“Cattiva memoria” di Marcello Flores

Perché è difficile fare i conti con la storia

Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia di Marcello Flores

Il mulino

 

PECCATI DI MEMORIA
TROPPI STORICI ACCETTANO DI OPERARE COME «ESPERTI AL SERVIZIO DI UNA CAUSA»
Paolo Mieli su Corriere della Sera 7 giugno 2020

Marcello Flores critica in un saggio (il Mulino) il modo in cui si costruiscono identità collettive attraverso l’uso politico del passato. Il tema delle gravi atrocità compiute dai regimi comunisti e ancora adesso alquanto sottovalutate

Troppa enfasi sulla memoria, troppo poca storia. Questi sono stati, negli ultimi decenni, i difetti del nostro modo di guardare al passato. In particolare un eccesso di riguardo nei confronti della cosiddetta «memoria collettiva». Gli storici avrebbero dovuto far argine in qualche modo al dilagare della memoria. Ma non ne sono stati capaci. È l’opinione di Marcello Flores, argomentata in un libro, Cattiva memoria. Perché è difficile fare i conti con la storia, che esce giovedì 11 giugno per il Mulino.

Come è potuto accadere? Per i condizionamenti subiti dalla politica. È abbastanza scontato — sostiene Flores — che l’establishment di un Paese cerchi di costruirne l’identità «utilizzando in proprio — attraverso cerimonie, anniversari, celebrazioni, musei, statue, mausolei, opere letterarie e artistiche, insegnamento della storia nelle scuole — scelte politiche e iniziative pubbliche che riescano a coinvolgere intellettuali ed esperti specializzati». Attenzione, però: «Se la memoria collettiva di una nazione — ma anche di una comunità, di un gruppo etnico o religioso, di un partito — è una ricostruzione del passato in funzione del presente, il ruolo dello storico che si identifica con quella nazione, quella comunità, quel partito, non può essere che quello dell’esperto al servizio di una causa». Non è più uno studioso che si autoimpone un tasso rigoroso di scientificità, diventa l’«esperto al servizio di una causa». Ciò non comporta, prosegue Flores, che «inevitabilmente» le verità storiche vengano adattate alla necessità dell’ideologia. Certo è, però, che quegli «esperti al servizio di una causa» vengono spinti fortemente «a determinare certezze oltreché giudizi coerenti e utili all’identità condivisa». Tutto ciò che non è funzionale a rinforzare le suddette certezze, nonché i «giudizi coerenti e utili all’identità condivisa», verrà abbandonato, per così dire, ai bordi della strada maestra.

Lo storico del Novecento (ma in parte anche quelli del secolo precedente) «ha partecipato attivamente alla manipolazione ideologica e alla strumentalizzazione propagandistica della propria produzione». Quantomeno «ha permesso che ciò accadesse». Sempre più ha voluto presentarsi «come costruttore volenteroso di un’identità collettiva, di una memoria comunitaria cui offriva la legittimazione della propria disciplina e del proprio ruolo accademico». Una costruzione dell’identità che «è insieme un processo politico e culturale». Con «una prevalente direzione dall’alto verso il basso, dal potere verso la società».

Era stata la modernità dell’illuminismo «a ricacciare indietro la memoria e a far crescere la domanda di storia». Il primato della ragione, concede Flores, non cancellava certo né le emozioni né le esperienze individuali. Ma «tendeva a leggerle sotto una visione nuova dominata dalla forza dell’intelletto». A partire da allora, pur in forme diverse e con proposte a volte contraddittorie e contrastate, la storiografia ha conosciuto uno sviluppo crescente, «diventando un elemento cruciale nella formazione dell’identità collettiva delle nazioni e dei popoli». Lo aveva già notato il famoso autore francese Ernest Renan in un celebre discorso del 1882 pubblicato con il titolo Che cosa è una nazione? (Donzelli).

In un altro libro che, secondo Flores, «non è stato accolto con l’attenzione che avrebbe meritato» — Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica (Luiss University Press) — il saggista americano David Rieff ha sostenuto che la memoria collettiva assomiglia, più che alla storia, «a un misto di mito e propaganda» e che la convinzione che rappresenti un «dovere morale» calcola male quanto essa possa essere «fomentatrice e sobillatrice di rabbia, conflitti, violenze». Impossibile che nessuno si sia accorto di quel che ha notato Valentina Pisanty in I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe (Bompiani). E cioè che negli ultimi vent’anni in cui la Shoah «è stata oggetto di capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale», proprio negli anni dal 2000 al 2020 «il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura soprattutto nei Paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggior vigore».

Anche la storia del comunismo è finita stritolata «tra rimozione e demonizzazione». Soprattutto rimozione, tant’è che gli ex comunisti sono tra i principali beneficiari di questo privilegio accordato alla memoria. Flores ricorda la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’europa» che ebbe in Italia un’eco «molto più accesa e polemica che in qualsiasi altro Paese». Emanuele Macaluso, ex dirigente del Pci, la definì «vergognosa» in quanto avrebbe messo sullo stesso piano nazismo e comunismo. Strano, osserva Flores, dal momento che non c’era «una sola parola, neppure un lontano riferimento» che potesse far pensare che quel documento intendesse «equiparare nazismo e comunismo». Si diceva soltanto che il patto Molotov-ribbentrop (agosto 1939) aveva «spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale», ciò che è oggi accettato da quasi tutti gli storici.

Ancor più colpito fu Flores da un appello pubblicato dal «manifesto» il 24 settembre 2019, nel quale si sosteneva che mentre il nazismo nel produrre i suoi orrori non aveva fatto altro che «realizzare i propri programmi», «i regimi comunisti, prima e dopo la guerra, allorquando si macchiarono di gravi e inaccettabili violazioni della democrazia e delle libertà, tradirono gli ideali, i valori e le promesse fatte». La vera colpa del comunismo storico, chiosa Flores, in sostanza non sarebbe stata quella di macchiarsi di «gravi e inaccettabili violazioni della democrazia» («un modo certamente eufemistico», puntualizza lo studioso, «per parlare dei milioni di vittime nel Gulag, delle deportazioni di minoranze etniche, della soppressione fisica delle opposizioni, di processi farsa che costrinsero gli imputati a dichiararsi colpevoli di nefandezze mai compiute»), ma quella «di non aver realizzato le promesse fatte». I firmatari di quell’appello, tutti nomi assai prestigiosi, prosegue Flores, «non si sarebbero mai permessi, in una loro opera, di ridurre la storia dei regimi comunisti» a quel commento «ridicolo e

offensivo (per le vittime oltre che per la verità storica)».

Il fatto è che, pur se «la conoscenza storica del comunismo è ormai ampiamente assodata e approfondita», questo «sembra aver avuto un’incidenza solo limitata nel trasformare la memoria pubblica che del comunismo si ha». In generale «rimangono dei riflessi condizionati che spingono a utilizzare alcuni cliché che vengono ripetuti senza interrogarsi sui loro significati». Che senso ha, si domanda Flores, ricordare — quando si parla delle vittime del Gulag o degli altri crimini commessi dal comunismo — i venti milioni di morti sovietici durante la Seconda guerra mondiale? Molti di loro tra l’altro — e per Flores andrebbe ricordato anche questo — furono uccisi anche per colpa dell’incompetenza e delle «scelte strategiche di Stalin»…

E inoltre: perché assai spesso «quando si evidenzia la ovvia e riconosciuta — per fortuna da parte ormai di tutti — mancanza di libertà e di democrazia, oltre che di una continua logica repressiva intrinseca ai regimi comunisti, si sente il bisogno di sottolineare la maggiore uguaglianza (sociale, culturale) che avrebbe caratterizzato le società comuniste rispetto

Contraddizioni

È difficile giustificare la «doppiezza» che portava il comunismo italiano a lottare per la democrazia e a difendere l’esperienza dell’urss

a quelle democratiche e capitaliste?» Perché tra i «successi» dell’urss in epoca staliniana si continua spesso a ricordare l’industrializzazione accelerata dei primi piani quinquennali, dimenticando che ne era parte integrante anche la catastrofe sociale che l’accompagnò e che avrebbe pesato a lungo sui destini del Paese?».

Flores è stato altresì colpito da un altro commento alla risoluzione del Parlamento europeo, in cui il Gulag veniva paragonato alle vittime dell’industrializzazione capitalistica dell’inghilterra e dell’europa nell’ottocento, considerando quest’ultima un «crimine ben maggiore e condannabile» assai più dell’universo concentrazionario sovietico, «come se i due eventi fossero commensurabili» ed entrambi fossero «il risultato di scelte politiche e ideologiche». Quando la memoria prende il sopravvento, scrive, e dimentica il ruolo di «comprensione» della storia, «è facile cadere nella logica del giudizio, del tribunale, della condanna, favorendo analogie che creano solo confusione nella conoscenza e rimandano a più generali e astratte questioni morali». La minimizzazione o relativizzazione dei

crimini del comunismo fatta ancora oggi «nasce, in realtà, dalla volontà di testimoniare la propria opposizione al mondo capitalista, alle sue profonde ingiustizie e terribili esperienze per masse di persone, cercando per questo di “salvare”, almeno in parte, l’unica esperienza storica che si è concretizzata come un’alternativa radicale e totale al capitalismo».

Si può comprendere che i reduci del Pci e i loro «compagni di strada» non possano «fare a meno di difendere — moralmente e psicologicamente — il proprio passato e l’impegno per una società più giusta, vissuto e profuso sotto le insegne del movimento comunista». Ma resta difficile, sul piano storico, giustificare la «doppiezza» che portava il comunismo italiano a lottare convintamente per la democrazia e a difendere l’esperienza dell’unione Sovietica, in modo totale e acritico fino agli anni Sessanta e poi, con qualche piccola distanza e distinguo, fino agli anni Ottanta». Nelle generazioni più giovani, d’altra parte, l’ossessione per la battaglia contro il «neoliberismo», un termine che è diventato il «punto di riferimento per indicare il disprezzo per qualsiasi posizione o figura politica che la sinistra consideri allontanarsi dal vero “socialismo”», ha teso «a indebolire i risultati della ricerca storica sul comunismo e a far affiorare sempre più frequentemente brandelli di memoria tesi a esaltare la generosità e l’eroismo della lotta anticapitalista lasciando in ombra le strutture totalitarie e le politiche repressive del comunismo». La battaglia sulla memoria del comunismo, conclude, si svolge in sostanza sul terreno della morale assai più che su quello della storia.

Invece è alla storia che dovremmo tornare. È la dimensione storica complessiva, secondo Flores, che dovrebbe alimentare nuovamente la possibilità di uno sguardo comune europeo sul passato. Ma lo stesso, sottolinea, «può e deve valere nell’ambito di singoli Stati e nazioni». Questa dimensione storica complessiva serve a ricollocare le memorie parziali nel contesto globale e a «porre fine al contrasto storia/memoria che può servire solo a chi intende strumentalizzare entrambe in un’ottica di manipolazione della verità o di narrazione utile a fini propagandistici e identitari (cioè per contrapporsi ad altrui identità)».

Aleida Assmann, in Sette modi di dimenticare (il Mulino), sostiene che «la memoria è sempre limitata, perché si riferisce alla prospettiva dell’esperienza di un individuo o di un gruppo». Per collocare qualcosa nella memoria, aggiunge, «occorrono sforzi particolari» e sono sforzi «che pagano» dal momento che la memoria «fonda comunità». Si esercita il ricordo, secondo Assmann, «per appartenere alla comunità e perché nella memoria del gruppo si vorrebbe anche sopravvivere». Dopodiché va detto anche che «senza il dimenticare le cose non funzionerebbero». E qui Flores si richiama a una celebre frase dello scrittore francese Honoré de Balzac: «I ricordi rendono la vita più bella, dimenticare la rende più sopportabile». E si giunge alla rivalutazione dell’oblio come medicamento per gli eccessi della memoria.

 

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Raccolta fondi per i prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa.

Memorial Political Prisoners Support aiuta da tempo in modo autonomo i cittadini ucraini detenuti nelle carceri delle Federazione Russa per ragioni di carattere politico. Al momento la situazione è ulteriormente peggiorata e per questo motivo l’associazione desidera chiedere sostegno anche attraverso la rete dei Memorial europei, promuovendo una campagna di raccolta fondi. Le donazioni saranno destinate alla copertura delle spese legali e alla fornitura di aiuti umanitari. I prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa hanno bisogno di assistenza legale, hanno bisogno di aiuti umanitari, ma soprattutto hanno bisogno di non essere dimenticati. Per maggiori informazioni e per contribuire –> Urgent appeal: help Ukrainian prisoners in Russia – Поддержка политзаключённых. Мемориал. Appello urgente: raccolta fondi per i prigionieri ucraini detenuti nella Federazione Russa. La tragedia dei prigionieri ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa si consuma tra le pressioni degli agenti di sicurezza, condizioni di detenzione disumane, torture e processi già decisi. “In cella non c’erano né acqua, né gabinetto, né brande; dormivamo su tavolacci di legno. Alla latrina comune non ci portavano tutti i giorni, e comunque sempre col tempo contato. Giorno e notte si sentivano le urla dalla stanza delle torture: non c’era modo di tranquillizzarsi o di raccogliere i pensieri. Una volta ho sentito trascinare qualcuno fuori da una cella vicina, poi uno sparo. Le guardie ci dicevano che presto sarebbe toccato anche a noi, che eravamo troppi.” A questo clima di terrore spesso si aggiunge la totale assenza di contatti con i propri cari. La corrispondenza, l’invio di pacchi e le visite – rari momenti di sollievo nella prigionia – sono per molti detenuti ucraini difficilissimi, se non impossibili da ottenere. Trovare e poter pagare un avvocato indipendente, che svolga il proprio lavoro con coscienza, sostenga il suo assistito e ne difenda i diritti, è un’impresa altrettanto ardua. Riusciamo ancora a offrire questo tipo di supporto, ma ora più che mai abbiamo bisogno del vostro aiuto per andare avanti. Per garantire assistenza legale e aiuti umanitari ai cittadini ucraini detenuti nella Federazione Russa per motivi politici servono 38.000 euro. È una cifra considerevole, ma siamo migliaia anche noi che sosteniamo i prigionieri ucraini. In fondo, basterebbe che 3.800 persone donassero 10 euro ciascuna. Questa volta, però, non vi chiediamo solo una donazione. Vi invitiamo a parlare di questa raccolta fondi alle persone di cui vi fidate: amici, familiari, compagni di emigrazione e colleghi. L’appello è disponibile anche in inglese: potete condividerlo anche con chi non parla russo. A chi sono destinati i fondi? A causa degli alti rischi cui sono esposti i prigionieri ucraini nelle carceri della Federazione Russa molte richieste di aiuto ci arrivano in forma anonima. Possiamo condividerne solo alcune, a titolo esemplificativo. Aiuti umanitari Inviamo regolarmente pacchi a decine di ucraini detenuti nelle carceri della Federazione Russa: cibo, medicinali, libri, sigarette, articoli per l’igiene, vestiti, scarpe – beni di uso quotidiano che in carcere diventano inaccessibili. Sergej Gejdt: “Vi scrivo per chiedervi aiuto. Se riusciste a mandarmi qualcosa da mangiare e delle sigarette ve ne sarei immensamente grato. I miei hanno problemi di soldi, mi pare di capire, e neanche io ho modo di chiedere a loro di darmi una mano, non avendo nessuno cui scrivere o che possa informarli che non ho più nulla. Il problema è che con i pochi rubli che avevo sul conto ho ordinato l’indispensabile: quel poco per lavarmi… E per il cibo non mi è rimasto nulla. Qualche compagno, per fortuna, mi dà una mano come può. Grazie infinite per il vostro tempo e per aver letto la mia richiesta.” Janina Akulova, condannata a nove anni di colonia penale a regime ordinario e a una multa di 700.000 rubli, chiede aiuto per un’altra detenuta: “C’è una ragazza qui che ha urgente bisogno d’aiuto, non ha letteralmente nulla. Noi cerchiamo di tenere duro, ma lei è messa davvero male. Dico sul serio: non ha niente di niente, neppure l’essenziale per lavarsi. Le abbiamo dato quello che potevamo, ma… potete ben capire.” Per continuare a spedire pacchi, servono attualmente 3.320 euro. Assistenza legale Non possiamo divulgare l’identità dei prigionieri ucraini che difendiamo legalmente: metteremo a rischio loro e i loro avvocati. Attualmente sono decine gli uomini e le donne – già condannati o in attesa di giudizio – che dipendono dal nostro aiuto. 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Ruslan Sidiki condannato a 29 anni di reclusione.

Il 23 maggio 2025 presso il tribunale militare di guarnigione di Rjazan’ il pubblico ministero Boris Motorin ha chiesto per Ruslan Sidiki una condanna a trent’anni di reclusione. Di Ruslan Sidiki, 36 anni e doppia cittadinanza, russa e italiana, abbiamo già avuto modo di parlare. Dopo di lui ha preso la parola Igor’ Popovskij, l’avvocato di Sidiki. Il difensore ha spiegato nel dettaglio perché la versione dell’accusa non corrisponde ai fatti e, perciò, a verità. Nei casi in esame la definizione giuridica delle azioni del suo assistito non può rientrare negli articoli riguardanti il “terrorismo”. Quanto da lui compiuto può far capo, piuttosto, alla categoria “sabotaggio”. In due punti, a sostenere le accuse di terrorismo sono le invenzioni degli inquirenti e le deposizioni estorte sotto tortura. L’avvocato Popovskij ha infine ricordato che, in base alla Convenzione di Ginevra e a quanto da essa affermato “in data 12 agosto 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra”, Ruslan Sidiki andrebbe considerato come tale. L’anarchico Ruslan Sidiki è stato alla fine condannato a 29 anni di carcere. Si tratta della pena più severa mai inflitta per azioni contro infrastrutture militari e, in genere, per azioni che non hanno causato vittime. È l’ennesimo atto intimidatorio contro i dissidenti. Riportiamo in italiano il testo dell’ultima dichiarazione pronunciata da Ruslan Sidiki prima della lettura della sentenza. Mi rincresce che le mie azioni abbiano messo in pericolo Bogatyrëv*, Tarabuchin** e Unšakov***. Non erano loro il mio obiettivo e sono lieto che la loro salute non abbia subito danni gravi. Il mio obiettivo erano i mezzi militari russi e gli anelli della logistica militare per il trasporto di mezzi e carburante. Era il modo che avevo scelto per ostacolare le operazioni militari contro l’Ucraina. Naturalmente la notizia di un’esplosione e il clamore suscitato possono spaventare le persone. Lo stesso vale per i missili che sorvolano le case e per le prime operazioni militari: anche loro hanno lo scopo di intimidire la popolazione del Paese contro cui tali azioni sono dirette. Come ho già ampiamente ripetuto, non era mia intenzione intimidire nessuno. Ho scelto io gli obiettivi: ho attaccato la base aerea militare con l’intento di distruggerne i velivoli. Ho fatto saltare il treno per mettere fuori uso la linea ferroviaria su cui avevo individuato un discreto movimento di mezzi militari. Vorrei che fosse chiaro che ho studiato attentamente il movimento dei treni sulla linea che ho fatto saltare per assicurarmi che non ci fossero treni passeggeri. Per maggiore sicurezza, ho controllato visivamente il tutto prima dell’esplosione. Se non mi importasse della vita altrui, avrei potuto far deragliare il treno senza un mio intervento diretto. Non ho avuto nulla a che fare con chi ha tentato di fabbricare, poi, un nuovo ordigno esplosivo per far deragliare un altro treno. L’esplosione dell’11 novembre 2023 aveva già suscitato molto clamore ed ero perfettamente consapevole che le misure di sicurezza sarebbero state rafforzate. Inoltre, avevo già la morte di mia nonna a cui pensare. Con la popolazione russa ho rapporti neutrali. Dal 2014 ho con loro alcune divergenze su certi fatti, ma non è, per me, un motivo sufficiente per odiare qualcuno. L’impossibilità di influenzare pacificamente le azioni di chi ci governa, così come il tribunale che attende coloro che non condividono la politica dello Stato inducono alcuni a lasciare il Paese e altri a restare e a passare all’azione. Indipendentemente dalla gravità del reato, l’uso della tortura durante gli interrogatori è inaccettabile in qualunque caso, se diciamo di vivere in uno Stato di diritto. Torturare con scariche elettriche e picchiare una persona legata sono atti riprovevoli in massimo grado, la cui responsabilità ricade non solo su chi ha applicato metodi in questione, ma anche su chi è consapevole che essi vengono usati, non li contrasta e, anzi, è complice nel tenerli nascosti. Concludo recitandovi un frammento di una poesia di Nestor Machno: Che ci seppelliscano anche subito: ciò che davvero siamo non diverrà Oblio, risorgerà al momento dovuto e vincerà. Ne sono certo, io. * Aleksandr Ivanovič Bogatyrëv, camionista presso la Avargard s.r.l.. Il 23/07/2023 trasportava erba falciata da un campo vicino al villaggio di Tjuševo, regione di Rjazan’. Uscendo su una strada sterrata vicino al campo, centrò con una ruota un drone esplosivo. Che scoppiò. Bogatyrëv non rimase ferito. ** Sergej Aleksandrovič Tarabuchin, assistente macchinista dello stesso treno. A seguito dello scoppio del finestrino, ha riportato graffi al viso e a un braccio. *** Dmitrij Nikolaevič Unšakov, macchinista del treno merci n. 2018, che l’11 novembre 2023 era ripartito dalla stazione di Rybnaja. Si trovava nella cabina di guida al momento dell’esplosione sui binari. A seguito dell’esplosione ha riportato escoriazioni alla mano.

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Milano, 8 giugno 2025. “I confini dell’impero di Putin” con Oleg Orlov.

Grazie a Radio Popolare siamo onorati e felici di ospitare a Milano Oleg Orlov, cofondatore di Memorial ed ex copresidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial. In copertina: Oleg Orlov durante la lettura della sentenza presso il tribunale distrettuale Golovinskij di Mosca. Foto: Svetlana Vidanova / Novaja Gazeta. In occasione della festa di Radio Popolare All you need is love che si svolge a Milano nell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini (via Ippocrate 47) domenica 8 giugno alle 15:30 Oleg Orlov parteciperà all’incontro I confini dell’impero di Putin con Anna Zafesova, giornalista e scrittrice, autrice del recente volume Russia. L’impero che non sa morire, e Lia Quartapelle, vicepresidente della Commissione affari esteri e comunitari della Camera dei deputati. Modera Michele Migone di Radio Popolare. Oleg Orlov è stato scarcerato dal centro di detenzione preventiva SIZO-2 di Syzran’ nella regione di Samara il 1 agosto 2024 nel contesto di un ampio scambio di prigionieri politici tra Russia e Occidente. Il 27 febbraio 2024 Oleg Orlov, copresidente del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial e membro della neoricostituita Associazione Internazionale Memorial, era stato condannato a due anni e mezzo di reclusione in colonia penale a regime ordinario in base all’articolo del codice penale della Federazione Russa che punisce il “vilipendio reiterato delle forze armate”. Orlov è diventato un obiettivo della repressione dopo la pubblicazione dell’articolo Volevano il fascismo in Russia e l’hanno ottenuto. Ricordiamo che nel 2014 l’allora Centro per i diritti diritti umani Memorial e poi nel 2016 Memorial International erano stati dichiarati agenti stranieri e che nel 2021 entrambe le associazioni sono state chiuse in via definitiva con sentenza della Corte suprema della Federazione Russa secondo la quale Memorial avrebbe “diffuso un’immagine falsa dell’Urss come Stato terrorista”. Chi è Oleg Petrovič Orlov? Carattere schivo ma deciso, Oleg Petrovič Orlov è una delle anime del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, nonché membro del Movimento democratico unitario Solidarnost’. Nato a Mosca nel 1953 e biologo di formazione, tra la fine degli anni Settanta e i primissimi anni Ottanta, mentre lavora all’Istituto di fisiologia vegetale dell’Accademia delle scienze, stampa e diffonde volantini con appelli contro la guerra in Afghanistan e riflessioni sulla situazione polacca e sul sindacato Solidarność. Nel 1988 entra formalmente nel gruppo di iniziativa della nascente associazione Memorial di cui diventa di fatto uno dei fondatori. Continua a leggere. “Ci sono momenti in cui è impossibile tacere”Il documentario Ritorno alle repressioni. Oleg Orlov, pubblicato il 22 aprile 2023, fa parte del progetto Priznaki žizni (Segni di vita) di Radio Free Europe / Radio Liberty. In una lunga intervista, a più di trent’anni di distanza dalla fondazione di Memorial, Orlov ammette che le speranze di allora non si sono concretizzate. La Russia è tornata a una situazione di illibertà ancora più grave di quella della sua gioventù, vissuta negli ultimi anni dell’Urss di Brežnev. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il giro di vite del Cremlino all’interno della Federazione Russa è stato violento. In base ai nuovi articoli di legge sulle fake news e sul vilipendio delle forze armate, le pene detentive per diffusione di informazioni indipendenti sulla guerra sono diventate abnormi. Orlov ritiene che le ragioni del ritorno della Russia a una situazione di illibertà siano il militarismo e il mito dell’impero, l’idea che lo stato sia più importante della vita e dei diritti dei cittadini.

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