Voci dalla guerra: Natalija Štepa

Natalija Štepa ha vissuto coi vicini in uno scantinato per 17 giorni prima di riuscire a lasciare Rubižne, dove conduceva un’esistenza tranquilla prima dell’arrivo delle truppe russe. Nella sua intervista descrive a Taras Vyjčuk il terrore di vivere sotto le bombe e l’incredulità verso un’invasione motivata col pretesto di “salvare i russofoni” in assenza di una qualsivoglia persecuzione nella realtà.

Voci dalla guerra. Natalija Štepa, abitante di Rubižne: “Il brutto è quando non muori subito, ma resti storpia”.

Natalija Štepa ha vissuto coi vicini in uno scantinato per 17 giorni prima di riuscire a lasciare Rubižne, dove conduceva un’esistenza tranquilla prima dell’arrivo delle truppe russe. Nella sua intervista descrive a Taras Vyjčuk il terrore di vivere sotto le bombe e l’incredulità verso un’invasione motivata col pretesto di “salvare i russofoni” in assenza di una qualsivoglia persecuzione nella realtà. L’intervista è stata realizzata nell’ambito del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).

Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.

Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.

10.06.2022

Intervista condotta da Taras Vyjčuk

“Il brutto è quando non muori subito, ma resti storpia”: una testimonianza da Rubižne

Natalija Štepa ha lasciato Rubižne il 26 marzo 2022. Si nascondeva insieme ai vicini in una cantina angusta e sguarnita dove ha dormito seduta per 17 giorni.

Foto a mezzo busto di Natalija Štepa
Natalija Štepa, Rubižne

– Sono arrivata qui il 26 marzo da Rubižne, regione di Luhans’k, quando era ancora possibile percorrere il corridoio umanitario dal nostro quartiere, Južnyj. I bombardamenti erano continui, avevamo i nervi a pezzi. Il 26 sono partita e il 28 ero a Skole.

– Com’è arrivata la guerra nella sua vita?

– È stato uno shock. Non riesco ancora a capire e ad accettare come sia potuto succedere. Un paese che attacca il nostro solo perché la pensiamo diversamente e diversamente vogliamo vivere, perché vogliamo una vita migliore, scegliendoci da soli i paesi amici. Perché la Russia deve avere una politica così ostile nei confronti dell’Ucraina? Non capisco. Certo: vogliamo l’autodeterminazione e vogliamo migliorare le nostre condizioni di vita. Per questo ci puniscono in maniera così violenta? Ma che razza di princìpi sono, questi? Mostri! Come hanno potuto distruggere la vita di noi ucraini? Le vittime sono tante. L’esercito russo vuole a tutti i costi la regione di Luhans’k. Nel 2014 non ci erano riusciti, li avevano fermati.

Sjevjerodonets’k, Lysyčans’k, Rubižne, Kreminna, Varvarivka: sono tutti vicini. Quella volta li avevano fermati prima di Sjevjerodonets’k, ma purtroppo una parte del territorio i russi l’avevano comunque occupata. Invece ora, dal 7 marzo, sono tornati. Come l’ho scoperto? La notte del 24 per qualche motivo non riuscivo a prendere sonno, ho acceso la TV e ho scoperto che la Russia aveva dichiarato guerra all’Ucraina.

– Cos’era successo prima che se ne andasse?

– È stato tutto così veloce… Il 7 marzo l’esercito russo ha lanciato un attacco molto violento a Rubižne. Erano arrivati da noi passando da Varvarivka o da qualche altro posto. Noi non avevamo più l’elettricità, eravamo senza luce, gas, acqua. Nella notte tra il 7 e l’8 marzo una bomba ha centrato l’appartamento di mia nipote, ma per fortuna quel giorno erano scesi in cantina e si sono salvati, perché normalmente sarebbero stati in corridoio o in bagno. Il missile ha buttato giù una parete ed è finito in un’altra stanza, e l’onda d’urto ha sventrato l’intero appartamento. Non si sarebbe salvato nessuno. L’onda d’urto ha una forza incredibile, l’abbiamo sentita sulla nostra pelle… Poi loro si sono trasferiti da mia sorella in un altro quartiere, ma iniziavano a bombardare anche lì e anche casa loro andata a fuoco davanti ai loro occhi. Sono finiti nell’ennesimo altro quartiere, ma poi alcune persone hanno dato loro due auto e se ne sono andati. Il nostro quartiere è stato bombardato moltissimo e in gran parte distrutto.

– Durante i combattimenti dove stavate?

– Siamo stati in una cantina per 17 giorni. Io dormivo seduta. Non era attrezzata, c’erano delle stanzette, dei bugigattoli sguarniti, e abbiamo chiesto se potevamo stare lì anche noi. Andavamo a casa nostra solo per dare da mangiare al gatto, due volte sono capitata in mezzo un bombardamento. Correvo e pensavo: ma che corro a fare? Se mi ammazzano, amen. Il brutto è quando non muori subito, ma resti storpia. A certuni le bombe hanno staccato una gamba. E i paramedici hanno portato via i feriti. È dura. Oppure succedeva che una bomba scoppiava vicino a una casa, il vetro andava in frantumi e le ferite si sprecavano. E lì si riusciva almeno a prestare i primi soccorsi.

– Cosa mangiavate durante i bombardamenti?

– All’inizio tostavo il pane per conservarlo. Ancora qualcosa ci portavano, ma poi sono cominciati i bombardamenti e ci hanno detto che il pane non sarebbe più arrivato. Ne avevo preparati due filoni, comunque. Speravo di poter cucinare, ma poi hanno staccato il gas e non c’è stato più modo di farlo. I primi quattro giorni siamo andati avanti a pane tostato e tè. Quando hanno staccato il gas, tutti facevano a gara a portare qualcosa da mangiare. È quando s’è fatto freddo che la gente ha iniziato ad andare via. Ci consegnavano le chiavi e dicevano “Prendetevi tutto quello che c’è in frigo e nella veranda”. Eravamo già a -9°. Freddissimo, davvero. All’inizio preparavamo la zuppa di miglio con le cosce di pollo. Mi svegliavo alle 4, tagliavo le patate, le carote, la cipolla, cuocevo la zuppa, riempivo piatti e scodelle per tutti, e il giorno dopo ci pensava qualcun’altro. Facevamo la pasta, e qualcosa si mangiava. E poi tè e caffè, durante il giorno. Non c’era pane, facevamo le frittelle. Poi hanno ricominciato a portarci pane, scatolette, qualche aiuto umanitario, ma di base si mangiava quello che ci scambiavamo tra di noi.

– È stato difficile lasciare la sua casa?

– Beh, avere una speranza per il futuro e poi perderla è davvero tremendo. Siamo rimasti senza niente, tutti abbiamo sofferto. La casa di mia nipote e di mia sorella maggiore è andata a fuoco insieme a tutto quello che avevano. Come si fa ad andare avanti? Il 24 il nonno di mio genero, Kirill, mi ha proposto di partire, ma io non sapevo che fare. In tanti partivano, ma nei due palazzi con le cantine, eravamo rimasti in tanti. Poi ci ha centrato un missile. I palazzi erano a forma di U, due case in via Chimikiv. la bomba è finita nel cortile e sono saltati tutti i vetri alle finestre. Alcune hanno centrato anche le case. Noi preparavamo da mangiare, e uscivamo tra le 4 e le 5 del mattino. Finché non sparavano troppo, i ragazzi accendevano il fuoco e cucinavamo lì. Preparavamo cibo per tutti, c’era tanta gente nelle cantine. Poi sono tornate le bombe. L’onda d’urto è stata così forte da far saltare via le porte delle cantine, che però hanno retto. Perché se crollava, non è che ti tiravano fuori, da lì sotto. La protezione civile ci portava cibo e aiuti umanitari, ma a un certo punto è toccato scegliere: o il cibo o la vita. Qualcuno sceglieva il cibo, altri no. A un punto non ti importa più di niente. Speri solo che finisca presto. Dicevo a mio figlio: “Chissà se sopravviveremo”. Bombardavano tanto anche di notte… Ma alla fine siamo riusciti ad andarcene. Siamo partiti in 12, lo stesso giorno: nei due palazzi erano rimasti in 5. E nessuno che avrebbe scavato le fosse, ho pensato. E invece no. Hanno seppellito tutti quanti…

Una donna era andata a prendere gli aiuti umanitari e una scheggia l’ha colpita, uccidendola. Il marito l’ha caricata su una carriola e le ha scavato la fossa. Aiutato da qualcuno. Davanti a casa, li seppellivano, perché non c’era modo di andare altrove. È stata una primavera fredda, sempre sui -9, -10 gradi, e i cadaveri erano tutti lì, per strada. Nel nostro quartiere li portavano via, ma altrove in città erano per strada. Io sono partita il 26 marzo, ci hanno portato via i volontari dicendoci che avrebbero presto chiuso i corridoi perché la linea di attacco e di difesa era proprio vicino a noi.

Ci avevano già detto che nel nostro quartiere c’erano i ceceni e che avevano issato la bandiera della Repubblica autoproclamata di Luhans’k, quella russa e quella cecena. Così: cinici, spudorati, a casa nostra a Rubižne.

Per partire il 26 bisognava mettersi in lista. L’ho fatto, il 25, e il 26 ci hanno portato a Novozolotarivka, dove ci hanno dato da mangiare, abbiamo aspettato un po’, con la gente del posto che intanto arrivava a piedi. Ho incontrato un’amica con cui avevo lavorato all’università e le ho chiesto come ci era arrivata, lei, lì. “Hanno raso al suolo tutto”, mi ha risposto. Erano in 9: lei, il marito, i figli, e i nipotini. “Siamo arrivati a piedi da un altro quartiere” mi ha detto, “con i proiettili che fischiavano, fitti come mosche, ma continuavamo a camminare perché dovevamo portare in salvo i bambini”.

Il 26 ci hanno caricato su dei piccoli autobus e mi hanno detto di mettere qualcosa nella borsa per sedermici sopra: non c’erano i sedili. Di solito trasportavano gli aiuti umanitari, quel giorno anche le persone. Ci hanno portato a Novozolotarivka, hanno trovato il diesel e da lì siamo arrivati a Slov’’jans’k. Dove abbiamo aspettato il treno Kramators’k-L’viv. Ci hanno avvertito che per i profughi le cuccette erano gratis. Inizialmente eravamo un sacco di gente, tutti seduti, ma quando siamo partiti siamo riusciti a dormire. Vorrei ringraziare tantissimo le persone che ci hanno accolto qui. Quando sono arrivata avevo i nervi a pezzi. Temevo di impazzire. Non te lo spieghi come può essere che qualcuno decida di distruggere la vita di così tante persone e del tuo paese. Perché lo fa? La mia famiglia di Rubižne è sparsa un po’ dappertutto. Quando ci rivedremo, se ci vedremo? Non lo so. È orribile… Spero che Dio veda la nostra sofferenza e punisca come merita il mostro che ha preso questa decisione. È terrificante… La città è distrutta, è rimasto in piedi solo qualche quartiere. L’80% di Sjevjerodonec’k è distrutto. È una città giovane, costruita nel 1915. Avevamo la fabbrica “Vernice russa” con il borgo dintorno che poi è diventato una città. E avevamo altre aziende, tutte distrutte. Avevamo un lavoro, la nostra vita: hanno distrutto tutto. Quando finirà tutto questo… chissà.

– Qualcuno dei suoi conoscenti è rimasto a Rubižne?

–  Ci sono ancora una mia zia e un pronipote che per qualche motivo non sono voluti partire. Non so che fine abbia fatto mio cugino, anche lui stava lì, vicino alla stazione ferroviaria, e la sua casa è andata a fuoco. Lui era andato dai figli, ma non ne ho saputo più niente. È orribile…

– I russofoni a Rubižne erano perseguitati?

– Mai successo. Abbiamo un’azienda in cui lavoravano professionisti formati presso università russe. Figurarsi se li perseguitavano. Avevano posti di prestigio, vivevano bene.

– Vuole dire qualcosa ai nostri soldati ucraini?

– I ragazzi che ci difendono fanno una fatica tremenda. Tremenda. Fanno il loro dovere per noi, per il nostro paese, per le loro famiglie, e prego Dio che li protegga. Ora so quanto è importante, e auguro loro di stare bene. Di vivere. Perché quando senti una nostra bomba che parte, resti ai fornelli. Se invece senti che sta arrivando, quando senti il sibilo, ma non riesci a capire se è vicino o lontano, fa una paura tremenda. Non lo auguro a nessuno. Mi auguro, invece, che il responsabile di questa terribile tragedia abbia quello che si merita.

 

 

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