Gli ultimi testimoni. Intervista

Jurij  Fidel’gol’c ricorda: La mia vita nel campo Jurij L’vovič Fidel’gol’c è stato arrestato nel 1948 con l’accusa di aver creato un’organizzazione antisovietica. Condannato a 10 anni di lavori forzati, ha scontato la pena nei campi speciali di Tajšet e della Kolyma. È stato liberato per malattia nel 1954. Trasferimento Quando è terminata l’istruttoria. Dimurin ha detto: “Lo sa che si è cacciato in un guaio, insomma non starò a dirle quanto la faccenda sia seria, ma tenga presente che lei deve assolutamente tornare. E indubbiamente il campo non la deve spaventare, perché là lavorerà, non si disperi”. Ed ecco, infine, il trasferimento. Mi trovavo in un vagone da qualche parte alla periferia di Mosca, mi ci portò un corvo nero (auto utilizzata per il trasporto dei detenuti, n.d.t.). Fino al vagone Stolypin. Mi hanno messo nel vagone, che era un vagone proprio a parte, staccato dal convoglio. In seguito l’hanno attaccato al convoglio, ma la finestra del vagone Stolypin era tutta sbarrata e non si vedeva nulla. Quando il treno è passato vicino a Sverdlovsk (l’odierna Yekaterinburg, n.d.t.), insomma, attraverso il fumo nebbioso, ecco infinite torri, recinzioni, recinzioni, recinzioni, recinzioni e torri, torri, torri – una distesa enorme. Ho pensato: “Che cos’è?” Secondo me, che ero ignaro, si trattava forse di una struttura militare, qualcosa di segreto. Quando ne parlai con i miei compagni di viaggio, e con uno che era già esperto, lui ha detto: “Stupidone, sono dei campi, i campi attorno a Sverdlovsk sono tantissimi, una zona dietro l’altra”. Ecco, mi ha spiegato. Quindi ho pensato: “O Signore, è mai possibile una cosa del genere nel nostro Paese? Proprio degli spazi immensi occupati interamente da queste torri e dal filo spinato, destinati al popolo!”. Poi per il trasferimento ci hanno fatto scendere a Sverdlovsk. Dalla zona di trasferimento ci hanno portato via con dei furgoni, fino a una zona periferica della città, e là era già stato organizzato il trasferimento nei vagoni riscaldati. Questi vagoni erano forniti di stufe. Al centro del vagone c’era la stufa e la legna e poi i tavolacci. Ecco. Sui due lati del vagone. Ognuno si sceglieva il proprio posto, ecco come ci sistemavano, intanto si muoveva il convoglio e in questi vagoni andavamo avanti. In ogni carrozza c’erano circa 30/40 persone. Ci davano da mangiare principalmente aringhe e fiocchi d’avena, che con un mestolo prendevano da una botte, e dell’acqua calda. Lo zucchero ce lo davano a zollette, questo me lo ricordo. La scorta era spietata, dando per scontato che eravamo tutti fascisti. Ci chiamavano fascisti, anche gli inservienti ci chiamavano fascisti. Ecco i fascisti, indipendentemente da chi si ha di fronte, un trockista, un seguace di Bucharin, uno di Vlasov, o altro ancora. Fascisti e basta, tutti fascisti, tutti antisovietici, fascisti. Ozerlag – campo nella regione di Irkutsk Ci hanno fatto scendere a Tajšet, sulla linea Tajšet – Bratsk. Era inverno e subito ci siamo trovati in cumuli di neve, dai vagoni direttamente ci siamo ritrovati tra la neve. Il campo era già sistemato, era un vecchio e brutto campo, costruito dai prigionieri di guerra giapponesi ed era pieno di rifiuti. Non c’erano dei mucchi di legna, derivanti dalle strutture abitative di legno, ma delle specie di residui di tavole di legno, c’erano delle baracche staccate, in cui c’erano fessure della dimensione del palmo di una mano. Quando al mattino ci svegliavamo, alcuni/ Ad esempio, io in particolare dormivo in queste baracche vestito e con il cappello che mi copriva le orecchie, me lo infilavo ben bene, per non far gelare il capo, perché le fessure nei muri facevano entrare l’aria gelida. Ogni tanto mi svegliavo e si era formata una crosta di ghiaccio tra il cappello e la fessura, e non potevo muovere la testa. Quindi sfilavo la testa dal cappello e lo tiravo per farlo staccare. Tutti i miei vestiti erano logori, avevo un abito di terza mano, toppe su toppe, sporco, sia la giacca imbottita, che la maglietta e il maglione. Si tratta di qualcosa di insopportabile. Avevo delle specie di calzature, che mi tagliavano i piedi, della fabbrica di trattori di Čeljabinsk. In pratica mi ero già trasformato in una specie di animale. Ci hanno assegnato un numero e ci hanno detto: “Non siete in un campo comune, siete tutti condannati per l’articolo 58, siete in un campo di regime particolarmente duro, l’Ozerlag, indosserete sempre il vostro numero, vi muoverete solo con la divisa fornita, se infrangerete le regole e ve ne andrete in giro con altri abiti, vi puniremo ancora, anche con la cella di rigore”. Ecco. Possono anche dare l’articolo 58-14 per sabotaggio. Mi hanno mandato alla sistemazione della ferrovia. Là c’era bisogno di fare di tutto: ho portato le traversine, uno sforzo terribile, un lavoro straziante, trascinavo i binari, coprivo la massicciata con zolle di terra. Il lavoro era molto pesante non perché fosse difficile, ma perché c’era molto da fare, cioè bisognava raggiungere norme di lavoro così sbilanciate, che in due-tre giorni non si riusciva a fare quello che si doveva fare in qualche ora. Berlag – il campo costiero della Kolyma Ci hanno mandato, tutti quelli che c’erano, circa 30/40 persone in quel furgone di detenuti, ci hanno mandato nei luoghi remoti della Kolyma, sotto scorta. Là c’era un campo enorme, all’incirca a 600 chilometri da Magadan. Stavano costruendo una centrale elettrica, a giudicare da quanto si vedeva. Erano in corso lavori di sterro, per estirpare dei ceppi e quindi scavare vicino al fiume. Per quale motivo, non lo so. Forse volevano realizzare una diga. In ogni caso, mi costringevano a scavare anche a mano. Insomma, immaginatevi cosa significa scavare a mano con 50 gradi sotto lo zero, graffiare la terra con un piccolo piccone. E si doveva farlo, si doveva realizzare la norma, bisognava fare 10 buchi al giorno, ognuno doveva avere una profondità non inferiore a 60-70 cm. Nei territori coperti dal permafrost è un compito terribile. In generale, non ero utile in niente e hanno deciso di… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

Gli ultimi testimoni. Intervista

Jurij  Fidel’gol’c ricorda: Mi sentivo un uomo sovietico Jurij Fidel’gol’c è stato arrestato nel 1948 con l’accusa di propaganda antisovietica, di agitazione e attività controrivoluzionaria organizzata. È stato condannato a 10 anni di ITL (Ispravitel’no-Trudovoj Lager’, Campo di Lavoro Correzionale). Ingegnere edile. Attualmente vive a Mosca. ————— Sono nato nel 1927 a Mosca. Secondo le concezioni sovietiche la mia famiglia era perfettamente normale, lontana dalla politica. Mi sono iscritto, dopo la scuola di base, al corso di preparazione per entrare all’Istituto dell’Acciaio. Proprio là ho conosciuto i miei futuri complici: Sokolov Valentin e Boris Levjatov. Ci sembrava che forse qui da noi qualcosa non andasse proprio per il verso giusto. Parlavamo in base alle nostre opinioni e ciò sfociava in discussioni del tutto puerili, da ragazzi. Ci sembra di avere un’ideologia fantastica, l’ideologia del comunismo, ma non viviamo particolarmente bene. In base ai migliori esempi della letteratura russa sapevamo bene che la nostra letteratura si è sempre distinta per la libertà di pensiero, cominciando dai tempi di Puškin per finire con le opere del “Secolo d’Argento”. E all’improvviso ecco questi limiti, questa censura feroce. Tutto ciò ci sembrava strano e nei nostri discorsi certamente ammettevamo l’un l’altro questa stessa critica. In particolare io scrivevo appunti, poi gli stessi sono stati presentati dai giudici in qualità di accusa, come indizio della mia condotta antisovietica. In seguito il mio destino è andato così: mi sono scritto ad una scuola professionale teatrale, mentre Boris Levjatov e Sokolov sono entrati nell’esercito. Studiavo e mi sentivo un bravo uomo sovietico e, all’improvviso, mi si avvicina un’auto mentre tornavo dagli studi. “Fidel’gol’c?” “Si, Fidel’gol’c”. “Venga con noi”. E mi accompagnano, chissà perché in auto, in via Kropotkinskaja, all’ufficio del controspionaggio. Solo in seguito ho scoperto che si trattava dell’ufficio del controspionaggio. Fino a quel momento il tenente che mi accompagnava semplicemente mi aveva detto: “Non si preoccupi, sapremo qualcosa da lei e la lasceremo andare. Dobbiamo solo sapere qualcosa, a riguardo di alcune cose”. Ecco tutto. Mi hanno portato nell’ufficio del procuratore al primo piano ed è iniziato l’interrogatorio. Ha cominciato subito a rivolgersi a me con parolacce terribili e ingiuriose, con un tono così umiliante che offendeva la mia dignità umana. Gli rispondevo in un modo che non gli piaceva troppo, non gli piacevano le mie risposte. Ma cosa mai potevo rispondere altrimenti? Che cosa mi ricordo? Mi sono già dimenticato tutto, anche se potessi ricordare qualcosa. Ed ero completamente impegnato con tutt’altre questioni: questioni di arte, a teatro, quali ruoli studiare e così via. E del fatto che una volta avevo tenuto certi discorsi con Boris e Sokolov mi ero completamente dimenticato. Quel villano di Maksimov, il secondo procuratore, aveva già in mano due miei quaderni su cui avevo scritto degli appunti. Li riconobbi subito. Agitava quei quaderni per nulla particolari, con copertina nera, di tela di cotone. Proprio in quei quaderni c’erano i miei appunti, di quando tenevo un diario, cosa che poi ho smesso di fare, e stavano in casa mia. Nessuno si ricordava di quei quaderni. Io stesso li avevo dimenticati. Semplicemente stavano da qualche parte e basta. E lui iniziava ad agitarmeli davanti e diceva: “Ecco! Ecco ciò che tu stesso hai scritto. Ora noi sappiamo già di cosa ti occupi. Veleno terribile, antisovietico. Ecco Zoščenko, Achmatova!” E iniziava a leggere le mie frasi. “Bene. Adesso non ti potrai più sottrarre. Ora apriamo un fascicolo nei tuoi confronti”. Quindi hanno redatto un atto e, senza pensarci troppo, mi hanno messo in un furgone militare e portato in prigione, la prigione di Butyrka. Mi accompagnavano due guardie e tra loro parlavano così: “Chi trasportiamo?” “Una spia, probabilmente, o un antisovietico, non fa differenza!” “Cosa pensi, vivrà a lungo?” “No, con loro non perdono troppo tempo. Li fanno fuori e basta”. Ecco, in mia presenza facevano questi discorsi. Quando mi hanno portato alla prigione di Butyrka, si sono aperte, come in una conchiglia, delle porte pesanti e cupe e già sentivo che la conchiglia si chiudeva dietro di me, come dietro a un verme capitato nella conchiglia stessa. Là i militari di scorta mi hanno consegnato nelle mani delle camice celesti. Il personale a quel tempo laggiù aveva chissà perché quelle divise celesti. Il posto dove sono stato accolto si chiamava “Stazione”, lì accoglievano anche quelli che poi da quel luogo andavano al processo, tutto avveniva alla “Stazione”. C’erano lì tante piccole celle, dove per prima cosa mi hanno rinchiuso. In ognuna c’erano 5-6 persone. Tutte erano fatte di mattonelle smaltate, fino in alto. Quando mi hanno mandato in una di queste celle, ho visto su una mattonella una scritta graffiata a mano: “Compagno, credi, si alzerà” e ho pensato: “Sì, sono un decabrista. Significa che il Paese riceve un nuovo decabrista, oltre a colui che ha scritto sulla mattonella”. Poi mi hanno spostato in una cella singola; si distingueva da quelle comuni per il fatto di potersi solo sedere e alzare. Non mi ricordo quanto tempo passai in questa cella, ogni tanto mi portavano fuori per i bisogni personali. Davano anche del cibo in una scodella. Tuttavia, mi ricordo che non mangiavo nulla, non volevo nulla, bevevo e basta. Mi si stavano già affievolendo anche i sensi, poiché i dolori erano insopportabili, visto che là dentro mi irrigidivo.   In seguito sono cambiate le guardie che mi accompagnavano, secondo me un vecchietto mi accompagnava, anche lui in uniforme celeste, al laboratorio. Mi hanno preso le impronte digitali, spalmandomi le dita con l’inchiostro e facendomele poi premere. Nello stesso tempo mi schiacciavano loro stessi le dita, premendo con una mano su ogni dito. Quindi mi hanno fotografato, in varie posizioni. Ho capito che ero davvero finito male quando hanno iniziato a trattarmi in questo modo. Mi portavano attraverso dei passaggi della prigione di Butyrka, dove c’è un’enorme quantità di passaggi e corridoi tra una scala e l’altra, tutte le scale sono unite in una stessa rete; inoltre le guardie che si incontrano camminano con altre persone e sulla loro fibbia tintinnano… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

Gli ultimi testimoni. Intervista

Susanna Pečuro: “Volevamo parlare liberamente” Susanna Solomonovna Pečuro è nata a Mosca nel 1933. Negli ultimi anni di scuola ha aderito all’organizzazione giovanile clandestina “Unione lotta per la causa della rivoluzione”. Nel gennaio del 1951 tutti i membri dell’organizzazione sono stati arrestati. Tre persone – Boris Sluckij, Vladilen Furman e Evgenij Gurevič – sono state condannate alla fucilazione, gli altri a varie pene detentive da scontare in carcere o in un campo di lavoro. Susanna, diciassettenne, è stata condannata a 25 anni di campo di lavoro correzionale che ha scontato, passando attraverso vari istituti di pena, a Inta, Abez’ e Pot’ma. Nel 1956 il caso Pečuro è stato riesaminato, la condanna è stata diminuita a 5 anni e nel 1956 Susanna Pečuro è stata liberata. Terminato l’istituto storico-archivistico di Mosca, ha lavorato nell’archivio storico dell’istituto dell’Africa. Da molti anni fa parte dell’associazione “Memorial”. Vive a Mosca. ————— Mi chiamo Susanna Solomonovna Pečuro. Questo è il mio cognome da nubile, non l’ho mai cambiato. La scuola era tutta la mia vita. Devo dire che sono sempre stata una persona molto impegnata. Ci rispettavamo e rispettavamo anche gli insegnanti. Per questo ci impegnavamo davvero nello studio. Ci interessava. Non c’era la televisione, non c’era nulla. I libri/, per molto tempo non ci sono stati; i libri, in genere, erano molto difficili da trovare. Poi, nell’edificio di fronte al teatro Vachtangov, hanno aperto una biblioteca per l’infanzia. La fila arrivava fino in fondo. Tutti i bambini del quartiere accorrevano. E quando a qualcuno di noi capitava di trovare un bel libro ce lo passavamo, finché i bibliotecari capivano che girava sempre nella stessa scuola. Chiamavamo la nostra scuola democratica, perché vi erano ammessi… Inoltre, allora si portavano le divise scolastiche e molte famiglie non avevano la possibilità di comprarle per i propri figli e, in genere, di mandarli a scuola. Allora l’abbiamo fatto noi. Avevamo un consiglio scolastico e anche la Casa dei Pionieri, oltre a tutto il resto. C’era anche un circolo letterario. Molto buono, molto/. L’insegnamento era scarso, ma noi insegnavamo l’uno all’altro. La cosa più importante è che eravamo tutti insieme, eravamo molto amici, ci volevamo molto bene. Però l’educatrice/, la nostra direttrice è stata una di quelli che ci ha denunciato. Abbiamo detto che ne avevamo abbastanza e abbiamo cominciato a prendere iniziative. Così è nata la nostra organizzazione. Volevamo parlare liberamente di quello che ci riguardava, in generale, di ciò che stava accadendo nel paese. Perché, comunque, sapevamo del cosmopolitismo. Sapevamo della nuova ondata repressiva. Vivevamo tra la gente. Siamo andati da Boris non solo perché viveva solo, ma anche perché era molto istruito per uno della sua età. Leggeva molto. Conosceva molto bene il marxismo, per esempio. Leggeva di tutto con facilità. Alla fine è risultato che, più che di qualsiasi studio, parlavamo della vita. Parlavamo del fatto che, ecco, comunque, avevamo tutti letto Lenin. “Stato e rivoluzione” era il nostro vademecum. È successo che i principi leninisti non coincidevano per niente con i principi di “Stato e rivoluzione”, che tutto era stato travisato, che non era affatto così. E poi? Poi abbiamo letto “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” e così via. Tutte quelle cose. Allora, per la prima volta, Boris ha detto che tutto ciò somigliava al bonapartismo. E poi abbiamo parlato, beh, di cose come, per esempio, la vita nelle campagne. Cosa avesse significato l’ondata repressiva degli anni passati. Cosa volesse dire politica nazionale, così come appariva a noi. La deportazione e tutto il resto. La collettivizzazione. Della collettivizzazione sapevamo poco. Io l’ho scoperta dopo, nei campi. I miei erano andati a dormire. Tutta la mia famiglia. Io ero seduta in un angolo, come sempre. Avevamo un tavolo e nell’angolo c’era un bauletto che conteneva tutti i miei libri, i quaderni e altro. Sedevo sempre su questo bauletto, studiavo qui, in quest’angolo. Ho iniziato a leggere e a fare il riassunto di un articolo di Lenin sugli Stati uniti d’Europa. Improvvisamente suonano alla porta. Si sentiva uno scalpiccio, delle voci sguaiate. Sono andati in giro per le stanze e ogni famiglia pensava che fossero lì per loro. Per ultimi sono venuti da noi. Hanno detto a tutti di non uscire dall’appartamento. Sono venuti da noi. Il capo si è avvicinato a me, si chiamava Blinov. Nikitin/, Skorochodov, Blinov e Nikitin. Tre persone. Mi mettono davanti il mandato. “Firmi”. Il mandato di perquisizione e di arresto. Lui mi ha coperto con il suo corpo, perché c’era quell’angolino. E dico, firmo e dico: “Dite ai miei genitori che è solo una perquisizione. Non dite dell’arresto. Li avvertirò io”. Lui si scosta e dice: “Tu lo capi/, lo sai?”. E io: “Lo so”. Non ha detto loro dell’arresto, ha detto che si trattava di una perquisizione. La perquisizione è iniziata. Hanno fatto alzare tutti, anche il mio fratellino di quattro anni. Si sono alzati. Mio fratello piangeva in braccio a mia madre, batteva i pugni e gridava: “Manda via i signori”. Mia mamma gli ha tappato la bocca, piangeva… La perquisizione è andata avanti fin quasi le quattro di notte. Si sono portati via chissà cosa… Narrativa che, per qualche motivo, chissà che cosa doveva sembrare. Ma più di tutto, a loro interessava il libro di Reed “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”. “A-a-a!”. E uno dice all’altro: “Guarda, un inglese, e ha scritto su Trockij”. Io dico: “Un americano”. “Ha scitto di Trockij e lei l’ha letto”. Allora io: “Guardate di chi è la prefazione”. Guarda e dice: “Ah, Krupskaja. Ma davvero? Beh, porta via”. L’ha messo nel sacco. Hanno preso una copia del programma, ma io ne avevo due. Per una posso anche mentire, ma due? La seconda era là, dove c’erano i libri. Nel bauletto. Cominciano a rovistare nel bauletto, tra libri e quaderni, e io inizio a strillare: “Cosa fate? Domani devo andare a scuola! Ho un compito in classe! Cosa fate con i libri? Rovinate le copertine…” e così via. Prendo le cose che hanno già controllato e le ripongo… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

Gli ultimi testimoni. Intervista

Racconti sulla dekulakizzazione I loro genitori erano normali contadini russi. Vivevano in grandi famiglie, con molti bambini, nelle quali tutti lavoravano dalla mattina alla sera. Ma quando L’URSSha iniziato ad istituire i kolchoz, quei contadini sono stati definiti kulaki e insieme alle loro famiglie sono stati deportati nel nord o in Siberia. Ecco cosa raccontano. Anochina Ekaterina Gavrilovna, nata nel 1923. È stata deportata all’età di dieci anni insieme alla famiglia, composta di kulaki espropriati, nel nord, dove i suoi genitori sono morti di fame nel giro di un anno. Ekaterina ha cambiato diversi orfanotrofi. Ha terminato l’istituto tecnico pedagogico. Vive a Voronež. Kuz’mina Tat’jana Petrovna, nata nel 1921. Proviene da una famiglia di contadini dekulakizzati. Nel 1930 la famiglia è stata mandata negli Urali. Ha lavorato in una fabbrica di mobili. Vive nella città di Kropotkin, nella regione di Krasnojarsk. Mikljaeva Marija Maksimovna, nata nel 1923. Nel 1931 la famiglia è stata perseguitata perché composta di kulaki e deportata in Kazakistan. Ha lavorato come insegnante in una scuola. Vive a Voronež. Smirnova Nina Fominična, nata nel 1926. È stata deportata nella regione di Krasnojarsk insieme alla famiglia, composta di kulaki espropriati. Ha lavorato in un asilo. Vive nella città di Kropotkin, nella regione di Krasnojarsk. Frolova Marija Andreevna, nata nel 1921 in una famiglia di kulaki. Il padre è stato arrestato e fucilato. Lei ha partecipato alla seconda guerra mondiale. Ha lavorato come insegnante di geografia. Vive nel villaggio di Novyj Kurlak, oblast’ di Voronež. Charečko Antonina Semënovna, nata nel 1918. Nel 1930 è stata deportata nel nord insieme alla famiglia, composta di kulaki espropriati, nell’oblast’ di Archangel’sk. Dopo un anno sono riusciti a fuggire e a tornare fino a casa, ma quello stesso giorno sono stati deportati di nuovo. Il padre è morto in esilio. Lei ha lavorato in un kolchoz del villaggio di Rogovskij, nella regione di Krasnojarsk. Mikljaeva: In base a quello che dicevano i miei genitori, io non me lo ricordo, ma i miei genitori raccontavano che vivevano in una grande famiglia, ehm, una quarantina di persone. Vivevano così, in un’izba enorme che chiamavano Il Collegamento. In genere c’erano degli androni e su entrambi i lati si trovavano delle izbe spaziose. Vivevamo lì. Cinque figli, ognuno con una propria famiglia, figli che a loro volta avevano dei figli. In parole povere, si arrivava fino a quaranta persone. Smirnova: Chi lavora la terra sa benissimo che si tratta di un lavoro infernale. La famiglia si sfamava esclusivamente con il proprio lavoro e c’erano anche dei bambini, dieci persone, come ho già detto. Poi, due sono morti, bisognava dare da mangiare alla famiglia e pagare le tasse per la terra in affitto, pagavamo le tasse, chiaramente. Avevamo da mangiare, non si pativa la fame, indossavamo vestiti di tela e quando nel 1930 è iniziata la dekulakizzazione, mia mamma ha comprato delle pezze di calicò, da noi ci si metteva questi abitini per le feste di calicò e lei ci legava intorno alla pancia – eravamo in tre: io del ventisei, mia sorella del venticinque e del l’altra del ventiquattro, gli altri erano più grandi. Lei legava in vita i più piccoli con queste pezze di calicò e così ci siamo salvati, non ci hanno portato via. Con la dekulakizzazione, a papà hanno tolto pure gli stivali. Mikljaeva: Beh (sospira) si viveva come vivevano, come tutti i contadini, si andava in chiesa, si pregava, si credeva in Dio, si viveva in armonia con i vicini, con i genitori. È arrivata la collettivizzazione. Allora Svobodnoe è diventata un kolchoz e hanno iniziato a liberarsi di quelli un po’ più ricchi. Quindi li hanno definiti kulaki e hanno deciso, i capi hanno deciso, naturalmente, che non dovevano impedire la costruzione di una vita nuova, kolchoz, dekulakizzazione, esilio. Anche la mia famiglia è finita in questa categoria. Kuz’mina: Era una famiglia numerosa e sono morti tutti di fame. Sono usciti, sa, appena sono usciti dal villaggio sono stati fucilati, oppure li hanno fatti tornare indietro. Non so chi! Frolova: I.O. – Chi se n’è occupato? M.F. – Il soviet del villaggio. Indigenti, il comitato per gli indigenti, c’erano questi comitati per gli indigenti. I.O. – Chi poteva farne parte e come? M.F. – Gli ultimi, i fannulloni, quelli che non avevano mai lavorato, loro non avevano mai avuto nulla, erano gli ultimi. Ecco, allora erano al comando. Charečko: Allora c’erano i Komsod. I Komsod si trovavano nei consigli dei villaggi. Là c’era un consiglio del villaggio, dove si riunivano per decidere la sorte della gente e deportarla. Li caricavano anche alla stazione Brjuchoveckij. Molte famiglie sono state mandate là. Senza portare nulla. Hanno dovuto lasciare tutto. Hanno preso tutti. Sono arrivati i carri. Noi eravamo ancora a casa; i cuscini, la macchina per cucire a pedale, i cuscini e i tavoli erano belli, se li sono presi e hanno venduto tutto al mercato. Mikljaeva: Il foulard non l’hanno strappato via dalla testa. Le gonne in più le toglievano, anche alle madri. Si indossavano tre gonne insieme per poterle tenere. Erano così pignoli, talmente fanatici della nuova vita da obbligarti a togliere le due gonne in più, ne bastava una. A.K. Chi erano queste persone? M.M. Compaesani. Fannulloni che non volevano lavorare la terra. Braccianti. Kuz’mina: Ecco. E poi è toccato a noi. “Staccatevi dalla stufa!”. E noi: “No!”. “Staccatevi!” e noi ci siamo messi a urlare. Ecco, e poi è entrato uno, forse, e poi hanno preso l’attizzatoio e con quel piccolo attizzatoio ci hanno, capisce? Ci hanno tirati fuori uno per uno, ci hanno fatto uscire dalla casa e “restate in cortile!”. Capito? Restate in cortile. E così ci hanno radunati tutti, ecco, la mamma è arrivata di corsa dalla chiesa e le hanno detto che ci avevano dekulakizzati. Anochina: Per come lo ricordo io, era un giorno soleggiato, chiaro. Arriva uno con i calzoni militari a sbuffo, con un libro, un registro, che dice: “Preparatevi”. Mia madre dice: “Dove?”. “Trasferimento”. Mia madre gemeva, mia sorella è scoppiata in… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista

Glu ultimi testimoni. Intervista

Michail Iosifovič Tamarin ricorda: La storia della mia vita non l’ho raccontata a nessuno Michail Tamarin è nato nel 1916. Ingegnere e violinista, è stato arrestato due volte. È stato nei campi della Kolyma e in esilio nella regione di Krasnojarsk. L’arresto e le sue conseguenze Il sedici aprile del trentasette mi hanno fatto venire sulla Kuzneckij Most ventiquattro. Da quel momento, capisce, ho fatto amicizia con i miei compagni di corso. In realtà, dal quarto anno è arrivato quel Saša Brezickij e anche Miša, un altro compagno, che sono diventati miei grandi amici. Ci divertivamo con le ragazze, organizzavamo festicciole, già. Ecco, mi è stata mossa un’accusa terribile: аvremmo organizzato riunioni controrivoluzionarie e preparato atti terroristici contro il partito e il governo. In realtà, all’inizio mi hanno interrogato. È capitato tutto in modo talmente inaspettato da risultare semplicemente spaventoso. Mi hanno messo in cella d’isolamento, si sentivano solo i lamenti delle persone dalle celle vicine. C’era un silenzio di tomba. Si chiamava torre Pugačëv, sì, torre Pugačëv, mi ricordo. Quella stessa notte, ecco, ho sentito il rumore delle chiavi, il loro tintinnio. La cella si è aperta ed è entrato Petrov, già direttore della prigione, e due o tre assistenti, i quali mi hanno consegnato la sentenza di condanna. “Sentenza di condanna. Gli organi della direzione generale dello Stato per la sicurezza dell’URSS hanno scoperto un’organizzazione terroristica studentesca d’ispirazione buchariniana, finalizzata a compiere atti terroristici contro i dirigenti del partito e del governo”. Ciò comportava l’arresto di tutti gli affiliati, la confisca dei beni e la fucilazione entro ventiquattr’ore. Avevano promulgato questa legge dopo l’assassinio di Kirov, nel trentaquattro. Ecco, se ne sono andati lasciandomi questa sentenza da leggere. Io l’ho letta e mi sono sentito male, proprio lì, su quel divano di ferro. Anzi no, non un divano ma un letto, con il materasso imbottito di fieno. Ho sentito una pozza sotto di me, capisce? Mi deve scusare, avevo perso la facoltà di controllare i miei organi, stavo davvero malissimo. Sono rinvenuto la mattina presto e mi hanno detto: “Raccogli le tue cose; dai, raccogli le tue cose”. Ricordo che avevo solo una cosa: lo spazzolino da denti. Nient’altro. Mi hanno portato giù, di sotto, mi hanno messo in una specie di vano e mi hanno costretto a spogliarmi completamente. Hanno perquisito i pantaloni, tutto, tutti gli abiti. Poi, dopo avermi fatto rivestire, mi hanno portato fuori dalla cella. Siamo saliti su una di quelle auto speciali e lì c’era una celletta dove si poteva soltanto sedersi; alzarsi e sedersi. È evidente che in quella cell/, in quella macchina c’erano varie cellette, poi ho scoperto che nelle altre si trovavano i miei compagni, che dovevano essere trasferiti al Collegio Militare della Corte Suprema con sede nel carcere di Lefortovo. È durato poco. Io ho detto: “Dinanzi alla morte la mia coscienza è pulita, non ho nessuna colpa, è tutta un’invenzione”. “Tutto?” – “Tutto”. La corte si è ritirata per deliberare. Mi hanno riportato nel corridoio, di nuovo, e sudavo, perché ero consapevole delle accuse che mi rivolgevano, sì, sì. Dopo più di un’ora che stavo lì in piedi, mi hanno riportato indietro: il caso è stato rinviato per ulteriori indagini. Mi hanno riportato nella cella da cui mi avevano prelevato e, sa, nessuno mi ha riconosciuto, tant’ero sconvolto; non riuscivo a riprendermi, non riuscivo a parlare, nulla. Mi hanno fatto sdraiare e per tre o quattro giorni sono rimasto nell’ospedale per detenuti, finché non mi sono ripreso. Il trasferimento nella Kolyma Già, era un treno merci quello usato per il trasporto dei detenuti. Ci hanno portato lì di notte, con i cani e tutto il resto, le guardie ci hanno messo sui vagoni merci. Ecco, ricordo che siamo saliti sulla carrozza, abbiamo occupato i tavolacci e siamo rimasti ad aspettare. In quel momento si è aperta di nuovo la carrozza e sono saliti i criminali comuni; sono entrati in quello scompartimento e ci hanno buttati tutti giù dai tavolacci, capisce? Ma tra noi c’era un militare, il colonnello Pozorich, al quale avevano strappato le mostrine. Sapeva sette lingue, tra cui due lingue orientali. Era un interlocutore molto interessante, raccontava molti romanzi e uno di questi, oh, ho dimenticato il titolo, ce l’ha raccontato quasi parola per parola. Quei romanzi divertivano anche i criminali, a loro piacevano molto, tanto che ci hanno fatto tornare ai nostri posti, e abbiamo dormito insieme. Per tutto il viaggio ha continuato a raccontare a memoria quel romanzo, come se lo stesse leggendo. Poi, ci hanno fatto scendere e ci hanno portati, a piedi, in giro per Vladivostok, al porto, al piroscafo, un qualche piroscafo, già. E ci hanno messi nella stiva. “Kulu”, il piroscafo si chiamava “Kulu” e con quel piroscafo siamo arrivati fino alla baia di Nagaev, proprio a Magadan. Abbiamo navigato di notte, viaggiando per circa tre giorni e tre notti, da Vladivostok, per doppiare le isole giapponesi, dove tutte le guardie hanno indossato abiti civili, senza mai consentirci di salire sul ponte. Siamo rimasti nella stiva con le pareti di ferro, al gelo. Era terribile. Il venticinque dicembre, di notte, ci hanno portati a Magadan e ci hanno fatto sbarcare. Nella baia di Nagaev, mi pare, sì. Quando ci hanno fatto sbarcare eravamo tutti, ehm, in abiti civili, il gelo era terribile. Era il venticinque dicembre e molti sono rimasti congelati mentre aspettavano di scendere dal piroscafo, soprattutto il naso, le orecchie e alcune dita di mani e piedi. Era terribile. Quella stessa notte siamo rimasti svegli, non riuscivamo a dormire. C’era una bufera, la neve copriva tutte le strade e ci hanno costretti a prendere le vanghe e andare a spalare le strade, capisce? Kolyma – La miniera Berzin 1938-1943 Così mi sono ritrovato nella miniera di Berzin, sì era la miniera di Berzin. L’insegna diceva così: “Miniera di Berzin”, poi l’hanno ribattezzata Verchnij At-Urjach, perché alla fine Berzin è stato arrestato. Ho passato cinque anni in quel campo, esattamente cinque anni. Di solito facevamo il turno di… Continua a leggere Glu ultimi testimoni. Intervista

Gli ultimi testimoni. Intervista

Lettere, pacchi, visite Lettere, pacchi e visite rappresentavano le gioie più grandi per i detenuti nei campi di lavoro staliniani. Le lettere dei parenti ti aiutavano a credere che non ti avessero dimenticato, i pacchi di alimentari aiutavano semplicemente a sopravvivere e le rare visite, quando avvenivano, erano felicità pura. —————- David Budënnyj (1930-2011) è stato arrestato nel 1950 con l’accusa di aver fatto parte dell’organizzazione giovanile “Unione Comunista della gioventù” e condannato a cinque anni di ITL [Isprovitel’no- Trudovye Lagerja, campi di lavoro correzionale], che ha scontato nei campi del Kazakistan. È stato riabilitato. Insegna all’università di Voronež ed è dottore in scienze economiche. All’inizio ero in isolamento, da solo. Per un mese, probabilmente. Solo. Fino a quei giorni di tensione durante i quali si è svolta l’inchiesta. Poi ne hanno messi lì altri. Lo guardo: un altro. Eravamo già in quattro e c’era anche un tipo, non ricordo il nome, uno capace. Giusto, era così. “Sai, si può scrivere alla mamma. Si può provare. Un biglietto”. Io dico “Come?”. “Ascoltami. Scrivi quello che vuoi. In ogni caso, scrivi in modo tale che neanche una parola si ritorca contro di te. Per esempio, non scrivere «Abbasso Stalin» o cose del genere”. In parole povere, non bisognava danneggiare se stessi ancora di più. “Ma come si fa a consegnarlo?”. Tu scrivi. Qualcuno ha una matita chimica e qualcun altro ha della carta… Io ho scritto il biglietto. “E ora?”. “Ecco, ora guarda”. Ha rovesciato il sacchetto che conteneva tutte le cose che mi avevano portato. Rovesciato. Quindi, sul fondo/, questo/ha nascosto il mio biglietto e ha rovesciato di nuovo il sacchetto. No, no, non ancora. Il biglietto era fissato, così non si rovesciava, era cucito. Qualcuno aveva ago e filo. I detenuti/come? Ogni giorno c’era la perquisizione. Però qualcuno ci riusciva lo stesso. Erano svegli. C’erano ago e filo. Era cucito sul fondo. Per esempio un centimetro e mezzo, forse. Il meno possibile, perché non si notasse. Lo si cuciva. Il sacchetto veniva rivoltato dalla parte giusta. Ed era vuoto.   Nikolaj Nastjukov è nato nel 1933 a Pavlovsk, nell’oblast’ di Voronež. Nel 1952 è stato arrestato con l’accusa di aver fatto parte di un’organizzazione giovanile antisovietica di stampo terroristico. Condannato a otto anni di ITL, ha scontato la pena in un Rečlag a Vorkuta. È stato riabilitato. È dottore in scienze biologiche. Vive a Voronež. Sì, si poteva ricevere visite ma erano molto brevi, circa, circa dieci minuti. Ecco, da un lato c’era una, una reticella; lì stavano i parenti, la mamma, in lacrime, andava lì, all’interno, nello spazio dove c’era la sentinella, intendo, o qualcuno/. Di solito un poliziotto o una sentinella, lì nello spazio gridavo qualcosa anch’io/. I.O. E non si sentiva niente. N.N. La mamma piange, è in lacrime, è ovvio cosa le dici, là. Sì, “va tutto bene”, tutto qui, ecco. Là gridi una cosa qualsiasi, tutto qui. Una visita c’è stata.   Susanna Pečuro è nata a Mosca nel 1933. È stata arrestata nel 1951 all’età di 17 anni in quanto membro dell’organizzazione giovanile “Unione lotta per la causa della rivoluzione” e condannata a 25 anni di ITL. Ha scontato la pena nei campi di Inta, Abez’, e nella prigione della centrale di Vladimir fino al 1956. Riabilitata, è storica e archivista. Vive a Mosca. Mi hanno portata davanti alla commissione medica prima del trasferimento. Il medico ha guardato e ha detto: “Allora, dunque, è uno scompenso. Ha un edema polmonare. Eh, dove la manderanno? Come farà ad arrivarci? Chi vive con lei?”. Io dico: “la mamma”. “Dove vive?”. E dopo qualche giorno mi hanno detto: “Senza roba”. E mi hanno portato al colloquio con mia mamma, alla quale avevo detto che andava tutto bene, che ci trattavano bene, tutto perfetto. La mamma non ha pianto, è rimasta lì tutta impietrita. Una visita di quindici minuti.   Elena Markova è nata nel 1923 a Kiev. I genitori sono stati perseguitati, il padre è stato fucilato nel 1937. Tra il 1941 e il 1943 ha vissuto nella zona di occupazione nell’oblast’ di Doneck. Dopo la liberazione dell’oblast’ da parte dell’esercito sovietico è stata arrestata da organi dell’NKVD e condannata a 15 anni di lavori forzati. È stata rinchiusa nel campo di Vorkuta per 10 anni e riabilitata. È dottore in Scienze Tecniche. Vive a Mosca. Sono finita a Vorkuta. Non mi hanno concesso un incontro con mia mamma. Anche questa è una cosa talmente atroce. Quindici anni di lavori forzati. Mamma è venuta in carcere, ma non le hanno permesso di avere nemmeno un incontro di addio con me.   Ol’ga Cybul’skaja (Sorokoumova), nata nel 1935 a Frunze, è figlia di perseguitati. Il padre è stato fucilato, la madre ha scontato una pena detentiva nel campo di Akmolinsk per le mogli dei traditori della patria. È ingegnere-chimico. Vive nella città di Korolev, oblast’ di Mosca. La mamma è tornata, ci avevano cacciati, vivevamo nell’appartamento del direttore a Frunze, ci avevano cacciati nel chiosco. Sedevamo sui fagotti e la mamma ha iniziato la ricerca febbrile di un alloggio da qualche parte. E l’ha trovato in una zona molto, molto periferica di Frunze. Ci ha portato lì, poi lei è andata a far visita a papà. E ha portato tutto quello che riteneva necessario: vestiti di lana, l’orologio e tutto, cioccolato, e quando ha visto papà, lei l’ha guardato e ha visto che esteriormente era molto cambiato. Aveva le dita completamente blu. Evidentemente erano i segni delle torture subite. La mamma gli si è gettata addosso dicendo: “Griša, ti ho portato tutto”, lui dice: “Nadja, e da fumare?”. Lei dice: “Griša, l’ho dimenticato, domani te lo porto”. Ma lui sapeva già che l’indomani l’avrebbero fucilato, era stato avvertito.   Nikolaj Nastjukov In un campo c’era, per esempio questa procedura. Il capo della sezione speciale, per non, diciamo, stare lì a rompersi le scatole, aveva dei moduli già preparati: “Sto bene, non mi serve niente. Spedite il pacco”. Così non doveva controllare ogni lettera scritta dai detenuti,… Continua a leggere Gli ultimi testimoni. Intervista