Voci dalla guerra: Galina Bulgakova

L’architetta e artista nata in Russia ma residente da moltissimo tempo a Charkiv, Galina Bulgakova, è fuggita col nipote a Leopoli, lasciando tutte le sue opere a Charkiv.

Voci dalla guerra. Galina Bulgakova, architetta e artista di Charkiv: “Ho visto un blindato russo e sono rimasta impietrita”.

L’architetta e artista nata in Russia ma residente da moltissimo tempo a Charkiv, Galina Bulgakova, è fuggita col nipote a Leopoli, lasciando tutte le sue opere a Charkiv. Nella sua testimonianza, raccolta dal giornalista leopolitano Taras Zozulins’kyj, si rivolge alle madri dei militari russi, racconta di come gli amici russi non credano ai suoi resoconti e ripetano i cliché della propaganda. L’intervista è stata realizzata nell’ambito del progetto “Voci dalla guerra”, portato avanti dalla rete di Memorial col Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv (KhPG o “Memorial Ucraina”).

Il video dell’intervista in lingua originale coi sottotitoli in italiano è disponibile nel canale YouTube di Memorial Italia. Riportiamo qui la trascrizione del testo.

Le traduzioni italiane sono a cura di Luisa Doplicher, Sara Polidoro, Claudia Zonghetti.

Taras Zozulins’kyj

31.10.2022

Galina Bulgakova, artista di Charkiv: “Ho visto un blindato russo e sono rimasta impietrita”

 

Foto di Galina Bulgakova
Galina Bulgakova

 

Galina Bulgakova, architetta e artista, ha lasciato tutto a Charkiv, la sua città: l’appartamento, i quadri pronti per una mostra, le rovine delle case che aveva progettato tempo fa nel quartiere Saltivs’kyj. Si è trasferita a Leopoli con suo nipote. Intervista di Taras Zozulins’kyj, giornalista di Leopoli.

— Anche se sono nata in Russia, sul Don, vivo stabilmente in Ucraina da molti anni. Abito a Charkiv da che ho ricordi consapevoli. Mi sono occupata di parecchie cose, ho persino avuto una società per azioni. Ho girato tanti paesi, ma tornavo sempre in Ucraina.

Sono architetta e artista di professione. Ho costruito molte case in Ucraina, o meglio a Charkiv. Soprattutto nel quartiere Saltivs’kyj, che adesso è completamente distrutto. Il progetto che ho presentato come tesi di laurea è stato di un edificio per la stazione di Charkiv: l’albergo-grattacielo che c’è ora, fisicamente, era la mia tesi. Hanno accettato il progetto e lo hanno costruito subito, per davvero. Insomma, non so se il mio contributo alla città di Charkiv sia grande o piccolo, ma è innegabile. E ne vado fiera.

Sono in pensione ormai da tempo. Sono vedova. Mio marito era chirurgo, ma se n’è andato dieci anni fa. L’unico parente rimasto è mio nipote.

— Credeva che la Russia avrebbe lanciato un’aggressione su vasta scala?

— Avevo un presentimento. Me lo sentivo dentro, che sarebbe successo. Quando la guerra è iniziata, mio nipote non voleva crederci. Studia all’Università di Charkiv, è al secondo anno di filosofia, si specializza in culturologia. Ha vent’anni. “Ma quale guerra” ripeteva, “che scemenza!”.

Invece era iniziato già da prima, nel 2014. La minaccia era nell’aria, e per dirla con Svetlana Aleksievič, non aveva un volto di donna.

— Come ha passato il primo giorno di guerra?

— Abito nel centro di Charkiv, proprio accanto al Palazzo del lavoro. A un certo punto ho iniziato a sentire degli scoppi… Ci sono molti ristoranti, da quelle parti, come per esempio il “Panorama”, e facevano spesso i fuochi d’artificio. Ma quel giorno era mattina e ho pensato che fosse un po’ presto per festeggiare. O che, piuttosto, avevano cominciato troppo tardi. Poi ho sentito che non erano fuochi d’artificio. Nel quartiere Saltivs’kyj si sparava già.

Pensavo, però, che sarebbe stata una cosa passeggera. Non era possibile che i nostri fratelli, i russi, ci aggredissero così, di punto in bianco. Cosa gli avevamo fatto?

Siamo rimasti a Charkiv, aspettavamo che la situazione si calmasse, invece non si calmava. Viviamo in centro, in una piccola palazzina, al secondo e ultimo piano. Al piano terra ci sono solo uffici. Viviamo da soli, io e lui [mio nipote].

Non c’è un rifugio antiaereo, l’unica era correre fino al metrò di piazza Costituzione. Ci sono state volte che avremmo voluto andarci ma c’era già il coprifuoco, oppure sparavano per strada. Sentivamo le raffiche di mitra. Non ci saremmo mai arrivati, al metrò… Altre volte ci hanno detto che la stazione era chiusa e non facevano entrare nessuno.

Allora io e mio nipote scendevamo al piano terra, nell’ufficio di un vicino. Ci stendevamo sul pavimento e rimanevamo lì. Era caldo e c’era l’acqua. E lì stavamo fino alla mattina seguente.

— Come sono andati i giorni successivi?

— Sono iniziati bombardamenti intensi, vicinissimi. Quando sono cadute le prime bombe in centro ci hanno proposto di rifugiarci in un paese a quaranta chilometri dalla città. Per arrivarci abbiamo superato vari posti di blocco, dove ci chiedevano la parola d’ordine. Alla fine ci hanno lasciati passare. Siamo rimasti là circa una settimana, vicino al bosco. Ma la situazione era pesante: non c’era cibo ed eravamo in dieci. Ho capito che dovevamo trovare il modo di andarcene, ma eravamo in due senza nessuno che ci aiutasse. Per fortuna c’era gente religiosa, credente, che ci ha riportato a Charkiv, quasi fin sotto casa.

— Ha assistito a crimini compiuti dai militari contro la popolazione civile? Quando ha deciso di lasciare la città definitivamente?

— A Charkiv ho visto che cosa succedeva davvero. Vetrine spaccate, sangue per le strade, saccheggi. Erano entrati persino nelle biblioteche: non si sa a cercare cosa, visto che non c’era cibo. Sentivo sparare, avevo paura. Poi ho visto il mio primo blindato russo: vicino al Nykol’s’kyj, mentre andavo a fare la spesa. È un centro commerciale nuovo, l’avevano aperto l’estate prima. C’era un blindato accanto alla biblioteca Korolenko, non sapevo che fare.

Sono rimasta impietrita. Poi ho capito che dovevo andarmene di lì, e sono tornata indietro. Non sapevo cosa rischiavo: vai a capire cosa gli passava per la testa, a quelli là? Camminavo piano piano e aspettavo che succedesse qualcosa di brutto: per esempio che mi sparassero alla schiena. Perché non sarebbero venuti, se non avessero voluto fare cose del genere. E siccome erano arrivati su un blindato, buone intenzioni non ne avevano.

Sono passata in un negozietto vicino a casa nostra e ho comprato solo lo stretto necessario, perché gli scaffali si stavano già svuotando. Ho preso il pane, un po’ di pasta, i fiammiferi. Poca roba…

Ho visto che il Palazzo del lavoro era distrutto e così pure le vetrine del ristorante “Panorama”. L’ex negozio “Melodia” era stato centrato anche lui.

Abbiamo fatto un salto a casa, le finestre erano aperte. L’onda d’urto delle bombe, vedrai. E subito sono ricominciate le esplosioni. Siamo rimasti una quindicina di minuti, il tempo di prendere il minimo indispensabile: i documenti, un po’ di soldi e l’acqua. Quando sono cominciati i boati forti siamo corsi via.

Non sapevo come arrivare alla stazione. Volevamo andare a Leopoli, avevamo controllato gli orari dei treni. Ci siamo messi a correre zaino in spalla, una borsa con una scorta minima di cibo.

Passavamo accanto alle case, e mentre attraversavamo la strada abbiamo sentito un clacson. L’uomo al volante ci ha offerto un passaggio.

E siamo arrivati alla stazione. Abbiamo perso il primo treno per Ivano-Frankivs’k, ma il secondo andava a Leopoli. Ci siamo messi in fila e siamo saliti; i vagoni erano pieni zeppi, naturalmente. Così siamo arrivati a Leopoli.

In ogni scompartimento c’era una decina di persone, e altra gente seduta nei corridoi. Compresa una vecchietta novantenne, che abbiamo fatto entrare nel nostro scompartimento. Aveva già avuto due infarti… si è seduta con noi. Continuava a chiedere dove stava andando. Era con il figlio, che però era rimasto vicino alle porte del vagone.

Tutte le mie opere, le mie tele, sono rimaste a casa. Erano grandi, lunghe anche qualche metro, e bellissime. Le avevo preparate per una mostra, ma ho dovuto abbandonare tutto. Adesso sono passata alla grafica su fogli A4, la maggior parte l’ho fatta qui.

— Che cosa dicono i suoi conoscenti in Russia?

— Ne conosco alcuni da un sito per artisti. Ho notato che le persone con cui ero in contatto per via del lavoro… Io scrivevo poesie, le illustravo con i miei disegni, e loro creavano la musica: avevamo partecipato a qualche concorso. Eravamo in buoni rapporti. Prima della guerra, però. Quando ho iniziato a raccontare la verità su ciò che succedeva, non mi hanno creduto. Dicevano: “Storie! Non può essere!”.

Una persona di San Pietroburgo mi ha detto: “Perché tutte queste bugie? Io lo so com’è la situazione da voi. Vi state distruggendo da soli. Noi vogliamo liberarvi e basta…”.

Io non voglio essere liberata! Sono già libera. Dico ciò che voglio, posso fare ciò che voglio, esprimere il mio punto di vista, parlare russo. Nessuno ci perseguita. Posso parlare russo e ucraino, e pure inglese, se me lo chiedono.

— A Charkiv c’è ancora qualcuno che conosce? Cosa le raccontano?

— Una mia amica ha visto le bombe, ha visto sparare sulla gente in fila per gli aiuti. Dice che era annichilita, che ha fatto appena in tempo a rifugiarsi in un negozio. Ma c’erano vittime… e gli obitori strapieni. A Charkiv.

Per le strade c’erano cadaveri, sangue…

— Come si sente, dopo tutto quello che ha passato?

… Sono emotivamente a pezzi. Dormo malissimo. Quando mi sono ammalata, all’ospedale di qui mi hanno curato ottimamente. Ho girato due ospedali. Ho fatto il mio ciclo di cure, con tutte le analisi necessarie.

Mio nipote la vive molto male. Ha un carattere difficile. Ha ottimi voti all’università, ormai è al secondo anno, ma dà segni di problemi mentali. A prima vista sembra una persona normale, ma legge la realtà a modo suo. Secondo me ha tratti autistici.

— Secondo lei che cosa succederà adesso?

— Voglio credere che la guerra finirà. E che la verità sull’accaduto arriverà anche a chi si ostina a non crederci. Io non sono un personaggio pubblico, ma ormai ne ho fatto un po’ la mia missione.

Posso dire soltanto che non lo augurerei mai a nessuno… come si dice, neanche al mio peggior nemico…

Credo che [i russi] dovrebbero chiedere ai loro figli di tornare a casa. Per evitare di ritrovarseli dentro a una cassa di zinco. Perché a morire sono i nostri figli…

A una mia amica è nata una nipotina, in un seminterrato. Ho visto le foto, era tutta vestita di rosa. Il rosa porta la pace, dicono.

— Ha qualcosa da dire ai russi?

— È alle madri che vorrei rivolgermi: credetemi, la guerra è la cosa peggiore che ci sia. Puoi perdere la casa, i soldi, le proprietà, i vestiti, il lavoro. O peggio ancora, la vita.

La morte fa sempre paura. È impossibile prepararsi, anche quando si muore per una malattia.

Quando poi è una morte violenta, atroce, ingiusta… Vorrei che anche i loro cuori di madri sentano che anche noi abbiamo un cuore e dei figli. E che la nostra vita può finire all’improvviso.

Nel mio caso, sono stata strappata via dal mio ambiente. Non ho più nulla, niente di niente. Solo mio nipote. Le nostre due vite sono la cosa più importante per me, e voglio proteggerle.

Se domani mi dicessero che la guerra è finita… Mi addormento ogni giorno con questo pensiero: la guerra può finire… Penso che tutto questo sia un incubo, e che deve avere una fine. Mia madre ha fatto la guerra, era infermiera al fronte. Mi diceva sempre: “Galina, la cosa più importante è che in vita tua tu non conosca la guerra”. E invece l’ho conosciuta eccome.

Se mi vedranno e mi sentiranno anche i russi, vorrei che nel loro cuore si risvegliasse il senso di colpa. Perché forse non sanno dove sono i loro figli e che cosa fanno qui. Mentre dovrebbero saperlo.

Opera di grafica di Galina Bulgakova
Opera di Galina Bulgakova

Galina Bulgakova è a Leopoli per far curare suo nipote. Continua a disegnare fogli A4 e piccoli manifesti. Sa che presto vinceremo. Mi chiamo Taras Zozulins’kyj, sono un giornalista di Leopoli, continuiamo la nostra lotta.

 

 

 

 

 

 

Questo materiale è stato preparato dal Gruppo di difesa dei diritti umani di Charkiv nell’ambito dell’iniziativa globale T4P (Tribunale per Putin).


 

 


 

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