gennaio del 1929[67]. E questo nonostante la violenta campagna stampa scatenata contro di lui e i suoi partigiani, denominati ormai col nomignolo spregiativo di “ljulincy” e criminalizzati come controrivoluzionari, campagna che gli operai chiedono a più riprese di interrompere. Il partito lo teme, ma non si risolve ad arrestarlo. Aspetta. Sguinzaglia per la fabbrica i solerti spioni della OGPU per “prevenire” le azioni degli operai[68].

Per impedire a Ljulin di render conto ai suoi elettori, come allora si usava, degli esiti del Congresso sindacale, la convocazione dell’assemblea di fabbrica sull’argomento viene dilazionata fino al 20 gennaio; il partito riesce anche a impedirne l’elezione come delegato del suo reparto, ma è costretto a farlo comunque entrare in quanto delegato del Congresso[69]. Che, come tale, ha diritto di prender la parola. L’intervento di Vasilij Ivanovič, fra gli applausi scroscianti della sala, è, stavolta, un attacco frontale alla politica del partito, e, in particolare alla sua politica economica. Ljulin denuncia anzitutto la gravissima situazione in cui il paese si è venuto a trovare e nega che la ragione della crisi sia, come si sostiene, il cattivo raccolto, che invece, afferma invocando quanto apparso sulla stampa, sarebbe addirittura superiore a quello degli anni precedenti: le ragioni vanno cercate altrove, dice, alludendo alla politica vessatoria nei confronti dei contadini. Se la collettivizzazione è solo agli inizi, l’attacco ai contadini, con l’aumento delle tasse e una serie di misure persecutorie, è già cominciato. Poi Ljulin denuncia il peggioramento della condizione operaia, con la diminuzione del salario, l’aumento continuo dei prezzi dei generi alimentari e la disoccupazione. E infine, tornando alla “Krasnyj Perekop”, accusa il Comitato di fabbrica di dar la caccia ai suoi partigiani, invece di occuparsi dei bisogni degli operai. Lo scontro è aspro; intervengono anche molti dei suoi compagni. Nonostante l’assemblea sia assai movimentata – quando gli oratori attaccano Ljulin e i suoi, la sala rumoreggia, interrompendoli con grida, mentre applaude quando vengono criticati partito e sindacato – il partito riesce tuttavia, stavolta, a riprendere in mano la situazione e a non far passare la risoluzione degli oppositori[70]. Vane restano le richieste degli operai di metter fine alla criminalizzazione di Ljulin, delegittimando la protesta operaia. E non solo. L’assemblea finisce per approvare una risoluzione in sostegno della cosiddetta “autocritica”, una campagna lanciata sul finire del 1928 dalla maggioranza staliniana del Politbjuro per stanare e denunciare chiunque non fosse allineato con la “linea generale” – l’autocritica sarà in effetti uno strumento di primo piano per la purga degli apparati sovietici e di partito a tutti i livelli e verrà usata in molti casi (e presumibilmente alla stessa “Krasnyj Perekop”) per allontanare i lavoratori in odore di protesta[71].

Forte di questi primi successi nel riprendere in mano la situazione, il partito parte all’attacco. All’inizio di febbraio, è convocata una nuova assemblea operaia, in cui, con la benedizione di un rappresentante della Commissione centrale di controllo, Nazarov, viene lanciata la campagna per epurare la fabbrica dagli “elementi estranei e ostili”, sollecitata dall’organizzazione cittadina del partito, e per “smascherare Ljulin”[72]. Ricattato dalla OGPU, uno dei suoi alleati più stretti, Lytočkin, membro del Komsomol (la gioventù comunista), si piega a una penosa autocritica. Rinnega Ljulin, senza esitare a denunciarlo per essersi allontanato dalla linea sindacale, fra le urla della sala inferocita. Gli operai prendono la parola per difendere Ljulin e denunciare il clima di intimidazione che si è instaurato nella fabbrica, dove la minaccia di finire sulla “lista nera” è ormai all’ordine del giorno. Come dice un operaio, dando voce al sentire di molti, “bisogna stare ben attenti a criticare, altrimenti finisci a Solovki[73]”, mentre un altro aggiunge minaccioso: “Compagni comunisti, ci volete spaventare, come Nicola II, ma noi non ve lo permetteremo”[74]. Grande è la rabbia degli operai, eppure proprio l’assemblea del 2 febbraio segna una svolta sulla via della “normalizzazione” a cui il partito vuole piegare la fabbrica ribelle, fiera dei suoi trascorsi rivoluzionari. E’ allora infatti che viene fatta approvare una risoluzione che fornisce la giustificazione per le future repressioni operaie.

La risoluzione, dedicata al plenum di novembre del Comitato centrale, in cui aveva iniziato a consumarsi la sconfitta dell’opposizione di destra capeggiata da Bucharin, Rykov e Tomskij, approva infatti la politica di industrializzazione perseguita dal governo e nega ogni legittimità alla resistenza operaia che questa suscita. Seguendo una procedura ormai consolidata, la resistenza operaia viene infatti attribuita all’arretratezza degli operai stessi, che, non essendo coscienti, sono incapaci di cogliere i loro “veri” interessi di classe, cioè la costruzione del socialismo così come la concepiscono i bolscevichi al potere. Se gli operai si oppongono all’intensificazione del lavoro, se chiedono aumenti salariali o l’aumento delle razioni di pane, come avviene alla “Krasnyj Perekop”, è perché sono appunto arretrati, non coscienti. E di questa arretratezza approfittano, sempre secondo la risoluzione, “elementi estranei” al proletariato e al potere sovietico, che, grazie alla demagogia, riescono a portarsi dietro parte considerevole degli operai, creando così difficoltà al governo. Il quadro per trasformare Vasilij Ivanovič e i suoi partigiani in “nemici del popolo” da mettere al bando è pronto. E non è tutto. La risoluzione approva anche la purga decisa dal plenum e chiede anzi, in accordo con le richieste dell’organizzazione cittadina del partito, di anticipare la purga della fabbrica per ripulirla degli “elementi estranei”[75].

Sebbene l’assemblea del 2 febbraio segni una prima vittoria del partito e rappresenti quindi in qualche sorta una svolta[76], la via della “normalizzazione” è ben lungi dall’esser priva di ostacoli. Quel che il partito riesce a normalizzare è, in realtà, l’apparenza. A partire dal febbraio, il partito riesce infatti a riprendere il controllo delle assemblee di fabbrica, impedendo (o almeno riducendo) il manifestarsi di un’opposizione operaia aperta. Un risultato, questo, ottenuto col ricorso congiunto all’intimidazione e alla repressione. Se non sappiamo ancora quanti furono gli operai licenziati o vittime di altre forme di persecuzione, come, per esempio, l’assegnazione a mansioni inferiori, sappiamo però del ricorso massiccio non solo a svariati strumenti di pressione (come, per esempio, costringere gli operai a firmare individualmente quelle richieste per aumentare i ritmi di lavoro che erano state collettivamente rifiutate, una pratica che suscita una tale rabbia fra gli operai da costringere lo stesso sindacato a chiederne la sospensione[77]), ma anche alla mobilitazione degli “organi” per spezzare la resistenza operaia e cercare di isolare Ljulin, passando al setaccio tutto l’organico della “Krasnyj Perekop” con lo scopo di individuare i cosiddetti “elementi estranei”, preludio al loro allontanamento, chiesto a gran voce dalla stessa OGPU[78]. Nel consentire al partito di ristabilire una normalità di facciata, ha un’importanza certo non secondaria anche il più generale processo di allineamento imposto a tutta la stampa col delinearsi, fra la fine del 1928 e l’inizio del 1929, della definitiva sconfitta dell’opposizione di destra: se dopo il plenum del novembre 1928 le voci dissenzienti rispetto alla linea generale sono costrette a ricorrere alla lingua di Esopo, la stampa perde anche quei ristrettissimi margini di autonomia che ancora aveva. Nel nostro caso, è il quotidiano sindacale Golos Tekstil’ščika, che inizialmente aveva dato voce, come si è visto, alla protesta operaia della “Krasnyj Perekop”, ad allinearsi nella demonizzazione dei “ljulincy”, un cambiamento di posizioni che si iscrive nella “normalizzazione” dei sindacati in atto. Tomskij, leader, con Bucharin e Rykov, dell’opposizione di destra, è del resto il presidente dell’Unione sindacale, che, erede comunque di una cultura del lavoro e della difesa operaia di origine pre-rivoluzionaria, cerca almeno in parte, nella misura in cui una dialettica politica, per quanto ristretta, è ancora possibile, di opporsi all’industrializzazione forzata voluta a tutti i costi dal Consiglio Supremo dell’Economia (VSNCh), proprio in nome di una salvaguardia, ancorché minima, delle condizioni di vita dei lavoratori, una posizione, questa, sostenuta con particolare vigore proprio dal presidente del sindacato tessile, Mel’ničanskij[79].

E’ una normalizzazione apparente, perché il malcontento operaio non cessa di aumentare nei primi mesi del 1929 in seguito al peggioramento delle condizioni di vita. L’inasprimento dei ritmi di lavoro, il giro di vite della disciplina di fabbrica (bastano 10 minuti di ritardo per trovare i cancelli chiusi e essere multati come assenteisti), gli inconsistenti aumenti salariali, mentre i prezzi non fanno che crescere, la cronica mancanza di generi alimentari di prima necessità, il pane in primo luogo, unita al continuo deteriorarsi della qualità degli alimenti esasperano gli operai, costretti per giunta a fare lunghe file di attesa davanti allo spaccio[80]. La penuria di pane si aggrava di mese in mese; le code si allungano inesorabilmente. A marzo vengono diminuite le razioni di pane, comprese quelle per i bambini. Nelle code scoppiano risse e tafferugli, fra grida e accessi d’ira contro i comunisti, coperti d’insulti e trattati da “diavoli panciuti”, “grugni grassi”; si levano accorati i lamenti delle madri davanti ai figli affamati e denutriti, minacciati dalla tubercolosi[81]. Sempre a marzo, col passaggio anche della cosiddetta “nuova fabbrica” al sistema delle 7 ore, con i tre turni, si accelerano ulteriormente i ritmi di lavoro; ci sono vecchie operaie che piangono, perché non ce la fanno a star dietro alle macchine che girano sempre più in fretta[82]. La rabbia operaia esplode a tratti, come mostrano le frasi solertemente rubate dai confidenti della polizia, che rivelano un’ostilità profonda nei confronti dei comunisti, percepiti come i nuovi signori. Ma soprattutto l’opposizione operaia, privata di ogni canale di espressione, prende la via della resistenza passiva. Costretti al silenzio, gli operai disertano riunioni e assemblee, mandando a monte le campagne del partito. La campagna per la rielezione dei soviet, fra gennaio e febbraio, è, per esempio, un disastro per il partito. Le assemblee elettorali saltano le une dopo le altre perché gli elettori non si fanno vedere, costringendo il partito a convocarne sempre di nuove, con successi non sempre più incoraggianti: su 1.600 operai del primo turno della vecchia fabbrica, per esempio, si presentano alla riunione soltanto in 160; il giorno seguente, dopo la mobilitazione del partito, sono sì un po’ di più, ma solo 260[83]. E il senso della protesta è assolutamente chiaro. Gli operai non hanno alcuna voglia di far la parte delle comparse in un teatrino in cui tutto è già deciso, legittimando decisioni prese altrove: come spiega un operaio, “i membri del partito comandano e noi dobbiamo sottometterci. Nominano ovunque e in tutte le situazioni membri del partito, ecco cosa ci allontana dalle riunioni”[84]. Il partito è costretto a indire nuove elezioni. Perché gli operai non possano più disertare le assemblee, queste sono tenute durante l’orario di lavoro: l’intera “Krasnyj Perekop” viene fermata per un’ora e mezza, un tempo che gli operai sono poi costretti a recuperare nei giorni festivi, il che suscita un’ulteriore ondata di malcontento (“I comunisti, loro, non sono capaci di interessarli, gli operai. E allora, perché questi vadano alla riunione, ecco che di nuovo forza! Dai! Costringiamolo, l’operaio! Loro sanno soltanto costringerli, gli operai”[85]). Se la misura è coronata da successo, giacché si ottiene un tasso di partecipazione del 90%, i comunisti hanno poco da cantar vittoria: non solo sono costretti a sentire interventi pesantemente ostili, ma i loro candidati vengono ripetutamente fischiati e, su 60 eletti, solo 14 sono membri del partito, mentre passano addirittura 5 compagni di Ljulin[86].

L’opposizione operaia sembra inoltre, nei primi mesi del 1929, radicalizzarsi, assumendo dei connotati più politici. Questo traspare, per esempio, dalla richiesta di libertà di stampa che prende corpo durante la violenta campagna scatenata dai giornali per criminalizzare Ljulin, una campagna che palesa l’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione operato dal partito, di fronte a cui gli operai reagiscono chiedendo appunto la libertà di stampa per impedire i soprusi[87]. Più in generale, la violenta campagna per demonizzare Ljulin diventa un boomerang per il partito. Come sarà costretta ad ammettere laconicamente la stessa OGPU, “tutti i tentativi di discreditare Ljulin davanti alle masse […] non hanno fatto che aumentare la sua autorità e il gruppetto di persone di umori antisovietici”, col risultato che Vasilij Ivanovič si è trasformato, agli occhi degli operai, in “un eroe, un combattente per gli operai perseguitato dal potere”[88].

Proprio il fatto di esser diventato un leader operaio riconosciuto, portavoce della sorda resistenza operaia alla politica dell’industrializzazione forzata, e di avere un seguito crescente fra gli operai della “Krasnyj Perekop”, è all’origine della decisione del partito, davanti al fallimento dei tentativi intrapresi fin dall’inizio dell’anno per normalizzare la situazione, di fare arrestare Ljulin[89]. Alla vigilia dell’arresto, il 9 giugno, Vasilij Ivanovič era infatti intervenuto all’assemblea di fabbrica per denunciare ancora una volta il peggioramento della condizione operaia e attaccare duramente la politica industrialista del governo, pronunciandosi, in particolare, contro il primo piano quinquennale e contro l’“emulazione socialista” fra gli operai. Come aveva riferito “il capo”, il solerte confidente della OGPU messo alle calcagna di Ljulin, questi si era portato dietro gli operai e aveva inflitto un’ennesima sconfitta al partito. Come aveva promesso in presenza di alcuni suoi fedeli, Vasilij Ivanovič aveva fatto fare una gran figuraccia al relatore, il segretario del partito di Jaroslavl’, che, interrotto da grida e fischi degli operai, non aveva potuto finire il suo discorso. Stessa sorte era toccata al responsabile del sindacato. L’intervento di Ljulin, invece, era stato accolto da applausi scroscianti. Alla fine dell’assemblea, gli operai avevano respinto la risoluzione proposta dal partito, che prevedeva appunto di approvare il piano quinquennale e di adottare anche alla “Krasnyj Perekop” l’“emulazione socialista” allora in voga[90]. Temendo di far la fine del gigante Golia a opera del piccolo David operaio, il partito, incapace di venire a capo con altri mezzi dell’opposizione operaia, si era quindi risolto ad abbandonare ogni esitazione e far arrestare Vasilij Ivanovič. Nella laconica motivazione che accompagnava l’ingiunzione di arresto, era infatti evocata l’”aperta agitazione controrivoluzionaria” di cui Vasilij Ivanovič si era macchiato istigando gli operai contro il piano quinquennale ed era sottolineata la sua pericolosità: bisognava toglierlo di mezzo e impedirgli di nuocere, provocando “nuove complicazioni” alla “Krasnyj Perekop”[91].

La notizia dell’arresto si sparge subito in fabbrica al mattino. E’ la suocera di Vasilij Ivanovič che lo racconta in lacrime a un gruppetto di operai: “Stanotte la GPU ha arrestato il mio genero Ljulin, assolutamente nessuno sa perché, ha lasciato una famiglia di 4 persone, la moglie non lavora, non sappiamo come tireremo a campare!”. Per gli operai, è l’ora amara della sconfitta. Nonostante i rapporti assicurino che la maggioranza approva la misura, traspare fra le righe che la realtà è ben diversa. Malgrado il battage propagandistico prontamente organizzato per “spiegare” che Ljulin era un pericoloso controrivoluzionario (verrà anche inventata una fantomatica organizzazione moscovita di cui sarebbe stato l’agente), fra gli operai c’è chi non teme di dire, a dispetto degli onnipresenti delatori pronti a riferire subito a chi di dovere, che è stato arrestato per i suoi coraggiosi interventi contro il piano quinquennale, per aver difeso gli operai, per non aver avuto paura dei comunisti, che ora si vendicano: “Ljulin, il nostro difensore, ieri è stato arrestato dalla GPU. Di più, bisogna dire che lo hanno arrestato ingiustamente. Ljulin è una brava persona, ha sempre detto la verità, il che non è piaciuto ai comunisti”, commenta un operaio, e un altro aggiunge che “ai comunisti non è piaciuto il fatto che Ljulin diceva la verità e la diceva in faccia, è per questo che adesso lo perseguitano. Eccovela, la critica! Il potere dice di criticare tutto quello che non va, ma per la critica ti arrestano. E’ ingiusto”. C’è chi, in preda alla rabbia, non esita a prender di petto i membri del partito, con dubbia ironia: “Perché non lo fuciliate, Ljulin, per il fatto che alla conferenza vi ha fatto a pezzi?”. E c’è chi non si ferma neanche davanti al rischio che il minacciare può rappresentare: “Non posso vedere le porcate che stanno succedendo da noi in fabbrica. Arrestano brave persone, senza alcuna ragione. Presto finiranno male, i compagni comunisti, gli operai possono perdere la pazienza e per loro sarà la rovina. Tutti gli operai aspettano la guerra, e non appena riceveranno in mano i fucili, macelleranno questi schifosi comunisti”. Si mette subito in moto la macchina della solidarietà operaia. Si cominciano a raccogliere firme per chiedere la liberazione di Ljulin. Si avvia una colletta per sostentare la famiglia. Non sappiamo però quali siano gli esiti di queste iniziative, prontamente bloccate dal partito[92].

Non si ha notizia invece di forme di protesta collettive, come il minacciato sciopero, abbandonato forse in seguito a misure intimidatorie e repressive, forse soltanto per una profonda sfiducia nella possibilità di poter incidere, con un’azione collettiva, sulla realtà. E’ significativo, a questo proposito, che anche in questo caso nei commenti operai ritorni spesso l’idea di una guerra liberatoria, guerra attesa e sperata proprio perché permetterebbe di ribaltare la situazione, cacciando i nuovi padroni, come se ormai la salvezza potesse venire soltanto da un evento esterno: “ecco, ora lo hanno fatto fuori – dice un operaio commentando l’arresto di Ljulin – e noi stiamo zitti come scemi. Ah, venisse presto la guerra, le strangoleremmo tutte queste canaglie!”[93]. Nonostante il clima intimidatorio, tuttavia, almeno un tentativo, per quanto stroncato sul nascere, di organizzare la protesta collettiva viene fatto. Pochi giorni dopo l’arresto di Vasilij Ivanovič, il 15 giugno, un involucro avvolto alla bell’e meglio e legato con lo spago viene gettato di notte nella fabbrica attraverso il muro di cinta. Contiene cinque volantini, scritti a mano con l’inchiostro simpatico[94]. Sono volantini “di carattere controrivoluzonario”, che esortano gli operai a riprendere la lotta per la libertà:

“Lotta per l’essenziale. Compagni operai, vi forse siete scordati per che cosa abbiamo combattuto, per che cosa abbiamo versato il sangue? Per la libertà, per migliorare la condizione operaia in tutto il mondo, per liberarci dal giogo del capitale e per la parola libertà. Adesso tutto torna come prima, si torna al servaggio. Non hanno permesso che si potesse dire la verità, non hanno dato all’operaio quel che gli serve per vivere. Hanno cominciato a spremere sempre più forte, sempre più forte, ad aumentare i ritmi di lavoro e a diminuire i salari, si sono messi a intensificare il lavoro fino all’impossibile, a mettere note a ogni pie’ sospinto, a organizzare competizioni. E ora non possiamo aspettarci più nulla di buono, finché non vi metterete a combattere e a scioperare. Un operaio della ‘Krasnyj Perekop’”[95].

Seguono il volantino altre istruzioni. L’anonimo operaio incita i compagni a prepararsi all’ora “x”, quando, spiega, fermeremo la fabbrica e li cacceremo via: allora, aggiunge, “pesteremo i capitalisti sovietici […] sfruttatori delle masse operaie”, ed esigeremo infine l’aumento dei salari, la fine dei turni di notte e dell’intensificazione della giornata lavorativa. L’appello finisce con un richiamo all’antica alleanza con i contadini della tradizione rivoluzionaria russa, che rivela tuttavia, nell’uso dei termini, anche l’influenza dell’opposizione di sinistra – “Compagni operai, tutta la popolazione contadina vi aspetta per attaccare la borghesia e la burocrazia sovietica!” –, prima di chiudersi con una nota di sgomento per la mancanza di reazioni davanti all’Apocalisse che sembra abbattersi sul paese. Possibile che non capiate quel che sta succedendo?, chiede l’autore, prima di aggiungere: “non chiedere il pane, arrestano”[96]. Il plico, tuttavia, non arrivò mai ai destinatari, giacché con mano rapida un solerte guardiano notturno lo raccolse subito per consegnarlo a chi di dovere.

Quanto a Vasilij Ivanovič, questi, dopo una breve istruttoria, venne condannato dagli organi extragiudiziari della OGPU a 3 anni di campo di concentramento nelle regioni settentrionali per “agitazione antisovietica”, in base all’articolo 58/10 del Codice penale[97]. A scontar la penna venne spedito a Velikij Ustjug, a fare il meccanico in una fabbrica, dove, invece di pentirsi e redimersi, continuò imperterrito a sobillare gli operai e gli altri confinati contro il potere sovietico e il piano quinquennale (“Siamo nudi e scalzi, ma quali successi e successi! C’è solo non abbiamo ottenuto nessun successo, ma solo rovina. E’ dura la vita, adesso, per gli operai e i contadini! Ecco cosa ci dà il piano quinquennale: strappa al contadino tutto ciò che gli resta, fino all’ultimo chicco di grano, e costringe l’operaio a lavorare al di sopra delle sue forze. In Inghilterra e in Francia gli operai vivono in condizioni migliori che in Unione sovietica”[98]). Un’opera di agitazione, questa, trovata assai disdicevole dalla OGPU, che propose quindi di mantenerlo sotto sorveglianza speciale anche dopo la liberazione, una proposta prontamente accolta dalle istanze superiori dell’organizzazione[99]. Una volta scontata la pena, Vasilij Ivanovič finì quindi confinato per tre anni nella città di Kostroma, a un centinaio chilometri da Jaroslavl’. Dove però il nostro, essendo uomo libero e fiero, si recava quando gli piaceva, senza chiedere naturalmente, con gran disappunto della OGPU, alcuna autorizzazione. E la sua presenza a Jaroslavl’, dove, ancora all’inizio del 1933, la situazione alla “Krasnyj Perekop” era ben lungi dall’esser pacificata, era giudicata ancora pericolosa, giacché avrebbe potuto rimettersi alla testa degli operai: quindi la polizia politica chiedeva di assegnarlo alla residenza coatta al di là dei confini della regione di Ivanovo, da dove gli sarebbe stato ben più difficile tornare a Jaroslavl’ – una richiesta, anche questa volta, prontamente accettata dagli organi competenti[100]. Vasilij Ivanovič, tuttavia, dovette sfidare il destino una volta di troppo e tornare clandestinamente a Jaroslavl’, dove fu di nuovo arrestato nel 1934 per esser condannato, questa volta, a 5 anni di lager. Da cui però non fece più ritorno: finì probabilmente fucilato nel 1937, quando, col grande terrore, vennero passati per le armi moltissimi detenuti condannati per crimini antisovietici[101]. Vasilij Ivanovič è stato riabilitato soltanto nel 1993, quando ormai il regime sovietico era caduto[102].

Perché, al di là di un pur sacrosanto diritto di memoria, la storia di Vasilij Ivanovič Ljulin mi è sembrata così importante da indurmi a ricomporre pazientemente il puzzle che ne racchiudeva i segreti? Che cosa ci dice, al di là dell’esperienza individuale di un semplice operaio di Jaroslavl’, questa vicenda? Per chi cerchi di dipanare l’ingarbugliata matassa della storia della Russia post-rivoluzionaria e di ricostruire, in particolare, la genesi dello stalinismo, le vicissitudini di Ljulin presentano, per diverse ragioni, un grande interesse. La vicenda che qui abbiamo raccontato fa anzitutto venire alla luce un aspetto fino a oggi largamente ignoto della storia di quegli anni, e cioè il rapporto aspramente conflittuale degli operai col potere sovietico, e, in particolare, la resistenza opposta alla politica intrapresa nella seconda metà degli anni Venti per modernizzare il paese a tempi di record, senza badare agli elevati costi sociali che questo processo implicava. L’atteggiamento degli operai nei confronti di quella che all’epoca veniva chiamata la dittatura del proletariato è stato infatti uno dei maggiori tabù della storia ufficiale di quella che fu l’Unione sovietica, perché investiva direttamente i problemi di legittimazione del regime. La dittatura esercitata dai bolscevichi si giustificava infatti all’interno di una visione teleologica della storia di matrice marxiana, secondo cui al capitalismo, che aveva soggiogato gli uomini alle leggi del profitto, sarebbe seguito, grazie alla rivoluzione, il socialismo, quel regno della libertà che la classe operaia era destinata a costruire, liberando l’umanità intera dalle schiavitù del passato. Tuttavia, poiché la classe operaia, per la condizione di subalternità a cui era costretta nel capitalismo, non poteva maturare pienamente come classe di governo, doveva, dopo la rivoluzione, delegare il potere alla sua avanguardia, il partito comunista appunto, che era, secondo la dottrina bolscevica, il depositario dei veri interessi della classe e del sapere scientifico necessario a costruire il socialismo, il marxismo-leninismo. La dittatura bolscevica era quindi legittima nella misura in cui incarnava il potere operaio. Ora, le proteste degli operai in carne e ossa contro il dominio esercitato in nome di una classe astratta rischiavano continuamente di mettere in discussione quella che era, agli occhi dei bolscevichi stessi, la legittimità del loro potere. Senza contare le implicazioni identitarie che il misconoscimento da parte degli operai aveva, almeno per la vecchia guardia bolscevica. Proprio il ruolo centrale che la dottrina accordava al proletariato rendeva assolutamente inaccettabile la conflittualità operaia. Da qui gli estenuanti tentativi per negarne l’esistenza, riconducendo tutti i conflitti alla questione dell’arretratezza, della mancanza di coscienza, ricondotta a sua volta inevitabilmente all’origine sociale non operaia dei contestatari, con infinite disquisizioni sul cosa determinasse l’appartenenza sociale, se la nascita o l’attività svolta; da qui gli altrettanto estenuanti sforzi per istillare a tutti i costi la “coscienza” negli operai, convincendoli della giustezza della politica del partito: è stupefacente come, anche nel caso della “Krasnyj Perekop”, la causa principale della protesta operaia venga individuata non nell’aggravarsi delle condizioni di vita e di lavoro, ma nell’insufficiente lavoro di indottrinamento svolto dal partito e dal sindacato per spiegare agli operai la necessità di accettare volontariamente i sacrifici. E’ questo il motivo di fondo che torna come una litania in tutti i rapporti, che si tratti di quelli stesi dai responsabili locali del partito o dagli ispettori inviati da Mosca o, ancora, dalla OGPU. Ed è per questo che, per uscire dall’impasse, proponevano tutti la stessa ricetta: reprimere, certo, ma poi rafforzare il lavoro “di massa”, chiedendo a Mosca di inviare gruppi di propagandisti esperti[103].

Proprio per il carattere altamente destabilizzante, sia a livello ideologico che politico, che la protesta operaia rivestiva, questa venne fin dall’inizio censurata, sia per timore del “contagio” che per non incrinare l’immagine del consenso operaio alla dittatura. Di conflitti e proteste non si trova quasi traccia nella stampa dell’epoca[104]. Se si scorrono le pagine del Severnyj Rabočij (L’operaio del nord), il quotidiano del partito di Jaroslavl’, degli ultimi mesi del 1928, non c’è traccia della storia che abbiamo raccontato, eccezion fatta per i testi in cui si denunciano le malefatte di Ljulin. Per eliminare ogni traccia della protesta, nel 1927, in occasione del decimo anniversario della rivoluzione, vennero adottate una serie di misure che la rendevano “invisibile”. Venne abbandonato il sistema di rilevazione sistematica dei conflitti nelle fabbriche in vigore fin da prima della rivoluzione; fu diminuito il numero delle imprese censite. Questo processo culminerà nel 1929, quando proteste e conflitti divennero segreto di Stato, gelosamente conservato dalla OGPU che ne dava informazione soltanto a chi di dovere[105]. Sul finire degli anni Venti, la stampa, già sotto il controllo pieno del partito, subì inoltre un ulteriore giro di vite e venne ridotta a mero strumento di propaganda, perdendo la duplicità che ne aveva caratterizzato inizialmente lo statuto, il dover essere cioè al tempo stesso mezzo di informazione e di propaganda, a vantaggio esclusivo del secondo termine[106]. Come tutta la macchina propagandistica, nel 1929 la stampa venne messa al servizio dell’industrializzazione e del primo piano quinquennale per mobilitare gli operai in favore dell’aumento della produzione. L’immagine agiografica dell’entusiasmo degli operai per l’industrializzazione, con il suo corteo di eroi giovani, muscolosi, forti e sorridenti – lavoratori d’assalto (gli udarniki), operai impegnati nell’emulazione socialista per aumentare la produzione e via dicendo – domina in effetti tutta la propaganda dell’epoca, dalla stampa alla letteratura, al cinema e all’arte. Questa rappresentazione degli operai ardenti fautori dell’industrializzazione contro gli altri gruppi sociali arretrati aveva una duplice funzione. Da un lato doveva cancellare ogni traccia della resistenza operaia che pure sembra invece, dai primi sondaggi, essersi rafforzata proprio in quegli anni e, dall’altro, doveva creare l’immagine di un consenso operaio di massa al regime, un’immagine che aveva a sua volta diverse finalità. Questa doveva infatti anzitutto “riconfermare” la natura operaia del regime, e legittimare per ciò stesso la politica di modernizzazione intrapresa; ma doveva anche esercitare una pressione sui lavoratori perché adeguassero i loro comportamenti alla rappresentazione proposta dalla propaganda. Per tornare al nostro caso, un esempio da cui emerge chiaramente questa duplice funzione è il volume dedicato alla “Krasnyj Perekop” nella prestigiosa collana pubblicata sotto il patrocinio di Gor’kij “Istorija fabrik i zavodov” (“Storia delle fabbriche”), di cui uscirono nel corso degli anni Trenta diversi volumi sulle principali industrie del paese[107]: l’opera sulla nostra fabbrica mette in scena infatti il conflitto fra i veri operai, pronti a sacrificarsi per aumentare la produzione, e i perfidi ljulincy, che vogliono invece subdolamente traviarli[108]. Ripresa e moltiplicata dagli apparati di propaganda, l’immagine dell’entusiasmo operaio nella grande epopea dell’industrializzazione ha finito per imporsi incontrastata, diventando poi un topos della storiografia sovietica. Fino al crollo dell’Urss, la conflittualità sociale e l’atteggiamento degli operai nei confronti del regime sono stati, per gli storici sovietici, uno dei principali tabù; quanto agli storici occidentali, non avevano, visto il silenzio della stampa dell’epoca, fonti a disposizione per affrontare queste problematiche. Soltanto negli ultimi anni, dopo l’apertura degli archivi seguita al naufragio dell’Urss, gli storici hanno potuto iniziare a occuparsi di questo tema, che appare di importanza cruciale per capire la storia degli anni Venti, perché, come ha sottolineato Bill Rosenberg, uno degli studiosi che ha maggiormente contribuito a stimolare la ricerca in questa direzione, proprio per la centralità che gli operai avevano nella visione dei bolscevichi, il loro atteggiamento nei confronti del potere aveva un ruolo del tutto particolare nel condizionare le scelte politiche[109]. Si tratta di un terreno di ricerca vergine e sconfinato, ancora tutto da esplorare. E questo soprattutto per quel che riguarda gli anni della grande svolta staliniana, poiché le ricerche svolte finora hanno riguardato soprattutto i primissimi anni dopo la rivoluzione[110]. Solo ultimamente si è cominciato ad indagare il periodo successivo. Alcuni studi usciti quando la stesura di questo saggio era già ultimata meritano di essere segnalati. Si tratta del bellissimo studio di Diane Koenker sui tipografi dalla rivoluzione alla grande svolta staliniana e della ricerca di Jeoffrey Rossman sulla resistenza operaia durante il primo piano quinquennale[111]. Vanno ricordati anche i lavori di alcuni studiosi russi, che hanno tuttavia privilegiato, in linea con le tendenze di parte della vecchia storiografia internazionale sul movimento operaio, un approccio centrato sulle motivazioni e gli stimoli del lavoro[112].

La storia di Ljulin mostra tutta l’importanza di interrogarsi sull’atteggiamento degli operai proprio nei confronti della “grande svolta”. La vicenda qui ricostruita suggerisce infatti un’ipotesi interpretativa nuova sulla genesi dello stalinismo, che resta a tutt’oggi, al di là delle letture di carattere meramente ideologico di scarso valore euristico, uno dei grandi nodi irrisolti della storia del XX secolo: e cioè che l’instaurarsi della dittatura staliniana sia stato il risultato finale di una sorta di spirale di radicalizzazione della conflittualità sociale e politica che la sorda resistenza opposta dagli operai (e, più in generale, dalla società intera) al progetto di modernizzazione imposto al paese dai bolscevichi aveva scatenato. Il caso della “Krasnyj Perekop” è, da questo punto di vista, emblematico, perché permette di vedere, attraverso la lente di ingrandimento della microstoria, il costituirsi e la dinamica di quella che ho chiamato la spirale della radicalizzazione. L’aumento della pressione sul lavoro, imposto con l’intensificazione dei ritmi produttivi, provoca infatti una protesta operaia, che però viene messa a tacere dal partito col ricorso all’autoritarismo (la costrizione a tenere una nuova assemblea per far passare la risoluzione voluta dal partito, annullando i risultati di quella in cui gli operai avevano espresso la loro volontà). L’autoritarismo provoca, a sua volta, un’ondata di rabbia fra gli operai, favorendo il radicalizzarsi delle posizioni, che emerge poi nell’assemblea che vota a sorpresa l’invio della delegazione a Mosca per far luce sulle questioni dell’approvvigionamento e fischia il segretario del partito. Il partito cerca allora di riprendere in mano la situazione, ricorrendo a misure repressive (viene aumentata la sorveglianza poliziesca nella fabbrica, Ljulin, si è detto, è guardato a vista e si aspetta l’arresto). Gli operai reagiscono eleggendo – di nuovo a sorpresa – Vasilij Ivanovič delegato al congresso sindacale e bocciando il candidato del partito. Che, a sua volta, mobilita tutti i mezzi a sua disposizione per imporre agli operai la sua volontà e costringerli a sconfessare Ljulin. Nel far ciò, il partito perde ulteriormente credibilità e autorità agli occhi degli operai, che radicalizzano maggiormente le loro posizioni, riuscendo infine a mandare Ljulin al congresso. A quel punto, anche il partito si radicalizza e ricorre sempre più apertamente alla repressione, chiedendo alla OGPU di purgare la fabbrica. La spirale si avvita sempre di più e il comportamento dei responsabili del partito spinge gli operai a estremizzare la loro posizione, politicizzandola e facendo di Ljulin il loro leader riconosciuto. E così via, fino all’arresto di Vasilij Ivanovič. E’ durante questa serie di reazioni a catena – da me definita con l’espressione di “spirale di radicalizzazione” – che si costituiscono e prendono piede, passo dopo passo, quelle pratiche repressive e quegli apparati di inquadramento e di controllo del sociale il cui affermarsi segna l’avvento della dittatura staliniana.

Quest’ipotesi, che ha il vantaggio di restituire alla genesi dello stalinismo un carattere dinamico, mettendo in luce la complessa trama delle interrelazioni fra il potere, nelle sue diverse articolazioni, e la società, necessita naturalmente di essere corroborata da una serie di studi che permettano di vedere in primo luogo se, e in che misura, il quadro che esce dalla vicenda di Ljulin – l’esistenza, cioè, di un’opposizione operaia alla “grande svolta” staliniana che innesca una spirale di radicalizzazione – sia generalizzabile. Soltanto questi lavori permetteranno infatti di valutare quanto la storia qui raccontata possa essere considerata rappresentativa di realtà più ampie, verificando quale fosse l’estensione della resistenza operaia nel paese, quali e quanti settori interessasse e via dicendo, al fine di cercar di capire quale fosse il suo impatto sui mutevoli equilibri allora esistenti fra potere e società e di misurarne quindi l’importanza nella genesi dello stalinismo.

Se quest’ipotesi sul ruolo determinante che ebbe, nell’instaurarsi della dittatura staliniana, la resistenza operaia – e, più in generale, della società intera – al progetto modernizzatore messo in atto dai bolscevichi dovesse risultare fondata, permetterebbe anche di provare a ripensare in termini nuovi il problema della comparazione dello stalinismo con gli altri regimi di tipo totalitario sorti in Europa nel periodo fra le due guerre. Se infatti, come suggerisce la storia di Ljulin, la dittatura staliniana fu la risposta finale che i bolscevichi al potere alla fine degli anni Venti seppero dare, facendo ricorso al loro bagaglio culturale e mentale, alla profonda crisi sociale provocata dalle tensioni a cui la modernizzazione aveva sottoposto la società, allora si può pensare allo stalinismo come a una delle manifestazioni di quella più generale “crisi della modernità classica” (nel senso che a questa espressione ha dato Detlev J.K. Peukert[113]) di cui la prima guerra mondiale è al tempo stesso il frutto e il rivelatore. Questa lettura dello stalinismo ha una serie di implicazioni, di cui due meritano di essere qui sottolineate. La prima è situare lo stalinismo non solo all’interno della lunga durata della storia russa, come ormai siamo abbastanza avvezzi a fare, tanto più che questo ci permette di respingerlo verso la barbarie orientale, facendone altro da noi, ma anche, invece, all’interno della storia della modernità occidentale. La rivoluzione bolscevica e lo stalinismo – fenomeni che, per quanto non legati da un necessario legame di causa-effetto, furono certamente filiazione l’uno dell’altra – si situano infatti al punto di intersezione fra la lunga durata della storia russa, con la vischiosità delle sue pratiche sociali, le sue credenze messianiche e il preponderante ruolo dello Stato nel plasmare la società, e la storia della modernità occidentale, col suo modello industriale, il mito del progresso e il fascino dell’ingegneria sociale. Figlio di quella rivoluzione che prometteva l’emancipazione all’umanità intera, lo stalinismo fu, sotto questo punto di vista, l’esperimento estremo della modernità occidentale, sedotta dall’idea dell’umana onnipotenza nel forgiare uomini nuovi e paradisi futuri. Questa lettura dello stalinismo – e vengo alla seconda implicazione – permetterebbe, più in generale, di contribuire a riformulare la categoria del totalitarismo, che appare in quest’ottica un fenomeno di reazione alla crisi della modernità che travaglia l’Europa agli albori del Novecento. Il che permetterebbe, infine, di superare le aporie della teoria totalitaria ereditata dalla guerra fredda, restituendo invece al totalitarismo il suo valore euristico e facendone uno dei paradigmi interpretativi della storia della prima metà del XX secolo, capace di fornire un quadro generale al cui interno comparare e comprendere, nella loro diversità, le varie esperienze di regimi di tipo totalitario.

Passato e presente, 2007, 72, pp.71-100

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* Il testo è costruito interamente su documenti inediti provenienti dai seguenti archivi: Archivio di Stato della Federazione russa (GARF); Archivio di Stato russo per la storia politica e sociale (RGASPI), che è il vecchio Archivio del Comitato centrale del Partito comunista (CPA); Archivio centrale del FSB (CA FSB), il vecchio KGB; Archivio di Stato di Jaroslavl’ (GAJaO); Archivio del Partito di Jaroslavl’, ribattezzato Centro di Documentazione per la Storia Contemporanea dell’Archivio di Stato di Jaroslavl’ (CDNI GAJaO). Tengo qui a ringraziare Sergej Mironenko, direttore del GARF, Kirill Anderson, direttore del RGASPI, il generale Vasilij Christoforov, direttore dell’Archivio del FSB e Maksim Šitakov, vice-direttore del GAJaO: senza la loro disponibilità, questa ricerca non sarebbe stata possibile. Un ringraziamento particolare va, inoltre, al personale delle sale di lettura, che non ha mai esitato ad aiutarmi con grande cortesia: vorrei ricordare, in particolare, Irina Nikolaevna (RGASPI) e Svetlana Jurevna (CA FSB).

[1] CDNI GAJaO, f.1, op.27, d.3312, l.106.

[2] GAJaO, d. S-8597, l.4.

[3] GAJaO, d. S-8597, l.5.

[4] GAJaO, d. S-8597, l.2.

[5] Per la storia della Manifattura, si veda A.F.Grjaznov, Jaroslavskaja Bol’šaja Manufaktura za vremja s 1722 po 1856 g., Moskva, 1910; Jaroslavskaja Bol’šaja Manufaktura. Jaroslavl’. Rossija, Moskva, 1900.

[6] Si veda, in particolare, il libro pubblicato per illustrare l’operato della Manifattura in occasione dell’Esposizione: Jaroslavskaja Bol’šaja Manufaktura…, op. cit.. Ove non altrimenti indicato, questa è la fonte della descrizione successiva. Per i premi, cfr.N.Balueva, Jaroslavskaja Bol’šaja Manufaktura- Stranicy istorii kombinata “Krasnyj Perekop”, Njuans, Jaroslavl’, 2002, p.67.

[7] Katalog’ knig biblioteki dlja služaščich na fabrik’’ tovariščestva “Jaroslavskoj Bol’šoj Manufaktury”, Jaroslavl’, 1894, pp. 5, 6, 9, 12, 15, 25, 27-29, 30, 32, 55, 57-58.

[8] GAJaO, f.674, op.51, d.625, l.3.

[9] GAJaO, f.674, op.51, d.627, l.1 Ringrazio Pino Ferraris per l’aiuto prezioso che mi ha dato per trovare la traduzione italiana dei mestieri nell’industria tessile.

[10] GAJaO, f.674, op.51, d.625, l.2; d.627, l.1.

[11] GAJaO, f.674, op.51, d.625, l.3; d.627, l.1r..

[12] GAJaO, f.674, op.51, d.624, l.3; d.626, l.2.

[13] GAJaO, f.674, op.51, d.624, l.3. Nel 1912 e nel 1913 Ljulin non fa in effetti un solo giorno di assenza. Soltanto nel 1914 si ammala e manca per una settimana; bisogna però aspettare l’anno successivo perché perda una giornata di lavoro per sua volontà, cosa per cui è prontamente redarguito con una nota di biasimo dalla direzione aziendale.

[14] GAJaO, f.674, op.51, d.625, l.3, 3r.. Diverso invece il caso della madre, grande lavoratrice, che in tutti gli anni passati in fabbrica si era assentata soltanto per malattia, probabilmente per parto, visto che le malattie coincidono con gli anni di nascita dei figli: GAJaO, f.674, op.51, d.627, ll.1-2.

[15] GAJaO, f.674, op.51, d.624, l.3.

[16] “Svodka o Ljuline”, RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.95.

[17] GAJaO, d. S-8597, l. 6. RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.56. Secondo un’altra versione, avrebbe seguito i corsi alla scuola serale del partito a Mosca nel 1919 (“Svodka o Ljuline”, RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.95).

[18] RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.95; CA FSB, f.2, op.6, por. 973, l.685. Sarebbe interessante, ad esempio, sapere quali fossero le posizioni “antisovietiche” di Ljulin, e, in particolare, se fossero o no in relazione all’opposizione operaia, uno dei bersagli della purga.

[19] Da qui sarebbe rimasto a Ljulin, secondo i rapporti successivi della GPU, quel sentimento di aver subito un’offesa profonda che lo avrebbe portato a schierarsi contro il potere sovietico, CA FSB, f.2, op.6, por 973, l.685.

[20] GAJaO, f.674, op.51, d.624, l.3, 3r..

[21] CA FSB, f.2, op.8, por. 738, ll.56-57.

[22] RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.56.

[23] RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.56.

[24] Sullo spartiacque che il 1927 rappresenta fra il relativo benessere della NEP, seguito alla catastrofe della guerra civile, e alle gravi penurie che caratterizzano gli anni dell’industrializzazione forzata, si veda E.Osokina, Za fasadom stalinskogo izobylija. Raspredelenie i rynok v snabženii naselenija v gody industrializacii, 1927-1941, Rosspen, Moskva, 1999, e soprattutto la prima parte, in cui analizza la distruzione del mercato fra il 1927 e il 1929.

[25] RGASPI, f.17, op.20, d.593, ll.62-63, 100-100r..

[26] RGASPI, f.17, op.20, d.593, ll.8-15, 102-103.

[27] RGASPI, f.17, op.20, d.593, ll.103, 108.

[28] CA FSB, f.2, op.6, por.973, ll.19, 24.

[29] CA FSB, f.2, op.6, por.973, l.23.

[30] CA FSB, f.2, op.6, por.973, l.23.

[31] RGASPI, f.17, op.20, d.600, l.7.

[32] CA FSB, f.2, op.6, por.973, l.35

[33] CA FSB, f.2, op.6, por.973, l.40.

[34] CA FSB, f.2, op.6, por.973, ll.30-31, 34-44.

[35] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.72.

[36] RGASPI, op.20, d.592, l.140; op.20, d.593, ll.41; op.20, d.594, ll.3r, 193; op.20. d.595, ll.19, 57-57r, 134. La reintroduzione del razionamento, risultato inizialmente dell’iniziativa dei poteri locali costretti a far fronte all’aggravarsi delle penurie, verrà sanzionata dal Politibjuro fra la fine del 1928 e l’inizio del 1929. Cfr. E.Osokina, Za fasadom…, op. cit., p.65.

[37] RGASPI, f.17, op.85, d.307, l.66

[38] I prestiti industriali, che accompagnarono tutto il I piano quinquennale, erano una forma di risparmio forzoso imposta a tutti i lavoratori per finanziare l’industrializzazione: la sottoscrizione era di fatto obbligatoria.

[39] RGASPI, f.17, op.85, d.307, l.66; RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll. 30, 40

[40] RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.56-57, 59, 95; CA FSB, f.2, op.6, por 973, ll.686, 707, 858-859; GA JaO, d. S-8597, ll. 6r, 116.

[41] RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.9, 31.

[42] RGASPI, f.17, op.20, d.596, l.38r; f.17, op.85, d.325, l.30, l.9; d.297, l.71.

[43] RGASPI, f.17, op.85, d.325,l l.31, 39, 57 – mq pompieri; CA FSB, f.2, op.6, por.973, ll.859-860.

[44] RGASPI, f.17, op.85, d.325,ll.32, 35, 57.

[45] I corrispondenti operai (rabkory) erano operai che collaboravano con i giornali sovietici a cui inviano brevi articoletti sulla vita quotidiana e i problemi esistenti nelle fabbriche. Per alcuni cenni sui corrispondenti, permettetemi di rinviare al mio “Révolution et vie quotidienne : le témoignage des correspondants ouvriers de la Pravda (1922)”, Le Mouvement social, N.190, gennaio-marzo 2000, pp.61-95.

[46] RGASPI, f.17, op.20, d.596, ll.180-182, 184 e r..

[47] RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.58, 64.

[48] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.64

[49] RGASPI, f.17, op.20, d.600, l.7.

[50] RGASPI, f.17, op.85, d.297, ll.64-65; d.325, ll.49, 59, 60

[51] RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.49, 59, 60.

[52] RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.50, 66; RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.65

[53] RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.66

[54] RGASPI, f.17, op.20, d.596, l. 184r-185.

[55] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.22, 46.

[56] RGASPI, f.17, op.85, d.325, l.49

[57] CA FSB, f.2, op.6, por.973, l.707.

[58] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.62

[59] RGASPI, f.17, op.85, d.297, ll.62-63.

[60] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.62

[61] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.62

[62] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.62

[63] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.47.

[64] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.62

[65] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.40-41.

[66] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.43; RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.58.

[67] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.47.

[68] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.48, 53.

[69] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.59.

[70] RGASPI, f.17, op.85, d.297, ll.60-62.

[71] E’ significativa, da questo punto di vista, la proposta avanzata da un compagno d’arme di Ljulin, Lytočkin, di aggiungere nella risoluzione sull’autocritica il fatto che questa non potesse essere utilizzata né per escludere dal sindacato né per licenziare gli oprai – una proposta che tuttavia venne abilmente aggirata dal presidente del Comitato di fabbrica, Antonov (CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.63).

[72] RGASPI, f.17, op.85, d.297, ll. 58-59; d.325, ll.71-72.

[73] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.67. Nell’arcipelago di Solovki, vicino al circolo polare artico, venne creato, nel 1923, il primo campo di prigionia della OGPU: vi venivano rinchiusi i prigionieri politici della Russia sovietica. Per Solovki, sede di un antico monastero, passò negli anni venti il fior fiore dell’intelligencija russa che non aveva scelto la via dell’emigrazione, dal filosofo religioso Pavel Florenskij all’allora giovane studioso Dmitrij Lichačev, per non citare che i più noti al lettore italiano. Il lager di Solovki fu l’embrione da cui si sviluppò in seguito il Gulag staliniano. Negli anni venti la consapevolezza di poter finire, per una qualunque forma di protesta, a Solovki era assai diffusa. Per una storia di Solovki, si veda, in italiano, Jurij Brodskij, Solovki. Le isole del martirio. Da monastero a primo lager sovietico, La Casa di Matriona, Milano 1998 (ediz. ridotta di id., Solovki. Dvadcat’ let Osobogo Naznačenija, Rosspen, Moskva, 2002).

[74] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.59.

[75] RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.71-72. La purga del 1929, i cui materiali sono stati recentemente declassificati, non è stata ancora studiata.

[76] Su questo punto insistono sia i diversi rapporti della OGPU che il rapporto sullo stato del partito a Jaroslavl’ fatto, nel dicembre del 1929, dallo stesso Nazarov, venuto a ispezionare la situazione come inviato della Commissione centrale di Controllo (CKK): cfr. RGASPI, f.17, op.85, d.325, ll.77-78. La vera svolta avverrà in realtà solo con l’arresto di Ljulin.

[77] Si veda, per es., CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.58.

[78] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.93.

[79] Mancano purtroppo gli studi su questo aspetto importantissimo per poter ricostruire la genesi dello stalinismo: non abbiamo nemmeno a disposizione una storia dei sindacati o del VSNCh durante gli anni Venti, visto che i vecchi lavori sovietici, intessuti di silenzi e mezze verità, sono semplicemente inutilizzabili. Fondo le mie affermazioni su quanto visto in archivio nel fondo dei sindacati, in quello del sindacato tessile e in quello del Ministero del lavoro. Per quel che riguarda le posizioni di Mel’ničanskij, si veda il suo intervento alla riunione sui conflitti nel tessile convocata, nell’ottobre del 1928, al Dipartimento organizzativo (Orgraspred) del Comitato Centrale: RGASPI, f.17, op.85, d.305, ll.4-9. Secondo alcune fonti, nel conflitto alla “Krasnyj Perekop” Mel’ničanskij avrebbe anche preso le difese di Ljulin (cfr. per es. RGASPI, f.17, op.20, d.596, l.181; CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.67).

[80] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.16-17, 20, 23-24, 49-51, 58, 90, 92

[81] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.92, 106-107.

[82] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.105-106.

[83] CA FSB, f.2, op.7, por.754, ll.89-90, 119.

[84] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.90.

[85] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.90.

[86] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.91.

[87] CA FSB, f.2, op.7, por.754, l.118.

[88] CA FSB, f.2, op.8, d.738, ll.58, 60.

[89] GA JaO, d.S-8597, l.93.

[90] GA JaO, S8597, l.1. L’”emulazione socialista” era una sorta di “gara” di produttività fra due o più operai per ottenere i migliori risultati. Fu una delle leve dell’industrializzazione forzata staliniana.

[91] GA JaO, S8597, l.2

[92] AP GAJaO, f.1, op.27, d.3312, ll.105-107.

[93] AP GAJaO, f.1, op.27, d.3312, l.106.

[94] AP GAJaO, f.1, op.27, d.3312, l.107.

[95] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.56

[96] RGASPI, f.17, op.85, d.297, l.56

[97] GA JaO, S 8597, l.109. Ljulin venne condannato dalla Osoboe soveščanie della OGPU su proposta della OGPU di Jaroslavl’. La Osoboe soveščanie (letteralmente la “Conferenza speciale”) era stata creata nel 1924 presso la OGPU, con l’incarico di occuparsi di tutta una serie di crimini considerati particolarmente pericolosi, fra cui quelli “controrivoluzionari” e “antisovietici”. Era composta di tre membri del Collegio della OGPU e poteva condannare al confino, alla deportazione e alla detenzione in lager fino a 3 anni, funzioni che non cesseranno di allargarsi negli anni seguenti. I condannati dalla Osoboe Soveščanie aumentarono vertiginosamente nella seconda metà degli anni Venti, passando da 9.366 nel 1924 a 13.102 nel 1926 per arrivare a 37.197 nel 1929 (A.I.Kokurin, N.V.Petrov, Lubjanka. Organy VČK-OGPU-NKVD-NKGB-MGB-MVD-KGB. 1917-1991. Spravočnik, Materik, Moskva, 2003, pp.5-6, 37).

[98] GA JaO, S 8597, l.111.

[99] GA JaO, S 8597, ll.111-112.

[100] GA JaO, S 8597, ll.114-115.

[101] Il destino di Ljulin dopo il 1934 è racchiuso in un dossier istruttorio non ancora accessibile, perché non sono passati ancora i 75 anni previsti dalle legge per i fascicoli personali: desumo quanto affermo da quanto mi è stato gentilmente comunicato dalla signora Nina Alekseevna D’jačkova, addetta, all’Archivio di Stato di Jaroslavl’, a ricevere i fascicoli declassificati dal FSB, che qui tengo a ringraziare.

[102] GA JaO, S 8597, l.118.

[103] Su richiesta del Comitato del partito di Jaroslavl’, per mobilitare gli operai della “Krasnyj Perekop” e rimettere in piedi l’organizzazione di fabbrica del partito nell’estate del 1929 venne mandato dal Comitato centrale un gruppo speciale di agitatori e propagandisti; tuttavia non sembra che l’operazione abbia dato esiti positivi (RGASPI, f.17, op.20, d.596, l.185 e d.616, l.113 e passim; RGASPI, f.17, op.74,d.2, ll.62-68).

[104] E’ stato calcolato, per esempio, che il 96% dei conflitti che ebbero luogo fra il 1922 e il 1924 vennero censurati dalla stampa: cfr. W.Rosenberg, “Formy i sposoby rabočego protesta v Rossii, 1918-1929 gg.”, in Ju.Kirjanov, W. Rosenberg, A.N.Sacharov, Trudovye konflikty v sovetskoj Rossij. 1918-1929, URSS, 1998, p.10.

[105] Ju.I.Kirjanov, W. Rosenberg, A.N.Sacharov, Trudovye konflikty …, op. cit., pp.3, 5, 6.

[106] La trasformazione dello statuto della stampa avvenne fra il 1927 e il 1928 ad opera dei responsabili del Dipartimento per la stampa del Comitato centrale, S.Gusev e S.Ingulov. Secondo questi ultimi, il compito della stampa all’epoca dell’industrializzazione era mobilitare gli operai in favore della produzione. Mero strumento di propaganda, la stampa venne allora strettamente sottomessa all’Agitprop, che proprio nel 1928 venne fuso col vecchio Dipartimento Stampa. Si veda Na novye puti. Pečat’ kak orudie mobilizacii mass. Sbornik statej pod redakciej S.I.Guseva, Moskva-Leningrad, 1927; S.Ingulov, Partija i pečat’, Moskva, 1928; id., Rekonstruktivnyj period i badaci pečati, Moskva-Leningrad, 1930.

[107] Sulla collana, si veda S.V.Žuravlev, Fenomen “Istorii fabrik i zavodov”, RAN, Moskva, 1997.

[108] N.P.Pajalin, Volžskie tkači. 1722-1917, Moskva, 1936; V.F.Fedorovič, Volžskie tkači. Fabrika “Krasnyj Perekop”, b. Jaroslavkaja bol’šaja manufaktura. 1918-1932, Moskva, 1935.

[109] W.Rosenberg, “Formy i sposoby rabočego protesta v Rossii, 1928-1929 gg.”, art.cit., p.14; si veda anche il saggio W.G.Rosenberg, “Labor activism in Piter, 1918-1929: toward a new understanding of the ‘proletarian dictatorship’”, in E.I:Sacharov, S.I.Potopov, W.G.Rosenberg, V.Ju.Černjaev, Piterskie rabočie i “diktatura proletariata”. Oktjabr’ 1917-1929. Ekonomičeskie konflikty i političeskij protekst. Sbornik dokumentov, Dmitrij Bulanin, S.Peterburg, 2000, pp.30-38. Bill Rosemberg è stato all’origine dei progetti di ricerca da cui sono nate le prime raccolte di articoli su questo tema, di cui è stato uno dei curatori.

[110] Si veda, per es., oltre alle opere citate, S.V.Jarov, Proletarij kak politik. Političeskaja psichologija rabočich Retrograda v 1917-1923 gg., Dmitrij Bulanin, S.Peterburg, 1999; V.Ž.Zvetkova (a cura di), Iževsko-votkinskoe vosstanie. 1918 g, Posev, Moskva, 2000; A.V.Gogolevskij, Revoljucija i psichologija. Političeskie nastroenija rabočich Retrograda vuslovijach bol’ševistskoj monopolii na vlast’. 1981-1920, Izd. S.Peterburgskogo universiteta, S.Peterburg, 2005; D.Čurakov, Revoljucija, gosudarstvo, rabočij protest: formy, dinamika i priroda massovych vystuplenij rabočich v Sovetskoj Rossii. 1917-1918 gody, Rosspen, Moskva, 2004; L.V.Borisova, Trudovye otnošenija v sovetskoj Rossii (1918-1924 gg.), Izd. “Sobranie”, Moskva, 2006. Va segnalata, in particolare, l’importanza della raccolta di documenti pubblicata da D.B.Pavlov sul movimento dei cosiddetti “delegati plenipotenziari” eletti nelle fabbriche, soprattutto a Pietrogrado, nella primavera del 1918, un movimento autonomo, con una forte presenza di menscevichi e socialisti-rivoluzionari, e che venne prontamente represso dai bolscevichi: Rabočee opposicionnoe dviženie v bol’ševistskoj Rossii. 1918 g.. Sobranija upol’nomočennych fabrik i zavodov. Dokumenty i materialy, Rosspen, Moskva, 2006.

[111] D.Koenker Republic of Labor. Russian Printers and Soviet Socialism, 1918-1930, Cornell Un.Pr., Ithaca and London, 2005; J Rossman, Worker Resistance under Stalin. Class and Revolution on the Shop Floor, Harvard Un. Pr., Cambridge, Mass., and London, 2005. Rossman, il cui studio è centrato sull’ondata di agitazioni operaie che nella primavera del 1932 ebbero luogo in alcune delle più importanti fabbriche tessili della regione di Ivanovo (a cui con la riforma amministrativa del 1929 era stato accorpato anche l’oblast’ di Jaroslavl’), e, in particolare sullo sciopero alla Tejkovskaja Manufaktura e sulla rivolta di Vičuga, ha “incontrato” anche Ljulin, di cui ha tracciato un rapido ritratto.

[112] Si veeda, per esempio, A.Markevič, A.Sokolov, “Magnitka bliz zadovogo kol’ca”. Stimuly k rabote na Moskovskom zavode “Serp i molot”, 1883-2001, Moskva, Rosspen, 2005; S.Žuravlev, M.Muchin, “Krepost’ socializma”: povsednevnost’ I motivacija truda na sovetskom predprijatii, 1928-1938, Moskva, Rosspen, 2004.

[113] D.J.K.Peukert, La repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, Bollati Boringhieri, Torino, 1996. Sono debitrice anche all’opera, a mio avviso per molti versi illuminante, di Peter Wagner, Liberté et Discipline. Les deux crises de la modernité, Métailié, Paris, 1996.

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