Gli ultimi testimoni. Intervista

Lettere, pacchi, visite

Lettere, pacchi e visite rappresentavano le gioie più grandi per i detenuti nei campi di lavoro staliniani. Le lettere dei parenti ti aiutavano a credere che non ti avessero dimenticato, i pacchi di alimentari aiutavano semplicemente a sopravvivere e le rare visite, quando avvenivano, erano felicità pura.

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David Budënnyj (1930-2011) è stato arrestato nel 1950 con l’accusa di aver fatto parte dell’organizzazione giovanile “Unione Comunista della gioventù” e condannato a cinque anni di ITL [Isprovitel’no- Trudovye Lagerja, campi di lavoro correzionale], che ha scontato nei campi del Kazakistan. È stato riabilitato. Insegna all’università di Voronež ed è dottore in scienze economiche.

All’inizio ero in isolamento, da solo. Per un mese, probabilmente. Solo. Fino a quei giorni di tensione durante i quali si è svolta l’inchiesta. Poi ne hanno messi lì altri. Lo guardo: un altro. Eravamo già in quattro e c’era anche un tipo, non ricordo il nome, uno capace. Giusto, era così. “Sai, si può scrivere alla mamma. Si può provare. Un biglietto”. Io dico “Come?”. “Ascoltami. Scrivi quello che vuoi. In ogni caso, scrivi in modo tale che neanche una parola si ritorca contro di te. Per esempio, non scrivere «Abbasso Stalin» o cose del genere”. In parole povere, non bisognava danneggiare se stessi ancora di più. “Ma come si fa a consegnarlo?”. Tu scrivi. Qualcuno ha una matita chimica e qualcun altro ha della carta…

Io ho scritto il biglietto. “E ora?”. “Ecco, ora guarda”. Ha rovesciato il sacchetto che conteneva tutte le cose che mi avevano portato. Rovesciato. Quindi, sul fondo/, questo/ha nascosto il mio biglietto e ha rovesciato di nuovo il sacchetto. No, no, non ancora. Il biglietto era fissato, così non si rovesciava, era cucito. Qualcuno aveva ago e filo. I detenuti/come? Ogni giorno c’era la perquisizione. Però qualcuno ci riusciva lo stesso. Erano svegli. C’erano ago e filo. Era cucito sul fondo. Per esempio un centimetro e mezzo, forse. Il meno possibile, perché non si notasse. Lo si cuciva.

Il sacchetto veniva rivoltato dalla parte giusta. Ed era vuoto.

 

Nikolaj Nastjukov è nato nel 1933 a Pavlovsk, nell’oblast’ di Voronež. Nel 1952 è stato arrestato con l’accusa di aver fatto parte di un’organizzazione giovanile antisovietica di stampo terroristico. Condannato a otto anni di ITL, ha scontato la pena in un Rečlag a Vorkuta. È stato riabilitato. È dottore in scienze biologiche. Vive a Voronež.

Sì, si poteva ricevere visite ma erano molto brevi, circa, circa dieci minuti. Ecco, da un lato c’era una, una reticella; lì stavano i parenti, la mamma, in lacrime, andava lì, all’interno, nello spazio dove c’era la sentinella, intendo, o qualcuno/. Di solito un poliziotto o una sentinella, lì nello spazio gridavo qualcosa anch’io/.

I.O. E non si sentiva niente.

N.N. La mamma piange, è in lacrime, è ovvio cosa le dici, là. Sì, “va tutto bene”, tutto qui, ecco. Là gridi una cosa qualsiasi, tutto qui. Una visita c’è stata.

 

Susanna Pečuro è nata a Mosca nel 1933. È stata arrestata nel 1951 all’età di 17 anni in quanto membro dell’organizzazione giovanile “Unione lotta per la causa della rivoluzione” e condannata a 25 anni di ITL. Ha scontato la pena nei campi di Inta, Abez’, e nella prigione della centrale di Vladimir fino al 1956. Riabilitata, è storica e archivista. Vive a Mosca.

Mi hanno portata davanti alla commissione medica prima del trasferimento. Il medico ha guardato e ha detto: “Allora, dunque, è uno scompenso. Ha un edema polmonare. Eh, dove la manderanno? Come farà ad arrivarci? Chi vive con lei?”. Io dico: “la mamma”. “Dove vive?”. E dopo qualche giorno mi hanno detto: “Senza roba”. E mi hanno portato al colloquio con mia mamma, alla quale avevo detto che andava tutto bene, che ci trattavano bene, tutto perfetto. La mamma non ha pianto, è rimasta lì tutta impietrita.

Una visita di quindici minuti.

 

Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati perseguitati, il padre è stato fucilato nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona di occupazione nell’oblast’ di Doneck. Dopo la liberazione dell’oblast’ da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata da organi dell’NKVD e condannata a 15 anni di lavori forzati. È stata rinchiusa nel campo di Vorkuta per 10 anni e riabilitata. È dottore in Scienze Tecniche. Vive a Mosca.

Sono finita a Vorkuta. Non mi hanno concesso un incontro con mia mamma. Anche questa è una cosa talmente atroce. Quindici anni di lavori forzati. Mamma è venuta in carcere, ma non le hanno permesso di avere nemmeno un incontro di addio con me.

 

Ol’ga Cybul’skaja (Sorokoumova), nata nel 1935 a Frunze, è figlia di perseguitati. Il padre è stato fucilato, la madre ha scontato una pena detentiva nel campo di Akmolinsk per le mogli dei traditori della patria. È ingegnere-chimico. Vive nella città di Korolev, oblast’ di Mosca.

La mamma è tornata, ci avevano cacciati, vivevamo nell’appartamento del direttore a Frunze, ci avevano cacciati nel chiosco. Sedevamo sui fagotti e la mamma ha iniziato la ricerca febbrile di un alloggio da qualche parte. E l’ha trovato in una zona molto, molto periferica di Frunze. Ci ha portato lì, poi lei è andata a far visita a papà. E ha portato tutto quello che riteneva necessario: vestiti di lana, l’orologio e tutto, cioccolato, e quando ha visto papà, lei l’ha guardato e ha visto che esteriormente era molto cambiato. Aveva le dita completamente blu. Evidentemente erano i segni delle torture subite. La mamma gli si è gettata addosso dicendo: “Griša, ti ho portato tutto”, lui dice: “Nadja, e da fumare?”. Lei dice: “Griša, l’ho dimenticato, domani te lo porto”. Ma lui sapeva già che l’indomani l’avrebbero fucilato, era stato avvertito.

 

Nikolaj Nastjukov
In un campo c’era, per esempio questa procedura. Il capo della sezione speciale, per non, diciamo, stare lì a rompersi le scatole, aveva dei moduli già preparati: “Sto bene, non mi serve niente. Spedite il pacco”. Così non doveva controllare ogni lettera scritta dai detenuti, ecco. Doveva controllarla per inviarla poi alla sezione speciale.

 

David Budënnyj
Ufficialmente eravamo autorizzati due volte l’anno. A scrivere lettere, intendo. Ho il modello di quella lettera. Mamma l’ha conservato. Da allora l’ha custodito là. Un modello standard. Vivo, sano e, come si suol dire, ecc. ecc.. Quello che serve. “Spediscimi calze calde e guanti per l’inverno. Ecco. Ho ricevuto il tuo pacchetto”. E basta. Si faceva stare tutto in una paginetta… A parte queste due lettere, ho già detto che ho potuto inviarne attraverso i lavoratori, noi li chiamavamo “liberi”. Liberi. Liberi-dipendenti che lavoravano nella miniera. Di liberi ce n’erano sempre. Brava gente. Dunque, ho scritto due lettere. Ero molto preoccupato. Perché là ero più schietto. Certo, mi sforzavo pure. Era quello che presupponevo perché quella lettera poteva finire da qualche parte. Purché non se ne aggiungessero altri, comunque. Aggiungermi altri 10 anni supplementari. Perché anche loro rischiavano. Perché se li beccavano si prendevano una condanna. Senza alcun dubbio.

Susanna Pečuro
Poi hanno cominciato a inviarmi i pacchi. Anche questo non era semplice. Si ricevevano i pacchi solo in un posto vicino a Mosca. E non dovevano superare un certo peso.

I.O.: 8 chili.

S.P.: Sì. Poi la mamma mi ha raccontato che papà era andato là, era rimasto in fila, di notte, e tutto e, alla fine, sono risultati 8 chili e 200 grammi. Non l’hanno preso e lui ha avuto un attacco di cuore.

David Budënnyj
Ho ricevuto un pacco, tenevo sempre qualcosa da parte per il caposquadra. Non perché gli volessi un gran bene, ma solo perché così si usava.

 

Anna Matljuk (Peca) è nata nel 1927 nel villaggio di Tiškovec, nella regione di Gorodenka, oblast’ di Stanislav. Nel 1944 è stata arrestata con l’accusa di aver fatto parte di un’organizzazione ribelle ucraina e condannata a 10 anni di ITL. Ha scontato la pena partecipando alla costruzione del cantiere n. 501 e dopo la chiusura è stata trasferita nel Osoblag per svolgere lavori edili generici. Riabilitata, ha lavorato come bambinaia negli asili nido. Vive nella città di Pečora, repubblica di Komi.

I pacchetti c’erano anche in Siberia. I pacchetti/. Si scriveva una lettera all’anno, si poteva scrivere solo una lettera. E ricevere un pacch/pacchetto. E rovistavano nel pacchetto; se era arrivato sapevi già che era rimasto poco da mangiare. Avevano già spa/ spazzato via tutto, ovviamente. Le cose più buone se le prendevano. Quando non li aprivamo noi stessi. Li portavano, li aprivano. Già aperta. Non si poteva darlo per… Mi ricordo che l’hanno portato e non c’era già più nulla da mangiare. C’era una specie di grano, ma non somigliava al grano. Forse l’avevano sostituito. Forse qualcuno ne aveva uno buono, mentre quello era cattivo.

 

Aleksej Prjadilov (1927-2011) nel 1943, a sedici anni, è stato arrestato insieme ai compagni di scuola per aver pubblicato la rivista satirica manoscritta “Nalim”. Ha passato 13 anni nei campi e al confino.

L’unica cosa che ho chiesto di mandarmi era lo zucchero. Zucchero. I miei genitori, naturalmente, anche se avevo detto di non portare nulla, che avevo abbastanza roba, naturalmente, mi mandavano sempre dei pacchi, periodicamente. Ma il campo, è il campo.

Infatti, se qualcuno riceveva un pacco lo passavi, altrimenti te lo prendevano. Ecco. E ti andava bene se non ti rompevano il muso.

 

Vjačeslav Rudnickij è nato nel 1930 a Voronež. Arrestato con l’accusa di aver fatto parte dell’organizzazione giovanile “Unione Comunista della gioventù” e condannato a 10 anni di ITL, ha scontato la pena nei campi di lavoro del Kazakistan. È stato riabilitato. È attrezzista meccanico. Vive a Voronež.

Non ci siamo visti per cinque anni. Cinque anni senza, s’immagini, senza corrispondenza, una lettera una volta o due all’anno, in tutto. lei mi scriveva spesso e mi inviava dei pacchi. Di nuovo, se non ci fossero stati quelli, se non fosse stato per i pacchi, non so come sarebbe andata.

Ogni mese lei mi mandava circa tre chili di pancetta affumicata. Mia madre, la mamma me ne mandava, e io ovviamente, ogni mese man/, ricevevo il pacco, e di che pacco si trattava? Era un pezzo di pancetta così, la mangiavi di mattino e durante il cambio, e faceva un freddo tremendo.

 

Rosa Šovkrinskaja è nata nel 1930 in Dagestan. La sorella e il padre sono stati perseguitati, il padre è morto in un campo di lavoro. È maestra elementare. Vive a Machačkala.

Hanno trasferito mio padre. L’hanno trasferito ed ecco l’ultima lettera che abbiamo ricevuto. La mamma ha messo insieme i pacchi, diceva che là c’era lo scorbuto, questo e quest’altro. La mamma ha messo insieme tre pacchi, ha saldato con il ferro i barattoli di miele e tutto. Мa a papà era già arrivata la notifica. I pacchetti arrivavano tre mesi qui, tre mesi là, e rispedivano i pacchetti a noi. Già nei pacchetti precedenti, e c’era anche una lettera là, papà descriveva la natura, che costruivano la ferrovia per le esigenze del nostro paese.

A.K.: Perché i pacchetti tornavano indietro?

R.Š.: Evidentemente era già morto. Io la penso così.

 

Vladimir Kantovskij è nato a Mosca nel 1923. I genitori sono stati perseguitati. Dopo l’arresto dell’insegnante di storia, Vladimir Kantovskij e i suoi amici hanno stampato e inviato alcuni volantini di protesta. Arrestato nel 1941, è stato condannato a 10 anni di ITL. La pena è stata ridotta a cinque anni di servizio militare al fronte in un battaglione di disciplina. È stato ferito nel corso della prima battaglia. Nel 1945 è stato arrestato di nuovo e condannato a sei anni di ITL. Ha scontato la pena a Molotov e Abez’. È stato riabilitato. Fa l’ingegnere. Vive a Mosca.

Ottenere il permesso per una visita, non so quanti permessi del genere concedessero, forse due all’anno per tutto il campo. ecco, una volta ho ottenuto il permesso per una visita.

I.O.: E chi era venuto a trovarla?

V.K.: Mia moglie.

 

Aleksej Prjadilov
Mio padre, mio padre è venuto al campo di lavoro, dal capo del campo. Veniva dal fronte, la guerra l’aveva fatta tutta. Hanno trovato un linguaggio comune, mio padre e il capo del campo: i ricordi e così via, erano simili. Hanno assegnato a mio padre una casetta fuori dalla zona, la casetta del direttore del cantiere. Nessun discorso sul lavoro, abbiamo passato tutta la giornata da soli, in quella casetta. Solo in due, senza nessuno che ci controllasse, là non c’era nessuno. Mio padre ha guardato e ha detto: “Sai, da noi era peggio” (ride). “Perché” dice “abbiamo dovuto bere dalle pozzanghere e c’era come/ da mangiare c’era l’erba dei cavalli e cose così. Quindi, da voi più o meno” (Ride).

 

Vera Jul’evna Chudjakova (Gekker) è nata a Potsdam nel 1922. In quello stesso anno, la famiglia si è trasferita nella Russia sovietica. Nel 1938 il padre è stato fucilato e la madre arrestata. Le sorelle Marsella, Alisa e Vera, studentesse al conservatorio, sono state arrestate nel settembre del ’42 e condannate a 5 anni. Vera ha scontato la pena nei campi di Kirghizistan, Uzbekistan, Siberia e Kazakistan. È un’insegnante di musica. Vive nell’oblast’ di Mosca.

La stazione di quarantena era semplicemente una casetta nella quale noi stavamo per terra, dovevamo rimanere lì per due settimane. Ci hanno portato da mangiare. Abbiamo aspettato. E, in qualche modo, la sera, una delle mie/. Non si faceva nessuna lezione. Erano tutti degli intellettuali. È andata in strada. non si poteva uscire da nessuna parte. Così si stava vicino alle porte. Lei è uscita in strada, poi è tornata e con le dita mi ha fatto segno come per chiamarmi. Io mi alzo, mi avvicino, mi indica di andare in strada, dietro quella casetta. Io sono uscita, ho fatto il giro, mia sorella era lì seduta. Mi aveva trovato. Infatti, ogni volta che veniva a sapere che ci sarebbe stato un trasferimento, andava nella stazione di quarantena a guardare. E ci andava molte volte. Alla fin fine, là mi sono trovata… E lei veniva là ogni volta, nella stazione di quarantena. Ogni sera veniva e io le andavo incontro. Nella baracca le donne avevano scoperto che mia sorella veniva e loro, là, chi un pezzetto di pane, chi qualcos’altro. Glielo davano perché me lo portasse. È stato molto commovente.

 

Jurij Fidel’gol’c è nato nel 1927. È stato arrestato nel 1948 con l’accusa di aver formato un’organizzazione antisovietica. Condannato a 10 anni di ITL, è stato nei campi di Tajšet e della Kolyma. Riabilitato. È ingegnere-costruttore, membro dell’Unione degli scrittori. Vive a Mosca.

E così, improvvisamente, d’estate, mentre stavamo facendo una pausa dal lavoro, improvvisamente mi convocano nella zona di lavoro e mi dicono: “Corri, tua madre ti aspetta nella stazione di guardia”. E io ho corso a più non posso, ero così imbrattato, con le pezze, tutto sporco, sudicio, con questi numeri, sul cappello e sulla schiena, ho corso. Certo, avevo una vaga sensazione, in quel momento. La sentinella, che stava davanti all’entrata della stazione di guardia, mi ha detto: “La conversazione non deve riguardare temi che abbiano a che fare con il campo, né con il reato commesso”. Mi ha spiegato in generale. “Non potete avvicinarvi l’uno all’altra. Se lo fate, interrompo subito la visita e vi separo”. Dunque, mi fanno sedere su una sedia, davanti a me c’è una grata che si apre e si chiude, sa, come la sbarra sui binari, ed entra mia madre. L’ho vista e non mi è venuto nulla da dire, nemmeno a lei. Guardo, sta tremando, le trema il volto, le guance. Poi ha preso il cesto e l’ha spinto là dove c’era lo spazio tra la barriera e il pavimento dicendo: “Mangia” – dice – “ti ho portato qualcosa di delizioso da Mosca”… Poi non ho resistito, ho spostato la grata e mi sono gettato tra le sue braccia, l’ho stretta a me, ma ci hanno separati e la visita è finita. Quando sono uscito l’area era tutta in subbuglio. “La mamma è venuta, la mamma, è venuta a trovarti la mamma!”. E tutti, gli antisemiti, gli abitanti di Bender, tutti, tutti si sono alzati e mi sono venuti incontro e io sono rimasto lì con il cestino. Nessuno ha preso un grammo di quello che c’era lì e nessuno mi ha chiesto nulla. Tutti capivano che l’aveva portato mia madre.

 

Susanna Pečuro
Hanno trasportato Žen’ka all’ospedale dalla miniera. Gli hanno detto: “Ascolta, qui, nella sezione femminile, c’è una ragazza. Una di Mosca”. Lui ha scritto un bigliettino. Oltre la recinzione c’è una fessura nello steccato. È un luogo sacro. È il nostro ufficio postale. Ha consegnato il bigliettino. C’era scritto: “Alla ragazza che viene da Mosca. Chi lo ricevesse, lo consegni”. E mi hanno consegnato il bigliettino che diceva: “Io, così e così. Se non ha paura e mi vuole scrivere, allora lo faccia”. Io ho scritto subito: “Certo che non ho paura. Certo che voglio. Certo. Salve e grazie a Dio”… E abbiamo iniziato a scriverci. Tutte le mattine e tutte le sere Žen’ka è riuscito in qualche modo a infilare un bigliettino. E poi lui/. Innanzi tutto mi scriveva dei versi e poi lui mi/ pretendeva, pretendeva categoricamente che studiassi. Diceva: “Non importa cosa ci aspetta dopo. Siamo ancora esseri umani. Loro vogliono fare di noi degli animali. Non ci riusciranno… Noi non lasceremo che ci riducano come bestie”. E mi dava dei compiti da fare. Io dovevo risolverli e rispedirli. Poi lui scriveva: “Giusto/sbagliato”. Se era sbagliato, che cosa era sbagliato. Mi dava dei temi da scrivere.

Eravamo d’accordo sul fatto che, comunque, dovevamo vederci. E così ci siamo visti al posto di guardia, quando hanno mandato le squadre al lavoro. Ma da molto lontano. Erano tutti uguali. E ci siamo inventati questa cosa. Io ho chiesto di andare nel magazzino. Le donne vengono mandate nel magazzino, di notte. È un magazzino comune. Ho fatto finta di svenire. Lui si era messo d’accordo con un conoscente, un medico prigioniero, per farsi dare il suo camice… Quando sono svenuta, la donna che era con me ha iniziato a gridare: “Chiamate un medico”. Lo chiamano. Arriva lui. È stato il primo incontro. Lui arriva indossando quel camice. Ha detto: “Portatela in strada, fatela sedere sulla panchina. Qui l’aria è soffocante. Là si riprenderà. Ve lo farò sapere quando sarà il momento”. Mi hanno fatto sedere sulla panchina. Abbiamo parlato per una quindicina di minuti, probabilmente, sulla panchina. Poi lui ha detto: “Sospettano qualcosa. Vado a dire che ti senti già meglio”.

 

Marija Sevortjan (Givargizova) è nata nel 1928 a Rostov sul Don. I genitori sono stati perseguitati, il padre è stato deportato, la madre, in quanto ČSIR (Член Семьи Изменника Родины, membro di famiglia di un traditore della Patria), ha scontato una pena detentiva nel campo di Akmolinsk per mogli di traditori della Patria. È regista di film di divulgazione scientifica. Vive a Mosca. Alla fine, ecco, erano quasi sei mesi, con ogni probabilità, forse, erano passati sei mesi da quando era nata tutta quella storia. E alla fine, grazie a Dio, ci hanno dato il permesso di incontrarci. Si poteva andare… Siamo arrivati. Era il 20 di giugno e finalmente siamo arrivati a Žaryk…

Ricordo che c’era una stanza piuttosto grande o, forse, i miei passi erano piccoli.

Sono entrato, siamo entrati, in questa stanza. All’inizio, io sono andato avanti per primo, da qualche parte dietro di me c’era zia Sonja. E così, andiamo. “Allora” – pensiamo – “ancora non sappiamo cosa ci dirà adesso”. E improvvisamente vedo/. Quindi, apro le porte di questa specie di ufficio, dove c’erano delle sedie e una scrivania, e là, vicino alla finestra c’erano/, c’era un uomo, il responsabile, e con lui c’era anche una donna. La schiena era rivolta verso di me. Ho guardato, non c’era nessuno. Dov’è la mamma? Non vedo nessuna mamma… Quella donna si gira e all’improvviso, ecco, un urlo: “Frosečka!”, “Sonečka!”. E loro/, va avanti, verso di lei. Si gettano una nelle braccia dell’altra e subito sono iniziate urla, pianti, tutto. E/, e/, e io lì come una stupida. Non capisco niente. Comunque, dov’è la mamma? Poi mi alzo e improvvisamente vedo, sì, effettivamente è mia mamma. Mia mamma, ma non com’era prima, per niente. Avevo una mamma giovane e bella. Aveva 32,8-36 anni tra l’altro. Allora ne aveva già 38. Se era il ’40, ’41. E improvvisamente, ecco, la guardo e comincio a piangere a dirotto e: “Mamma! Sei così, sei vecchia? Hai i capelli grigi!”. Comincio a parlare con lei. Dice: “Figliola! Ma che sciocchezza, grigi. Li tingerò. Sarò di nuovo giovane. Ma dai. Questa è proprio una sciocchezza! Questo non/”. E io: “No…”. E comincio/. E io/. Beh, è difficile dirlo a parole, perché bisogna essere una ragazzina così stupida. Ahi, ahi, ahi.

Ricordo molto bene la sua reazione. Di quell’uomo. Se ne stava lì a guardare tutta…  la scena, ecco, e le lacrime gli scendevano come grandine. Gli uomini non piangono, si dice. Piangono, anche per le disgrazie altrui piangono… Già [piange].

Testi:
Alena Kozlova
Irina Ostrovskaja (Memorial – Mosca)

Operatore:
Andrej Kupavskij (Mosca)
Viktor Griberman (Riga)
Andrej Kostjanov (Mosca)

Montaggio:
Sebastjan Priess (Memorial – Berlino)
Jorg Sander (Sander Websites – Berlino)

Traduzione: Zeno Gambini

 

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